MA L’ISIS E’ UN FUMETTO DI FRANK MILLER O UN VIDEOGAME ?

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DI ROSANNA SPADINI

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Follow the money! Ai margini del caos, in questo nostro mondo rettiliano, governato da camaleonti dal sangue freddo, come particelle impalpabili di un pulviscolo asfissiante, i diritti democratici si sono dissolti, perché non più discussi, negoziati ed elaborati dai cittadini all’interno di quegli spazi pubblici, definitivamente scomparsi e trasferitisi nei “non luoghi”, direbbe Marc Augé, cioè nelle autostrade, nei supermercati, nei posteggi, nelle discoteche.

Luoghi disperatamente simili tra di loro, miseramente doubleface e biecamente uniformi, insomma configurazioni tipiche di quel “villaggio globale”, senza anima, coscienza e identità, nostra dimensione quotidiana, ove il cittadino riversa quotidianamente intorno a sé l’insensatezza della propria solitudine, alla ricerca di una logica dispersa. Dove i solitari cittadini del mondo globalizzato sono condannati a non incontrarsi mai, perché hanno smarrito la strada che porta in piazza.

Ai margini del caos dunque, mentre gli spazi dell’occidente in coma si sono desertificati di fabbriche, posti di lavoro, diritti e tutele, gli spazi del deserto irakeno invece si sono animati di furore mistico e rivendicazioni etniche, che cercano di espropriare il territorio alle forze straniere di occupazione. Come li chiamiamo, secondo quella logica fuorviante della neolingua globalizzata? Terroristi, banditi, criminali, partigiani, patrioti, fondamentalisti islamici, combattenti fanatici, ribelli, eversivi, rivoluzionari? A voi l’ardua sentenza.

Di certo l’antropologia politica dell’Isis non è tutta originaria della cultura araba o del mondo islamico, è invece piuttosto un prodotto globale, che si serve delle più moderne tecnologie per divulgare i propri mantra. Crocifissioni riprese dallo smartphone, teste di nemici infilzate su cancelli e postate su twitter. È tutto materiale che fa parte della cultura politica digitale globale. “Il mezzo è il messaggio” diceva Marshall McLuhan, in questo caso potremmo capovolgere l’affermazione: “Il messaggio è il mezzo”. Cioè l’Isis non può avere la pretesa di credibilità delle proprie totali insorgenze rivendicative di una perduta identità islamica. Il Califfato insomma è chiaramente una creatura del mondo yankee. E questo per vari motivi.

È evidente che il loro linguaggio si esprime in una logica globale e cerca comunicazioni espressionistiche multilingua, infatti sui blog dedicati ad Al-Baghdadi si cercano volontari traduttori dei messaggi jihadisti in ogni lingua. E l’Isis, che conosce bene il linguaggio dei trailer e dei clip dei videogame, crea video di propaganda terroristici che ricordano “Amnesia” o “Soma”, survival horror proposti da Frictional Games per PlayStation e PC, autori esperti nel confezionare videogame in grado di turbare il sonno anche dei loro più schizzati followers. Non però una semplice nicchia espressiva ma una necessaria precondizione per un linguaggio che si fa azione terroristica.

Due promo particolarmente indicativi sono i seguenti, costruiti con tecniche grafiche che visibilmente ricalcano linguaggi da videogame:

videovietato

Per il video clicca QUI

L’ultimo video poi in ordine di tempo è una minaccia rilasciata dal Califfato, che prende di mira il presidente Obama e la Casa Bianca, ed è montato come un trailer cinematografico, a metà tra il film di guerra e un videogame, con tanto di sigla finale “Flames of War – Fightins has just begun” (Fiamme di guerra – il combattimento è appena iniziato). Il video rappresenta i nemici avvolti dalle fiamme e definitivamente sconfitti, significativa è anche la scritta finale “coming soon”, appunto come nel trailer di un film:

Risulta così chiaro come l’analisi ideologica proposta da Samuel Huntington ne “Lo scontro delle civiltà” giustifichi il nuovo ordine mondiale, come governato dal riflusso aggressivo delle culture non/occidentali, e legittimi di conseguenza la guerra yankee contro l’oriente islamico. È una guerra di difesa contro l’aggressività islamica, per difendere i valori rappresentati dall’occidente. È una guerra vecchia come il mondo, Catone il Censore chiudeva ogni suo discorso con il famoso detto imperialistico: “Carthago delenda est!”. Come Cartagine anche l’Islam deve essere distrutto, insieme a tutto ciò che contrasta la volontà di potenza imperialistica USA di dominio del globo, su quella consolle multipiattaforma chiamata mondo reale. Passato e presente si riconfermano espressioni di quel gioco imperialistico che ripropone gli inganni illusionistici del potere.

Dunque non mi sembra completamente calzante la definizione del Califfato che dà Slavoj Zizek in un articolo “Il terrorista premoderno”, perché il filosofo e psicanalista sloveno avanza riflessioni non del tutto condivisibili, che anzi rivelano la sua implicita giustificazione della “guerra santa contro la barbarie”.

Non sfugge infatti al lettore più attento il suo pregiudizio “intellettualmente aristocratico” quando dice: “Ciò significa forse che l’Isis è premoderna? Anziché vedere nell’Isis un esempio di resistenza estrema alla modernizzazione bisognerebbe semmai concepirlo come un caso di modernizzazione perversa” (dunque i pervertiti sono sempre i nemici dell’occidente?)

