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La Redazione

 

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La sincerità non è sempre una virtù

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A cura di Redazione CDC
Il 27 Maggio 2023
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MARCELLO VENEZIANI GIORNALISTA DOCENTE

Di Marcello Veneziani

C’è una virtù che oggi sarebbe trionfante. Dico la sincerità. Da quando furono abbattute le barriere architettoniche che la ostacolavano – vale a dire il timore reverenziale, il rispetto, l’autorità, il decoro, il galateo, la paura della punizione – la sincerità si presenta nuda, sfacciata, a briglia sciolta, nei mille rivoli dei media. Via i tabù, vai con l’outing. Viviamo dunque nell’età della sincerità?
Per cominciare, la sincerità è una virtù socialmente pericolosa e difficilmente compatibile con l’amicizia, l’affetto e la simpatia, anche se poco sinceramente si sostiene il contrario. La sincerità è una signorina stimata ma poco amata. Nubile, non sopporta mariti e conviventi. A volte è irritabile, più spesso è irritante. Nell’immaginario sociale, la sincerità è una virtù puerile come lo è la bugia, il cui metro vistoso è il naso di Pinocchio che s’allunga. La sincerità più della bugìa ha le gambe corte, perché non va lontano, tronca molte relazioni. Alla sincerità come “virtù crudele” dedica da anni i suoi studi Andrea Tagliapietra (l’ultimo suo saggio è Sincerità, ed. Cortina). La sincerità è un modo di dire ma non implica un conseguente modo di agire. Il sincero può persistere in tutti i suoi errori, vizi, bassezze; si limita a dichiararli. Chi è sincero può non essere onesto, e chi è onesto può non essere sincero. Se confesso di aver rubato sono sincero ma non smetto di essere ladro. Viceversa posso dire una bugia a fin di bene, dunque onesta. Ma soprattutto non c’è nessun automatismo tra la sincerità e la verità. Il sincero non dice la verità ma dice quel che pensa o, peggio, quel che sente. Il sincero dice tutto ma non sempre pensa quel che dice. La sincerità è soggettiva mentre la verità implica lo sforzo a uscire dalla propria soggettività per avvicinarsi alla realtà obiettiva. La sincerità può autoingannarsi: costruisce castelli d’illusioni e va ad abitarci. “Il mio cuore messo a nudo” di Baudelaire indica un sincero aprirsi, esponendo le passioni, i tormenti, le speranze; ma la verità è un’altra cosa. Senza dire del sofisma cretese: se dico “sto mentendo” sono sincero o no? Quesito insolubile perché si autosmentisce in ambo i casi. La sincerità è spesso confusa con la spontaneità: niente freni, niente veli, dico tutto quel che mi passa per la testa. La spontaneità è im-mediata, non tollera la mediazione riflessiva; è diretta, selvatica, primitiva. La spontaneità non è una virtù, è solo la liberazione di un impulso, è uno sfogo, quasi un’incontinenza. La brutale franchezza spesso produce nel nome di un piccolo bene, la sincerità, gravi danni al prossimo e ai rapporti umani. Ferisce l’altrui sensibilità, non si cura dei suoi effetti, danneggia i legami sociali. Dal ’68 in poi si è identificata la sincerità con la spontaneità. Come la verità è rivoluzionaria sul piano politico, così sul piano interpersonale la sincerità è stata considerata libertaria, liberatrice e dissacrante. In fondo, franco sta sia per sincero che per libero. Da questa pseudo-sincerità sono nati due frutti, uno per affinità, l’altro per contrasto. Da una parte è sorto il coming out, detto in breve outing. Tutto ciò che era coperto dall’inibizione diventa oggetto di esibizione. Il pudore per l’intimità cede al narcisismo, con sfacciata sincerità. Dall’altra parte, il risultato paradossale della guerra all’ipocrisia “borghese” è la nascita d’un nuovo codice dell’ipocrisia, il politically correct: l’uomo di colore, il rom, il non vedente, il diversamente abile, il personale ausiliario, l’operatore ecologico; il frasario dell’ipocrisia. La sincerità delle origini si è capovolta in uno stucchevole rococò della falsità. Torna in altre vesti la massima: la parola è data all’uomo per nascondere il pensiero (e la realtà). Una parodia delle ipocrisie rivoluzionarie la fece già Niccolò Tommaseo nel Vocabolario filosofico-democratico del 1799.
La civiltà è il contrario della sincerità intesa come spontaneità. Ciò vale sia nell’ambito del costume e dei comportamenti che sul piano del pensiero e della fede. Nel primo caso, l’etica si accorda all’estetica e la sincerità non deve ferire lo stile e il buon gusto; nasce il galateo, la civiltà delle buone maniere, che velano la sincerità; le tende di pizzo del pudore. Ma anche in ambito teologico e filosofico la verità si è servita della menzogna quanto e più della sincerità. La pia fraus cristiana e le sante omissioni, le salutari menzogne di Platone, la doppia verità di Averroè, il bello mentire di Campanella, la dissimulazione onesta di Torquato Accetto, praticata anche da rigorosi moralisti come Seneca, le menzogne necessarie di Nietzsche (il velo d’Apollo che veste di bello l’orrore della verità e copre la tragedia del divenire). E in letteratura la menzogna troneggia. Gli uomini, diceva Tristan Bernard, sono sempre sinceri ma cambiano spesso sincerità. La realtà ha molte facce e noi possiamo essere sinceri rispetto a una e insinceri rispetto a un’altra. Possiamo dire la verità, ma non tutta la verità. Qui si tocca una questione cruciale che va oltre la sincerità e investe la verità, che ama nascondersi, si confonde col mistero e può essere colta per allusioni, bagliori e frammenti. È la poligonia del vero, di cui parlava Gioberti nella Teoria del sovrannaturale; la verità ha vari lati, non uno solo. Nessuno ha la verità in tasca, semmai noi siamo dentro la verità, ne cogliamo uno spicchio; ma ciò non impedisce che ci siano altri spicchi di verità che non vediamo, non vogliamo o non sappiamo vedere. Non è relativismo, che sottende la riduzione della verità ai punti di vista, alle interpretazioni soggettive; ma la verità ha più lati, ossia la verità è più grande di noi, ci trascende, noi possiamo aspirare a essere nella verità, ma non ad avere la verità in pugno. Questo salva la verità dal monopolio dispotico e dalla negazione nichilista.
Insomma la sincerità è una virtù interiore ma non sempre è una virtù pubblica. Spesso ferisce, nuoce, spezza i legami; non implica coerenza tra il dire e il fare. Non s’identifica con la spontaneità ma assume valore se è consapevole e riflessiva. La sincerità è poi soggettiva e dunque non coincide con la verità. È solo un lato del vero. Resta un pregio, una virtù vera, se indica l’aprirsi agli altri senza secondi fini subdoli. E se sa fermarsi davanti alla soglia del rispetto altrui, della carità, della prudenza e della pazienza. Come ogni virtù, la sincerità si fa tiranna se è unica e assoluta, sciolta da ogni vincolo e da ogni altra virtù. La sincerità non è la virtù regina, ha valore se non violenta altre virtù. Al poligono della verità corrisponde il politeismo delle virtù: le virtù si temperano a vicenda. Senza freni la sincerità è una virtù che sconfina nella malvagità.

Di Marcello Veneziani

18.08.2014

Marcello Veneziani, giornalista, filosofo e scrittore.

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/saggi/il-culto-della-sincerita-non-ci-libera-dall-errore/

 

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