NAKBA: UN CRIMINE OSSERVATO, IGNORATO E RICORDATO

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DI ILAN PAPPE

countercurrents.org

Il 15 maggio di solito è una miccia che fa scattare un viaggio indietro nel tempo. E per un incomprensibile motivo ognuno di questi viaggi tira fuori un aspetto diverso di Nakba. Quest’anno, più di ogni altra cosa, mi preoccupa la continua apatia e indifferenza dell’elite e dei media politici occidentali alla difficoltà dei palestinesi. Nemmeno l’orrore del campo Yarmuk ha fatto associare, nelle menti dei politici e dei giornalisti, la possibile connessione tra salvare i rifugiati lì e il loro diritto riconosciuto internazionalmente di tornare a casa.

Il trattamento medico di Israele rispetto alla battaglia degli islamici al regime di Assad, rammendandoli e rispedendoli al campo di battaglia è considerato un atto umanitario dallo stato ebreo; il suo straordinario rifiuto, rispetto a tutti gli altri-molto più poveri- vicini della Siria di non accettare nemmeno un rifugiato del marasma siriano è passato inosservato.

È questo esistenzialismo internazionale e questa intenzionale cecità che mi riportano al 1948, nel periodo tra giugno e ottobre di quell’anno. L’11 di giugno fu annunciata, da parte delle Nazioni Unite, una tregua tra le forze sioniste e le unità armate arabe che erano entrate in Palestina l’11 di maggio. Entrambe le parti avevano bisogno di una tregua per riarmarsi, ma mentre gli israeliani ne beneficiarono così non fu per gli arabi, dato che Inghilterra e Francia posero l’embargo agli stati arabi sui rifornimenti navali di armi mentre l’Unione Sovietica e la Repubblica Ceca riarmarono le forze israeliane.

Alla fine della tregua fu evidente che l’iniziativa del tutto araba di recuperare la Palestina era destinata a fallire. La tregua diede la possibilità agli osservatori delle Nazioni Unite di vedere per la prima volta, sotto stretta osservazione, la realtà del territorio sulla scia del piano di pace dell’organizzazione.

Quello che videro fu una pulizia etnica ad alto ingranaggio. La principale preoccupazione del nuovo Israele al momento era di utilizzare la tregua per accelerare la dearabizzazione della Palestina. Tutto ciò iniziò una volta che le pistole furono messe sotto silenzio e fecero tutto di fronte agli osservatori delle Nazioni Unite.

Entro la seconda settimana di giugno, la Palestina urbanizzata era già stata persa e con lei se ne andarono centinaia di villaggi attorno alle principali città. Città e villaggi furono svuotati allo stesso modo dalle forze israeliane. Le persone furono mandate via, molti di loro prima che le unità arabe entrassero in Palestina, ma case, negozi, scuole, moschee, ospedali erano ancora lì. Una cosa che certo non possono non aver sentito gli osservatori delle Nazioni Unite è il rumore dei trattori che demolivano quegli edifici e il paesaggio circostante, ora che non c’era lo sferragliamento degli spari attorno a loro.

Ciò che essi hanno visto e sentito fu adeguatamente descritto come un’“operazione di pulizia” dalla persona indicata dal nuovo regime della territorio per supervisionare l’intera operazione, il capo della divisione nel Fondo Nazionale Israeliano (JNF), Yosef Weitz. Ha debitamente riportato alla leadership: “Abbiamo iniziato l’operazione di pulizia, rimuovendo le macerie e preparando la terra per la coltivazione e l’insediamento. Alcuni di questi villaggi diventeranno parchi.” Ha orgogliosamente scarabocchiato nel suo diario la sua meraviglia nel rimanere immobile a lato dei trattori che stavano distruggendo i villaggi.

Non si è trattato di un’operazione facile o di breve periodo. Continuò anche quando gli spari ripresero dopo dieci giorni, alla fine della prima tregua, durante la seconda tregua e nelle fasi finali della guerra quando le truppe che venivano da Iraq, Siria e Egitto stavano rientrando- ferite e sconfitte- a casa. La “guerra” nell’autunno del 1948 fu prolungata perché gli abitanti dei villaggi palestinesi, i volontari dal Libano e alcune unità arabe tentarono invano di difendere alcuni villaggi arabi nel nord e nel sud della Palestina.

Quindi, più villaggi capitarono sotto lo zampino e i trattori del Fondo Nazionale Israeliano. Gli osservatori delle Nazioni Unite hanno riportato abbastanza metodicamente la drammatica trasformazione della Palestina da un paesaggio arabo del mediterraneo orientale in un caleidoscopio di nuove colonie ebree circondate da pini europei ed enormi sistemi idraulici che scaricavano su centinaia di ruscelli che scorrevano tra i villaggi –rovinando un panorama che oggi può solo essere lontanamente ricostruito da diversi angoli intaccati di Galilea e della sponda occidentale.

Nell’inizio dell’ottobre del 1948, gli osservatori delle Nazioni Unite ne avevano avuto abbastanza. Decisero di scrivere un report cumulativo al loro segretario generale. Si può riassumere in questo modo. La politica di Israele, hanno spiegato al loro capo, era fatta dall’“estirpazione degli arabi dai loro villaggi nativi in Palestina con l’uso della forza e della minaccia”. Il tutto fu ripreso abbastanza interamente e fu mandato a tutti i capi delle delegazioni arabe nelle Nazioni Unite. Gli osservatori e i diplomatici arabi tentarono di convincere il segretario delle Nazioni Unite a pubblicare il report ma lo sforzo fu vano.

