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La Redazione

 

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PANDEMIA IATROGENA

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A cura di Redazione CDC
Il 24 Novembre 2024
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Di Asia Martina

 

Medice, cura te ipsum.

Luca 4,23

 

 

Solo il profano, e non il medico, può arrestare la pandemia iatrogena. Solo il profano può ribaltare la nemesi medica. Lo sostenne nel 1976 il filosofo e scrittore Ivan Illich nel suo libro Nemesi medica. L’espropriazione della salute.

È proprio vero Ivan, dobbiamo ribaltare la nemesi, dobbiamo cioè arrestare la presunzione dell’individuo, in questo caso del medico, di cercare di essere un dio. Dobbiamo fermare ciò che tu hai definito hubris sanitaria (dal gr. ὕβρις “tracotanza”) e potremmo forse riuscirci capendo come sia proprio la malattia a darci la consapevolezza più profonda di che cos’è la vita. Potremmo accettare la malattia rifiutando la lettura per cui essa è un essere mostruoso. Potremmo riuscirci guardando in faccia la realtà e lottando per invertire il senso di marcia.

Viviamo in una società in cui si cerca ossessivamente di evitare la malattia, una società in cui bisogna prevenire e non curare, una società in cui il compito del medico è sempre di più quello di evitare nel paziente l’insorgere della patologia, “col passaggio dalla medicina concentrata sul paziente a una medicina concentrata sull’ambiente”. Forse non siamo più abituati alla sconfitta, al dolore, alla malattia, al malato, alla morte. Vogliamo sfidare questi mostri a duello, e vogliamo sempre vincere, perché incapaci di accettarli. A tal riguardo, tu parli della trasformazione del dolore e della menomazione della morte che da cimento personale è divenuto problema tecnico. Forse come dici tu, stiamo virando da una terapia del malato ad una “terapia del comportamento” in cui si verifica “un progressivo offuscamento dei confini tra le terapie somministrate in nome della medicina, dell’educazione o di una ideologia”.

 Siamo ormai addirittura disposti a lasciare nella solitudine più angosciante il malato vicino ad una macchina capace, apparentemente, di prolungargli la vita ed evitargli i dolori del corpo, incuranti che quelli dell’anima possono essere infinitamente più devastanti e non consolabili da un algoritmo.

Siamo affannosamente alla ricerca del santo Graal che ci dia la vita eterna, prede della convinzione che solo la disumanità delle macchine possa curare la malattia più grave degli uomini: l’umanità.

In un futuro non troppo lontano, le nuove generazioni di medici, a cavallo tra freddi robot d’acciaio e uomini in carne ed ossa, si aggireranno nel mondo ossessionati dalla prevenzione delle malattie, ancorati al dato statistico con le mani perennemente ricoperte da uno strato di gel igienizzante. E così, senza fermarsi nemmeno un momento per chiedersi quale sia il fine ultimo del loro vagare, non sapranno più riconoscere il senso del loro lavoro, talmente ossessionati dalla paura della morte da aver dimenticato il sapore dell’amore per la vita, talmente incapaci di sopportare la vita da essere costretti ad aggrapparsi ad essa per non scivolare nell’agnostico nulla.

“È venuto il momento […] di una pubblica liberazione dall’incantesimo dei mostri che sono stati generati dal sogno pansanitario dell’ingegneria ambientale”, dall’ecomedicina, ovvero è venuto il momento di liberare gli uomini dalla “loro alienata aspirazione a sopravvivere in un utero plastico”.

Dobbiamo riuscire a capire che il mostro non è la malattia, non è la morte, non è il malato. Il mostro è la non accettazione di essi, è ciò che ci fa rimanere immersi nella solitudine e nella paura. Perché è proprio la solitudine l’unica cosa che rimane se vediamo la malattia come avversario. Forse lo scopo ultimo del medico non è quello di curare tutti i malati, ma proprio quello di impedire l’abbandono di essi, ma “da quando il medico ha cessato di essere un artigiano esercitante un’arte su individui che conosceva di persona ed è diventato un tecnico che applica regole scientifiche a classi di pazienti, la malapratica ha assunto un carattere rispettabile”, e la malapratica di cui parli, Ivan, è una malapratica prima di tutto etica, morale e umana da cui non può che originarsi una malapratica professionale. La medicina da arte diventa scienza, il medico diventa ingegnere della sanità, la negligenza medica diventa casuale errore umano e l’insensibilità distacco scientifico.

Il mostro è la spersonalizzazione della medicina, che ha portato la malapratica da problema etico a problema tecnico e la malattia da normale condizione umana e opportunità di rinascita a forma di devianza.

Ed ecco spiegato il concetto di pandemia iatrogena: condizione sociale sostenuta dalla convinzione di non poter far fronte alla malattia in assenza di un medico che applica linee guida e protocolli prestabiliti da studi statistici, o ancora meglio da una macchina colma di empatia disumana e illusoriamente esente da malapratica professionale, e in cui, a conti fatti, il fine è solamente il denaro, mostro forgiato da buone intenzioni. 

Così, la pandemia iatrogena diventa anche iatrogenesi culturale, da te definita come paralisi di ogni sana capacità di reazione alla sofferenza, all’invalidità e alla morte, ed è l’estremo contraccolpo del progresso sanitario, come precedentemente già accennato. “La civiltà medica è pianificata e organizzata allo scopo di sopprimere il dolore, eliminare la malattia e annullare il bisogno di un’arte di soffrire e di morire”, e, infatti, “quando una cultura si medicalizza, le determinanti sociali della sofferenza agiscono in maniera distorta”.

