Moondog, un personaggio fuori dagli schemi, dal look eccentrico e bizarro. Un artista raffinato e misterioso che attraeva tante persone nella New York degli anni ’50 del secolo scorso. Per anni ha prodotto musica per strada, lo chiamavano il vichingo della sesta avenue. Cultore della civiltá norrena, vestiva lunghe vesti fatte da lui e cappelli con le corna, le sue sonoritá rispecchiano l’immagine. Ascoltando per esempio “Moondog and his friends” primissimo album fatto da lui, si viene proiettati in altre epoche ed altri luoghi del mondo. Le sue percussioni richiamano le percussioni sciamaniche usate nei riti tribali, anche il tipo di musica generata sembra un precursore del progressive rock, le ripetizioni, gli schemi liberi, la ‘coltivazione’ del suono e la generazione di immagini e sensazioni usando la musica ed i ritmi. Ascoltando questo piccolo album “Moondog and his friends”, che ha catturato la mia attenzione per primo, verrete trasportati in un viaggio meraviglioso, quasi ipnotico, la sua musica respira e vive. Vi lascio all’interessante articolo di Domenico Francesco Cirillo, che fa una profonda analisi dell’artista e dell’uomo che sta dietro.
Giulio Bona, Dublino 02-07-2022
Moondog: la musica di un vichingo a New York
Da orrorea33giri.com di Domenico Francesco Cirillo
Moondog è il caso di un artista letteralmente fuori dagli schemi che, nonostante la sua eccentricità e la stranezza della sue composizioni, è stato (e rimane tuttora) fonte d’ispirazione per numerosi mostri sacri della musica popolare. Inoltre ha da sempre avuto una costante ammirazione e riconoscenza musicale da svariate tipologie di pubblico (dovute anche alla sua impossibile classificazione in semplici termini).
Sotto lo pseudonimo di Moondog si nascondeva Louis Thomas Hardin, nato il 26 maggio 1916 a Marysville, una piccolissima cittadina del Kansas, e cresciuto tra il Wyoming e il Missouri in quel grandissimo nulla che era il Midwest degli Stati Uniti, dove oltre a coltivare pannocchie, allevare mucche e andare in chiesa la Domenica non c’era altro da fare. Qui il giovane Louis iniziò sin dalla più tenera età ad appassionarsi alla musica, ma purtroppo a causa di un incidente in campagna con la dinamite perse la vista permanentemente a soli 16 anni. Nonostante questo la sua passione per la musica non ne risentì, ma anzi ne sviluppò una nuova personale concezione anche grazie all’appoggio dai genitori che lo iscrissero a una scuola musicale per ragazzi non vedenti.
L’arrivo nelle strade di New York
Nel 1943 si trasferì a New York dove ebbe la possibilità di conoscere e frequentare i più grossi nomi della musica classica e jazz dell’epoca e qui nel 1947 assunse il nome di Moondog (a quanto pare derivato dal nome di un cane posseduto da Hardin quand’era bambino che ululava spesso alla luna piena) e iniziò a esibirsi come artista di strada scrivendo piccole poesie per i passanti e suonando bizzarissimi strumenti di sua invenzione.
Oltre alla musica anche il suo aspetto era assai bizzarro anche per il newyorkese medio abituato un po’ a tutto: Moondog vestiva lunghe tuniche fatte da lui e indossava un elmo con lunghe corna, un omaggio ad un’altra sua grande passione: la mitologia norrena che aveva abbracciato una volta rigettata la fede cristiana (e anche per evitare di essere scambiato per un monaco o un fanatico di Gesù Cristo visto il suo aspetto con tanto di barba e capelli lunghi).
La sua presenza fissa tra le strade della Grande Mela gli diede ben presto il soprannome de ”Il vichingo della 6ª avenue” dal nome della strada in cui si esibiva comunemente, non molto lontano dalla sede di numerosi locali jazz sulla 52ª strada di cui attirava comunemente l’attenzione dei clienti.
Forse proprio per questo motivo ebbe l’opportunità di registare le sue composizioni, pubblicando nel 1953 il primo lavoro di una lunga serie: “Moondog and His Friends”, album ipnotico, minimale ed estremamente affascinante, colmo di ritmiche insolite e che mischiava elementi della musica etnica, classica ed orientale.
