Maschi contro femmine: botte da orbi alle trans-olimpiadi

Di Andrea Zhok

Da quanto capisco – non seguo queste Olimpiadi come forma di boicottaggio privato – oggi nella categoria superleggeri donne gareggeranno Imane Khalif (Algeria) e Angela Carini (Italia).

Auguro all’atleta italiana ogni bene e possibilmente la vittoria.
Tuttavia c’è un problema non trascurabile. Imane Khalif – secondo quanto riportato dall’International Boxing Association nel 2023 – è biologicamente un uomo, in quanto l’analisi del DNA ha riportato la presenza di cromosomi XY e non XX.
Peraltro, se uno dubitasse dell’analisi cromosomica, uno sguardo alla struttura fisica dell’atleta non lascia molti dubbi.

Ora, in molti sport, e in modo particolarmente rilevante negli sport di combattimento, la differenza biologica tra chi ha avuto una crescita e pubertà maschile e chi ha avuto una crescita e pubertà femminile è molto marcata. La densità ossea è maggiore nei maschi, il che ha due implicazioni: conferisce maggiore resistenza alle percosse e, dipendendo la potenza di una percossa da massa per velocità, l’incremento della massa ossea conferisce maggiore potenza al colpo (le misurazioni medie danno una potenza di pugno maschile del 162% rispetto al pugno femminile).

Anche i tempi di reazione sono inferiori e sia le fibre muscolari bianche, da cui dipende la velocità, che rosse, da cui dipende la resistenza, sono mediamente maggiori nei maschi.

Chiedo scusa per essermi soffermato su queste banalità prosaiche, ma in un mondo in cui l’ideologia cancella la realtà, anche l’ovvio deve essere ribadito in forma dimostrativa.

E l’ovvio qui è che mettere su di un ring un atleta geneticamente maschio contro un’atleta geneticamente femmina è una grave scorrettezza. Può darsi che la sorte sia benevola, ma in generale è un’ingiustizia, con potenziali rilevanti rischi fisici.
(Segnalo un dettaglio forse non noto a chi non ha praticato la boxe. Alle Olimpiadi si utilizza un caschetto per gli incontri. Il caschetto nella boxe è l’apoteosi dell’ipocrisia. Infatti il caschetto limita soltanto le ferite superficiali, i sanguinamenti delle sopracciglia o degli zigomi – preservando gli spettatori – ma i traumi cerebrali legati all’entità della percossa sono esattamente identici, e naturalmente sono quelli ad essere i più pericolosi nel medio periodo).

Ora, la questione è: come si è potuti arrivare a questo punto?

Storicamente la cesura ideologica su questi temi avviene all’inizio degli anni ’70.

Fino ad allora le rivendicazioni di genere (first-wave feminism) avevano sollevato il sacrosanto tema dell’eguaglianza formale, legale, dei diritti tra persone di sesso, genere o inclinazione sessuale differente.

A partire dai primi anni ’70 si avvia invece un movimento ideologico con caratteristiche essenzialmente differenti, che non mira più al raggiungimento di diritti legali identici (in Occidente raggiunti), ma ad un non meglio precisato “superamento sostanziale” delle differenze.

Di questo superamento sostanziale fanno parte numerose battaglie distinte, il cui punto di caduta comune però è il rifiuto della realtà materiale nel nome di una rivendicazione ideologica (o, per chi vi aderisce, ideale).

Si tratta di una curiosa forma di idealismo, che inizia in sempre maggior misura a negare la realtà come se si trattasse di un improvvido accidente, qualcosa che dovrebbe essere superato di principio dall’autoaffermazione volontaria. Come in una novella forma di idealismo assoluto, l’Io si deve qui imporre al non-Io (alla Natura, alla Materia, alla Società).

Di questa tendenza fa parte il rigetto delle differenze sessuali, viste come latrici di discriminazione, nel nome della “lotta al patriarcato”, e ne fanno parte tutte le varie forme di rivendicazione dell’identità sessuale percepita, vista come come superiore all’identità biologica.

L’intera tematica viene infine presa ostaggio dall’atteggiamento politicamente corretto, che rende ogni discussione aperta di tali questioni difficile, rischiosa, sempre sull’orlo di accuse infamanti.

Il cerchio così si chiude.

La prima mossa sancisce la superiorità delle pretese idealistiche di una sorta di Io assoluto, che può e anzi deve imporsi sulla materia (sulla biologia, ma anche sulla realtà sociale).

La seconda mossa, mette al sicuro dalle confutazioni le pretese di questo Io assoluto, isolandolo dalle critiche, attraverso una loro delegittimazione a priori (come omofobe, sessiste, retrograde, ecc.).