 In fondo e in realtà, “godere di buona salute significa esser capaci di sentirsi vivi nel piacere e nel dolore”, e questo è direttamente proporzionale allo “stile con cui ciascuna società si esprime nell’arte di vivere, di fare festa, di soffrire e di morire”; “salute e cultura sono, infatti, in gran parte la stessa cosa” e soltanto in una cultura dove il dolore si considera rimediabile, accade che questo diventa insopportabile. Non riusciamo più a comprendere come l’accettazione del dolore e della malattia siano una pratica del buon vivere: nel momento in cui ci troviamo di fronte alla fallibilità del nostro organismo, tutto acquisisce un significato profondo e irripetibile e riusciamo a cogliere la bellezza collaterale della malattia; tutto acquisisce un senso, si ha la possibilità di esprimere emozioni e sentimenti mai esternati, la possibilità di ripristinare fiducie e amori sepolti da anni di rancore, la possibilità di rivalutare errori compiuti e cercare di rimediarli, la possibilità di lasciare a chi rimane sulla terra qualcosa in cui credere, qualcosa per cui lottare, ricordi da amare. Per quanto alto questo prezzo pagato potrà sembrare, sarà in ogni caso un affare.

Il dovere, l’amore, il fascino, la routine, la preghiera, la compassione erano alcuni dei mezzi grazie ai quali il dolore veniva sostenuto con dignità”. Il senso che la persona ha del proprio corpo, e con esso la sua salute, sono determinati dalla relazione che essa ha con i lati dolci e amari della realtà e del modo in cui si comporta verso i propri simili quando vede che soffrono, sono infermi o in preda all’angoscia. Il senso del corpo non è un’esperienza statica ma un dono di cultura che si rinnova di continuo.” Oggigiorno, il medico “pretendendo di saper prevedere gli esiti senza considerare la prestazione umana di chi deve guarire e la sua integrazione col proprio gruppo sociale, ha assunto la tipica posa del ciarlatano d’una volta”.

“La salute esprime un processo di cui ognuno è responsabile, ma solo parzialmente nei riguardi altrui”, infatti per il garantirsi di una salute ottimale, questa “capacità di autosalvaguardarsi” deve accrescersi “ma non certo, essere, sostituita dall’intervento medico o dalle caratteristiche igieniche dell’ambiente. Ognuno di noi è padrone e custode della propria salute, garantita dal proprio dedicarsi ad un corretto stile di vita inteso come possibilità di vivere e di morire in un ambiente sano sorretto da una cultura che favorisca l’accettazione della vita di cui sopra ho parlato, e da un intervento medico minimo e soltanto occasionale. Bisognerebbe far valere un noto detto napoletano: “curate ‘a sulo ‘a salute, sta’ sempe allere, sulamente accussì puo’ sperà bbene”, ovvero curati da solo la salute, stai sempre allegro, solo così puoi sperare bene. Erroneamente, invece, oggi si pensa che il rimedio “per ridurre la iatrogenesi” implichi “un ulteriore aumento di controlli medici”, ma questi “presunti rimedi generano mali iatrogeni di second’ordine” aumentando e rafforzando ulteriormente la “iatrogenesi clinica, sociale e culturale”.

 Si deve, quindi, guardare la iatrogenesi medica e clinica in un contesto più ampio, inteso come iatrogenesi culturale. La nuova medicina è solo una delle rappresentazioni e uno dei piccoli tasselli che si incastra perfettamente con tutti gli altri aspetti dell’odierna società: una società in cui non solo i malati diventano meri consumatori, ma anche i giovani studenti, addestrati a diventarlo anch’essi in ogni ambito in cui lo si può diventare (sanitario, lavorativo, ricreativo, e così via). Ciò che ci permette di diventare meri consumatori è il sottrarsi all’etica. Sottrarsi all’etica in ogni ambito sociale è sottrarsi alla vita spirituale intrinseca ad ogni essere umano. Sì, perché in ogni essere umano c’è un primum movens che lo spinge a vivere, possiamo negarlo ma non per questo possiamo sottrarci a questa verità. Sottrarsi all’etica è ciò che porta il medico a diventare, attraverso l’utilizzo di leggi scientifiche che hanno come frutto farmaci e trattamenti sanitari, un semplice esperto controllore e manipolatore di processi biologici, e tutto questo lo fa in base alle richieste consumistiche della società.

Quest’ultima intima a sottrarsi alla vera etica mascherando l’imposizione con la creazione di un’“etica” fantoccio che si appella ad una finta libertà, che altro non è che una libertà consumistica, in cui il popolo ripone tutta la sua fede. Ed ecco che la pandemia iatrogena non è che uno dei tanti risultati di questa tendenza dilagante a sottrarsi all’etica della nostra società.

Discostandomi leggermente dalle tue conclusioni e soluzioni ai problemi citati, Ivan, dico che ognuno di noi ha un compito più grande del proprio mestiere, e che la verità esiste. Sta ad ognuno di noi scoprirla e fare poi la sua scelta: “accettare la sopravvivenza obbligata in un inferno pianificato e tecnicizzato” o accettare i limiti umani e innalzarsi alla libertà

Di Asia Martina

24.11.2024

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