In undici brevi suite per un totale di appena 26 minuti s’iniziò così a delineare un proprio stile che ha il coraggio di unire ai generi sopracitati anche delle curiose influenze jazz, il tutto suonato con i bizzarri strumenti musicali di Moondog, percussioni di ogni tipo, violino e talvolta la voce di Moondog stesso in brevi testi ermetici. Musicalmente sembra di essere ad un pioneristico punto di contatto tra “Atlantis” di Sun Ra e le sperimentazioni ambient/drone di Angus McLise, che per intenderci, vennero registrati oltre quindici anni dopo.
Quello stesso anno uscirono due EP molto simili: “Moondog in the Streets of New York” e “Pastoral Suite / Surf Session”, entrambe le opere sono dei veri e propri reperti musicali che contengono diverse registrazioni avvenute direttamente sul vero palcoscenico del nostro vichingo: le strade della città. Abbiamo l’opportunità qui di sentire le meravigliose musiche di Moondog immerse nel loro contesto più concreto, con un sottofondo fatto di suoni del quotidiano (automobili, clacson e vociare dei passanti) che unendosi alla musica creano paradossalmente in un effetto ancora più astratto ed irreale. Tutto ciò che possediamo di queste “sessioni”, se così vogliamo chiamarle, sono quattordici brevissimi pezzi mesmerizzanti (di cui solo uno arriva alla durata di due minuti).
Nel 1956 escono i primi due album veri e propri: “Moondog” e “More Moondog” sono delle vere pietre miliari e probabilmente tra i suoi lavori più famosi.
In questi dischi risulta ancora più evidente l’influenza jazz, seppur certi strumenti rimangano irriconoscibili e il ritmo delle percussioni sempre molto minimale e tribale; in ogni canzone le percussioni eseguono un ritmo completamente diverso esibendosi in tempi assai poco usuali che fungono da base per gli intarsi arabeschi dei misteriosi strumenti di Moondog e della sua voce, o di quella di sua moglie (la giapponese Suzuko), in alcuni brani abbiamo il suono del mare ad accompagnare la musica, la bellissima “Surf Session”, un lungo assolo di violino.
“The Story of Moondog” dell’anno successivo è un altra preziosa testimonianza dell’unicità del suo stile, un album che si presenta come una specie di antologia dei suoi lavori già pubblicati con qualche nuovo inedito; tra cui uno dei suoi cavalli di battaglia: “Up Broadway”, un jazz sempre più ipnotico e sincopato quasi interamente improvvisato registrato con una full band.
La prova che il suo stile sia ormai diventato riconoscibile nonostante il suo essere idiosincratico, multiforme ed allo stesso tempo inclassificabile. Piccola curiosità: la copertina dell’album è stata realizzata da Julia Warhola, madre dell’artista pop per eccellenza Andy Warhol.
Sempre nel 1957 uscì uno dei suoi dischi meno noti e più strani, ma non per questo indegno di attenzione, “Songs of Sense and Nonsense – Tell It Again”, un album collaborativo con l’attrice Julie Andrews (proprio lei, Mary Poppins) e l’attore Martyn Green, pubblicato assieme ad un libro per bambini scritto ed illustrato dalla Andrews. Le brevi composizioni di Moondog si alternano a dialoghi ironici e totalmente surreali con l’attrice, giochi di parole, filastrocche e scioglilingua. L’album racchiude la perfetta dimensione della musica di Moondog presentandolo come un artista insolito ed avanguardistico, ma incurante di esserlo; i testi nonsense e gli scioglilingua manifestano esplicitamente la sua forma più sognante e gioiosamente infantile, come ogni grande artista outsider che si rispetti.
Per quasi dieci anni Moondog non fece più registrazioni pur continuando ad esibirsi per le sue strade, ma ormai il seme era stato già piantato e cominciò presto a dare i suoi frutti raccogliendo consensi da artisti rinomati che lo citarono come loro influenza, tra questi Duke Elligton, Benny Goodman, Kenny Graham e anche il grande Charlie “Bird” Parker che si mostrò interessato a realizzare un album in collaborazione con Moondog ma l’improvvisa scomparsa di Parker nel 1955 non rese purtroppo possibile questo grandioso progetto.