E cosa resta fuori da questo cerchio splendidamente autoreferenziale?

Nulla. Nulla salvo la realtà, che anche se i suoi campioni sono stati silenziati, rimane tuttavia testardamente in piedi.
Ed è la realtà che, con i suoi tempi, la sua implacabilità, e purtroppo anche le sue vittime sacrificali, finirà per fare giustizia di questo delirio culturale.

Come osservavo in un recente libro, nella temperie culturale contemporanea si è imposta una forma ideologica del classico argomento del Sorite.

Mi permetto l’autocitazione: “Come noto l’argomento si svolge nei seguenti termini: dato un mucchio di sabbia, se ne togliamo un granello avremo ancora un mucchio; se togliamo un secondo granello avremo ancora un mucchio; ma quando esattamente se continuiamo a togliere granelli non avremo più un mucchio? È chiaro che non sappiamo a priori quanti granelli contino come un “mucchio”. Questo porta a concludere che in un certo senso, noi non sappiamo esattamente cosa sia un “mucchio”.
Questo argomento paradossale segnala un fatto generale –osservato in forma insuperata da Wittgenstein – ovvero che nessuno dei concetti che noi usiamo ha confini netti. Ma, come lo stesso Wittgenstein osservava, non avere confini netti non significa affatto non avere confini, significa solo che esiste sempre una fascia di casi dubbi.

Nel momento in cui trasformiamo la constatazione di non poter indicare un unico netto discriminante tra due concetti nella conclusione che non avremmo ragioni sufficienti per usare quei concetti, ci apparecchiamo un serio problema. Nel caso di salute e malattia, normalità e anormalità, come nella quasi totalità dei nostri usi concettuali non disponiamo di alcun confine netto. Se, come con il mucchio di sabbia, sottraiamo ad un soggetto normale uno ad uno alcuni attributi è certo che ad un certo punto non lo percepiremo più come normale. Se sottraiamo ad un soggetto sano uno ad uno certi attributi è certo che ad un certo punto lo dichiareremo essere malato.”

L’argomento del Sorite applicato ideologicamente oggi mira a eliminare la separabilità di due categorie tramite l’esibizione di casi intermedi.
Siccome in natura esistono sempre occasionali casi limite, spesso legati a fattori mutageni o patologici, questo ideologema consente sempre di annegare ogni differenza in una generica indistinzione, che apre la strada, a sua volta, a ogni decisione arbitraria.

Nel merito del problema discusso, relativo all’apertura delle competizioni femminili a soggetti geneticamente maschi, i meandri semantici delle distinzioni odierne (binarietà, ermafroditismo, intersessualità, queer, ecc.) servono più a intorbidire le acque che a chiarire alcunché.

Nel caso in oggetto il punto di fondo mi pare abbastanza semplice: in sport agonistici distinti per sesso non si può abolire surrettiziamente la distinzione sulla base del fatto che esistono biologicamente casi intermedi o dubbi.

Se lo si fa, l’esito è uno solo, ovvero distruggere la separazione tra sessi e con ciò, di norma, distruggere la credibilità e sensatezza degli sport femminili.

Si deve dunque definire una linea divisoria sensata e mantenerla con coerenza. La presenza corrente di testosterone non definisce una linea divisoria sufficiente, perché un ormone funziona nella fase di crescita muscolare e ossea. Il fatto di rientrare nei parametri alla vigilia di una gara può essere insignificante (come è per molti tipi di doping che funzionano in modo analogo, cioè nella preparazione e non per la specifica gara).

Può darsi che neppure la distinzione cromosomica XY / XX rappresenti sempre una distinzione sufficiente, ma certamente è un solido indizio.

Se però alla fine il problema dovesse risultare insolubile, o se nessuna delle soluzioni risultasse generalmente accettabile, ci si dovrebbe rassegnare a creare una categoria di competizione ad hoc (dopo tutto esistono – senza voler definire un’analogia stretta – le paralimpiadi, con la loro specifica dignità e i relativi regolamenti).

Chi insiste nel fingere che non vi sia alcun problema nel far partecipare persone geneticamente maschili alle gare femminili, che lo faccia per convinzioni ideologiche o rivendicazioni lobbistiche, contribuisce alla distruzione della credibilità dello sport (che non è principalmente uno “spettacolo”, ma è soprattutto un modo per addestrarsi a disciplina, coraggio, “fairness”, senso di giustizia – sportività appunto).

Di Andrea Zhok

01.08.2024

Andrea Zhok, Professore associato di Filosofia Morale, Università degli Studi di Milano.

Fonte: https://t.me/andreazhok/428

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