Ma il report fu menzionato ancora una volta. Il solo diplomatico americano, Mark Ethridge, rappresentante degli Stati Uniti nella Palestine Conciliation Commission PCC (il corpo indicato dalle Nazioni Unite nella risoluzione 194 dell’11 dicembre del 1948 per preparare un piano di pace per la Palestina post Nakba) tentò disperatamente di convincere il mondo che alcuni dei fatti accaduti erano ancora reversibili e uno dei modi per fermare la trasformazione era il rimpatrio dei rifugiati. Quando la PCC giunse alla conferenze di pace a Losanna in Svizzera nel maggio del 1949, lui fu il primo diplomatico americano che indicò chiaramente la politica israeliana come l’ostacolo principale alla pace in Palestina. I leader israeliani erano arroganti, euforici, non intenzionati al compromesso né alla pace, così disse a John Kimchi, il giornalista inglese che lavorava a Tribune al tempo.

Ethridge non mollò facilmente sulla questione del rimpatrio. Aveva alcune idee originali. Pensava che se avessero soddisfatto la sete di territorio israeliana, avrebbero permesso una sorta di normalizzazione nella Palestina post-Mandatory. Ha quindi suggerito che Israele annettesse la striscia di Gaza e che provvedesse ai rifugiati in quella zona, permettendo a loro di tornare alle loro case nei villaggi e nelle città della Palestina. A Ben Gurion piacque l’idea così come alla maggior parte dei ministri. Anche il governo egiziano si schierò a favore. Uno dubiterebbe del fatto che Ben-Gurion aveva permesso ai rifugiati di stare a Gaza, ma naturalmente non c’è più nulla da dire.

Incoraggiato, Ethridge sostenne che ora il suo governo avrebbe convinto gli israeliani a rimpatriare un addizionale e considerevole numero di rifugiati. Israele rifiutò e gli americani denunciarono l’“ostinazione” dei politici israeliani e richiesero che Israele lasciasse tornare molti più ebrei. Gli americani decisero di sospendere gli sforzi di pace a meno che Isreaele non cambiasse idea; difficile da credere oggi giorno.

Il Ministro per gli affari esteri israeliano, Moshe Sharett, era preoccupato circa la pressione americana che era accompagnata da una minaccia di sanzione e suggerì che Israele accettasse 100 mila rifugiati (ma che lasciasse stare la proposta di Gaza). Considerevole rimane il fatto che con il senno di poi i diplomatici americani tipo McGhee dichiarassero entrambe le cifre-250 mila rifugiati a Gaza e 100 mila proposti da Sharett-come insufficienti. McGhee sperava genuinamente che quanti più rifugiati possibili tornassero, dato che egli credeva ancora che la realtà nel territorio fosse reversibile.

Passarono i mesi ed entro la fine del 1959 la pressione americana venne meno. La lobby ebrea, l’irrigidimento della guerra fredda intorno al mondo e un focus delle Nazioni Unite sul destino di Gerusalemme come risultato della ribellione di Israele della sua decisione di internazionalizzare la città erano probabilmente le ragioni principali di questo. Fu soltanto l’Unione Sovietica che continuò a ricordare al mondo attraverso il proprio ambasciatore alle Nazioni Unite, e Israele attraverso una corrispondenza bilaterale, che la nuova realtà sionista creata sul territorio, fosse ancora reversibile. Entro la fine dell’anno, Israele ritrattò anche in merito alla prontezza di rimpatriare 100 mila rifugiati.

Stabilimenti ebrei e foreste europee furono prontamente piantate sulle centinaia di villaggi nelle zone rurali della Palestina e i bulldozer israeliani demolirono centinaia di case palestinesi nell’area urbana e strapparono l’anima araba della Palestina.

Bohemiens israeliani, yippies e i nuovi disperati arrivati immigrati ebrei “salvarono” alcune di queste case, ci si stabilirono e il loro possesso fu approvato con il senno di poi dal governo. La bellezza delle case e la loro posizione le rese una eccellente manna dal cielo; ricchi israeliani, ONG internazionali e legazioni le scelsero come i loro nuovi quartier generali.

Il saccheggio che iniziò all’alba del giugno del 1948 mosse i rappresentanti della comunità internazionale ma fu ignorato da chi li aveva mandati: dagli editori dei giornali, direttori delle Nazioni Unite e i capi delle organizzazioni internazionali. Il risultato fu un chiaro messaggio di tono internazionale a Israele: la pulizia etnica della Palestina, così illegale, immorale e inumana com’era, sarebbe stata tollerata.

Il messaggio fu ben ricevuto in Israele e subito implementato. La terra del nuovo stato fu dichiarata esclusivamente ebrea, i palestinesi rimasero nella terra messa sotto regole militari che negavano diritto umani e civili, e furono messi in atto piani per prendere quelle parti di Palestina non occupate nel 1948. Quando furono occupate nel 1967, il messaggio internazionale era già stato incorporato nel DNA sionista di Israele: anche se quello che fai è osservato e registrato, quello che importa è come le persone potenti nel mondo reagiscono ai tuoi crimini.

Il solo modo per assicurare che la penna del ricordo sia più forte della spada del colonialismo è sperare in un cambiamento negli equilibri di potere in occidente e nel mondo in generale. Le azioni delle società civili, i politici coscienziosi e l’emergere di nuovo stati non ha ancora cambiato l’equilibrio.

Ma uno può prendere coraggio dai vecchi olivi in Palestina che hanno avuto la meglio ricrescendo nel terreno al di sotto e tra i pini europei; e dai palestinesi che ora, esclusivamente, popolano città ebree costruite sulle macerie dei villaggi in Galilea; e dalla determinazione della gente di Gaza, Bilin a Araqib, e sperare che questo equilibrio possa, un giorno, cambiare per il meglio.

Ilan Pappe
15.05.2015

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GUANDALINA ANZOLIN

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