Il ritorno alla fine degli anni ’60 e la vita in Germania
Gli anni ’60 furono un periodo di grande sperimentazione e di risveglio collettivo che elevarono Moondog a una figura di culto; oltre ad apparire brevemente nel film cult Chappaqua di Conrad Rooks accanto alle principali icone della beat generation e della controcultura americana, in questi anni si guadagna il non meno significativo epiteto di “Beethoven dei Beatniks”.
Nel 1969 esce il suo nono album intitolato senza troppa fantasia “Moondog”. Questa volta il vichingo viene accompagnato da una vera e propria band in un meraviglioso esperimento tra il jazz e la musica neo-classica (a volerlo forzatamente racchiudere in determinati generi): un’opera fuori dal tempo, multiforme, cosmica. Nell’album troviamo anche il celestiale brano “Bird’s Lament” dedicata all’amico scomparso Charlie Parker, un’ode dallo spazio profondo per una delle figure più innovative di quegli anni, nonché la prova di cosa può uscire dalle mani di Moondog mettendogli a disposizione un’orchestra.
Due anni dopo “Moondog 2” segna un nuovo brusco cambio di rotta puntando su un suono ancor più minimalista dei suoi primi lavori, ma colorato da toni maggiormente solari e da atmosfere bucoliche e idiliache. I bellissimi piccoli brani alternano le solite percussioni etniche con qualche bizzarro strumento, ma a colpire è sopratutto l’intreccio tra la gentile e bonaria voce del vichingo con quella altrettanto dolce e delicata della figlia June.
Si approfitta anche della miglior qualità della registrazione e della nuova impostazione a due voci per reincidere in una nuova veste alcuni vecchi brani, tra questi l’affascinante “All is Loneliness”, reincisa in quel periodo nientepocodimeno che da un’altra sua grande fan chiamata Janis Joplin.
Guidato dalla sua passione per la cultura nordica nel 1974 Moondog si trasferisce stabilmente in Germania a Oer-Erkenschwick (poco distante da Düsseldorf) e qui nel 1977 esce un altro suo capolavoro ingiustamente poco ricordato: “Moondog in Europe”.
In questo caso la musica ha un’atmosfera più “notturna”, con un ampio uso di strumenti simil-glockenspiel e dell’organo a canne come se Hardin avesse voluto maggiormente ispirarsi ai maestri dell’Europa centrale, riadattando a suo modo Bach e Mozart. Quest’album racchiude praticamente ogni sfaccettatura musicale di Moondog, dal minimalismo tribale alle esplorazioni neo-classiche. L’ampio uso dell’effetto eco (forse dato dai luoghi delle esibizioni) dona all’album un’atmosfera ancora più malinconica e sognante.
Nel 1978 arrivano ben due album, il primo è “Instrumental Music by Louis Hardin”, un disco strettamente neo-classico, quattordici composizioni per archi e clavicembalo il cui secondo lato è interamente composto da sonate per organo. Qui gli studi sulla musica classica emergono prepotentemente in tutto il loro splendore e nelle bellissime nuove sfumature che Moondog sa dare agli strumenti e ai canoni classici.
Il secondo è “H’art Songs” con cui Moondog torna alle sue filastrocche per bambini. Questo è probabilmente l’unico esempio nella sua discografia che potremmo avvicinare agli standard della musica mainstream con canzoni di circa tre minuti cantate dallo stesso Moondog.
Le sue doti da songwriter naïf si rispecchiano perfettamente nei testi e nella musica, mostrando appieno di essere uno di quegli artisti che in qualsiasi occasione è capace di regalare un sorriso e migliorare la giornata.
Nel successivo “A New Sound Of An Old Instrument” pubblicato nel 1979 ai suoni dell’organo si uniscono le inconfondibili percussioni simil-tribali tipiche del Moondog che conosciamo. Una bizzarra unione che crea un’atmosfera onirica di sogni d’oppio di un vichingo in un oriente mai esistito su questa terra. Durante questo viaggio sonoro verso una favolosa Kubla Khan coleridgeana non c’è alcuna traccia di particolari virtuosismi, ma giusto l’essenziale per colpire emotivamente l’ascoltatore e trasportarlo in un mondo nuovo dove il lato B vede esclusivamente l’organo intarsiare continui arabeschi musicali.