Oppure quando cita William Butler Yeats: “I migliori hanno perso ogni fede, e i peggiori si gonfiano d’ardore appassionato. È un’eccellente descrizione dell’attuale divario tra i liberali anemici e gli ardenti fondamentalisti. ‘I migliori’ non sono più capaci di un coinvolgimento totale, mentre ‘i peggiori’ si fanno coinvolgere da un fanatismo razzista, religioso e sessista. Il terrore fondamentalista islamico non si basa sulla convinzione che i terroristi hanno della propria superiorità o sul loro desiderio di salvaguardare la propria identità culturale e religiosa dai violenti attacchi sferrati dalla civiltà consumistica globale. Il problema non è che consideriamo i terroristi fondamentalisti inferiori a noi, ma piuttosto che “loro stessi si considerano intimamente inferiori”. Paradossalmente, ciò che i fondamentalisti dell’Isis e altri come loro non possiedono affatto è proprio l’autentica convinzione della propria superiorità. (che è un po’ come dire: “non sono io che sono razzista, sei tu che sei terrone”).

Zizek ha invece ragione quando afferma che “La foto che mostra Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’Isis, che indossa un pregevole orologio svizzero è emblematica: l’Isis è ben organizzata in fatto di propaganda web e transazioni finanziarie.” Dunque sa dosare nel modo giusto l’uso reiterato dell’immagine che si fa terrore, delle didascalie e dei simboli arabi, ma assume anche un linguaggio globale, nei modi e nelle forme retoriche, e nel momento in cui adotta la comunicazione globale e l’universalità del linguaggio delle immagini, svende la propria “fede iconoclasta”, reprime la propria identità premoderna per consegnarsi al “Satana della modernità del mercato”.

William J.T. Mitchell in “Cloning Terror”, parte proprio dal ruolo che le immagini hanno ricoperto in quella che è stata definita la “guerra al terrore” e che si è espressa mediaticamente attraverso visioni dell’horror quotidiano, proponendo quell’immagine sedimentata nella memoria individuale e collettiva dell’uomo incappucciato nella prigione di Abu Ghraib, fotografato in piedi su una scatola di cartone e con dei fili elettrici collegati ai genitali. Non interessa tanto stabilire se l’immagine era vera o costruita (probabilmente la seconda ipotesi), quanto l’emotività ansiosa collettiva che l’immagine ha suscitato, giustificando così la “guerra santa”, anche attraverso le sue numerose riscritture e modifiche in contesti diversi. Per di più l’immagine, ricorda Mitchell, porta con sé anche una serie di tracce antropologico artistiche, scavate nel profondo di una civiltà e legate alla rappresentazione della Passione di Cristo, che vanno dall’”Ecce homo” (Tiziano, Caravaggio, Martinez …), al “Cristo Deriso” del Beato Angelico.

Dunque nelle scelte d’avanguardia mediatica del Califfato, antropologia, arte, fumetti, videoclip, videogame, slogan, effetti speciali, trailer, sono fibre di un tessuto comunicativo che attinge alla storia per irrompere nel presente con un furore ideologico feroce, ansioso di un espressionismo estetico dinamico e vigoroso. Come nelle migliori tradizioni propagandistiche del nazismo, quanto più il messaggio politico è ferocemente ideologizzato, tanto più l’estetica dell’immagine deve essere fulminea e dinamica. I tratti estetici ricordano infatti anche le atmosfere inquiete e radicali dei fumetti di Frank Miller, come “Holy Terror” (Sacro terrore), dove è difficile distinguere tra i personaggi chi sono i “buoni” e chi i “cattivi”.

Dinamismo estetico dunque, ma anche manageriale. Perché nel gioco dell’orrore della terra irakena, il Califfato sa controllare con grande abilità anche le transazioni finanziarie, e i 2 milioni di dollari al giorno, cui gli insondabili spazi del suo deserto fanno da sfondo, derivano dalla vendita del petrolio, che fino a poco tempo fa foraggiava colossi come la francese Total e l’anglo/olandese Shell. Tanto che 2800 tonnellate di petrolio vengono trasportate ogni giorno da “autocisterne fantasma” o da “invisibili oleodotti asinini”, che passano inosservati sotto le sonde satellitari. A chi sono destinate queste tonnellate di petrolio? Con brutale astuzia e abilità manageriale, i traffici investono paesi o regioni che formalmente sono nemici giurati: curdi, sciiti iracheni, iraniani, turchi, ma anche l’occidente.

Ma soprattutto da chi è armato il Califfato?

La risposta è quantomeno curiosa, perché le orribili truppe terroristiche armate prima dagli sceicchi del Golfo, sono cresciute velocemente in potenza e abilità, poi foraggiate di uomini e mezzi della guerra in Siria, ed ora infine ricevono armi dall’Occidente (Usa, Croazia, Bulgaria, Polonia) e dall’Oriente (Cina, Russia). L’Islam infatti non produce armamenti potenti ed efficaci, può solo acquistare armi dall’estero, oppure usare residuati bellici frutto delle invasioni occidentali.

Dunque per capire come va il mondo, mi raccomando usate sempre tre metodi infallibili: “Look at the pictures, read the words, and follow the money!”

Rosanna Spadini

Fonte: www.comedonchisciotte.org

26.09.2014

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