Le ultime opere
Dopo ben sette anni di silenzio nel 1987 arriva “Bracelli”, un album inciso l’anno prima con la collaborazione dell’ensemble musicale svedese Fläskkvartetten (un quartetto d’archi accompagnato da un percussionista); il risultato è un incrocio poliedrico e multiforme che mostra influenze jazz, classiche e neo-medievali all’interno di una stessa canzone.
In “Elpmas”, oltre ai nuovi strumenti introdotti (alcune composizioni sono eseguite interamente con marimbe) e a un coro composto, Moondog si dedica anche al field recording inserendo come sottofondo per i suoi brani il rumore del mare e dei bambini che ridono e corrono. Per la prima volta troviamo un brano a cappella (cantato da un coro maschile) e almeno un brano totalmente ambient realizzato con minimali note di tastiera intitolato “Cosmic Meditation” della durata di oltre 24 minuti.
L’ultima grande fatica di Moondog è il celeberrimo “Sax Pax for a Sax” realizzato nel 1997 con un collettivo inglese chiamato The London Saxophonic (di cui solo i sassofonisti erano ben nove). Già nel 1995 era uscito un altro album chiamato “Big Band” registrato con la Saxophonic che venne ignorato dai più e che contiene diverse tracce incluse anche in “Sax Pax for a Sax”
L’album è un epico pastiche musicale dal sapore spaziale che mischia perfettamente jazz e musica neo-classica, tanto che finì addirittura al 22º posto della classifica di Billboard. Il critico David D. Duncan lo definì come il prodotto di «una grande banda nostalgica in preda al gas esilante». Dall’irresistibile solarità di “Paris” al nuovo maestoso ed ultraterreno arrangiamento di “Bird’s Lament” la musica di Moondog mantiene inalterata la propria unica armonia e il fascino ipnotico lungo le 21 tracce dell’album. Il tutto all’età di ben 82 anni.
Moondog morì in Germania nel 1999 e da allora hanno cominciato a spuntare come funghi numerosissime antologie (tra cui anche qualche inedito), apparizioni in compilation vari e ristampe dei suoi lavori; contemporaneamente sempre più musicisti lo hanno citato come fonte d’ispirazione, spesso proponendo cover delle sue composizioni, prendendosi così il posto che gli spettava di diritto nell’Olimpo musicale del ‘900 o meglio nel castello di Ásgarðr tra Thor e Odino.
Discografia
Singoli
Snaketime Rhythms (5 Beat) / Snaketime Rhythms (7 Beat) (1949)
Moondog’s Symphony (1949–1950)
Organ Rounds (1949–1950)
Oboe Rounds (1949–1950)
Surf Session (c. 1953)
Caribea Sextet/Oo Debut (1956)
Stamping Ground Theme (dal Kralingen Music Festival) (1970)
EP
Improvisations at a Jazz Concert (1953)
Moondog on the Streets of New York (1953)
Pastoral Suite / Surf Session (1953)
Moondog & His Honking Geese Playing Moondog’s Music (1955)
Album
Moondog and His Friends (1953)
Moondog (1956)
More Moondog (1956)
The Story of Moondog (1957)
Songs of Sense and Nonsense (con Julie Andrews e Martyn Green) (1953)
Moondog (1969)
Moondog 2 (1971)
Moondog in Europe (1977)
H’art Songs (1978)
Moondog: Instrumental Music by Louis Hardin (1978)
A New Sound of an Old Instrument (1979)
Facets (1981, musicassetta autoprodotta venduta ai concerti)
Bracelli (1987)
Elpmas (1992)
Sax Pax for a Sax with the London Saxophonic (1994)
Compilation
More Moondog/The Story of Moondog (1991)
Big Band (1995)
The Viking Of Sixth Avenue (2004)
The German Years 1977–1999 (2004)
Bracelli und Moondog (2005)
Un hommage à Moondog (2005, tribute album)
Rare Material (2006)
Moondog, The Viking Of 6th Avenue (2007, allegato ad un libro biografico)
Articolo originale: https://www.orrorea33giri.com/moondog-discografia/
Articolo di Domenico Francesco Cirillo, ri-pubblicato da Giulio Bona per ComeDonChisciotte.org