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La cancellazione della civiltà europea

"Volontà d’impotenza": Intervista al saggista Roberto Pecchioli
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A cura di Redazione CDC
Il 11 Gennaio 2022
19609 Views

Di Costantino Ceoldo, ComeDonChisciotte.org

Per qualcuno può essere difficile trovare una risposta alla domanda su come abbiamo fatto a finire in questo stato di isteria irrazionale e totalmente ascientifica che perdura oramai da due anni. È un’isteria quasi globale, nel senso che colpisce l’intero mondo occidentale ma solo alcuni dei territori di confine e barbari (per noi, sic), dove la gente vive seguendo valori più o meno diversi da quelli “democratici e progressisti” così tanto cari alle élite e ai popoli occidentali.

La decadenza del nostro mondo è iniziata molto prima di questi nostri giorni, deboli e pieni di ignorante angoscia e guardandosi alle spalle con onestà intellettuale è oramai possibile individuare molti dei punti salienti in cui le scelte suicidarie sono state compiute. È possibile, cioè, sia capire quando i cattivi maestri hanno parlato e i loro discorsi hanno fatto finalmente presa, istruendo i loro seguaci con intenti che non erano quelli accattivanti dichiarati all’inizio sia quando i governi hanno deciso di farli propri con proclami altisonanti.

Osservare questo percorso è come guardare nell’abisso o guardare dritti negli occhi del serpente che sta per attaccarti: sai bene che sei in pericolo mortale ma non riesci a distogliere lo sguardo e rischi di finire, ipnotizzato, preda della bestia…

Che fare? E soprattutto: ha senso fare qualcosa? Dal momento che il processo non è evitabile né invertibile, che cosa è meglio: rallentarlo per quanto possibile o lasciare che guadagni momento fino alla fine definitiva, che sarà al contempo morte dolorosa e dolorosa rinascita?

Roberto Pecchioli, saggista e blogger, ha accettato di condividere con i lettori alcune sue considerazioni sul declino inevitabile del nostro mondo occidentale.

  • Potrebbe spiegarci la differenza fra Kultur e Zivilisation e perché questa differenza è così importante?

Innanzitutto, la traduzione in italiano: Kultur in tedesco significa cultura in senso lato, ovvero “civiltà”, il modo specifico di essere nel mondo di un popolo, di un tempo o di un’idea. Zivilisation è la semplice civilizzazione, il lento decadere dei principi e dei moventi. Si tratta di una contrapposizione presente nella cultura tedesca sin dal secolo XVIII. Nel XX secolo, la coppia oppositiva è diventata uno dei cardini della cosiddetta rivoluzione conservatrice, dal primo Thomas Mann, quello delle “Considerazioni di un impolitico”, sino a Oswald Spengler, l’autore del “Tramonto dell’Occidente”. Kultur, per Spengler, è la civiltà, mentre Zivilisation, civilizzazione (o società) è il suo stadio ultimo, manieristico, degenerativo. Nel suo percorso organico, ogni Kultur-civiltà attraversa vari stadi. L’iniziale slancio creativo porta alla maturità, alla pienezza, ma sfocia ineluttabilmente in una sorta di irrigidimento, sintomo di vecchiaia e tramonto. La Zivilisation è caratterizzata da norme e valori meramente esteriori, convenzionali, il cui esito è lo scetticismo diffuso e poi il materialismo, ultima tappa prima del definitivo tramonto. Per Thomas Mann proprie della Kultur sono l’arte e la metafisica. Ad esse si contrappone la Zivilisation, i cui ideali sono il pacifismo, l’egualitarismo, l’internazionalismo, l’umanitarismo. L’arte respira nell’eterno per cui non potrebbe mai sottostare al gioco della Zivilisation, che è legata ad un particolare contesto ed è quindi storicamente relativa e limitata. La Zivilisation è ideologia, la Kultur è tradizione. L’Occidente – o quel che resta – vive la fase estrema della Zivilisation, dopo aver dimenticato e addirittura respinto la Kultur di cui è figlio. Questo è il senso del Tramonto descritto da Spengler, ma espresso anche da letterati come Paul Valéry e storici come Arnold Toynbee. Ogni Kultur nasce, vive, poi ha un punto di inflessione e diventa Zivilisation, si isterilisce e infine muore. Questo, purtroppo, è lo stadio finale, convulso e confuso che stiamo vivendo.

  •  I greci distinguevano tra Zoé (la pura e semplice esistenza) e Bios (la vita nella sua interezza). Secondo lei, perché in questi nostri giorni moderni (sic) la semplice esistenza è così predominante?

I due termini (un’altra coppia oppositiva, segno del dualismo costitutivo della nostra civiltà) sono stati negli ultimi due anni riportati al centro del dibattito da Giorgio Agamben, il filosofo italiano contemporaneo più tradotto. Agamben, che ha trascorso la vita studiando le fonti e la natura del “sacro”, ha rilevato che a causa del virus Covid 19 l’uomo si è ripiegato nella semplice difesa della propria esistenza biologica. Da un lato, enfatizzando l’istinto di conservazione, dall’altro espellendo da sé lo spirito e l’anima, ovvero Bios. L’uomo contemporaneo d’Occidente ha perso non solo la fede in Dio e nell’Aldilà, ma anche ogni trascendenza, riducendosi al semplice respiro biologico. Per questo- qualunque sia stata l’origine del virus- ha tanto successo la politica di terrore nei confronti della popolazione, per questo accettiamo senza fiatare la perdita di libertà e di diritti e l’esproprio del nostro stesso corpo fisico. L’esserino invisibile, in fondo, ci ha smascherato: non crediamo più in nulla, se non nella nuda vita. Il potere lo sa e approfitta per imporre un’agenda sociale, economica, esistenziale, dalla quale usciremo tutti più poveri, meno liberi, meno “uomini”. Una piccola osservazione rispetto alla domanda: l’uso del termine “moderno” non è casuale. In sé significa soltanto “al modo odierno”. Nella realtà, moderno significa per noi attuale, nuovo, quindi bello e giusto, contrapposto a tutto ciò che è “di ieri”. Il problema è l’odiernità, ovvero la riduzione dell’uomo e della vita al presente. Screditare il passato significa tagliare i ponti, ma anche non avere fiducia nel futuro. La nuda vita, “Zòe” è moderna in quanto vale nell’istante, senza prima e dopo, come per gli animali: il presente fatto di puntini successivi, privi di un filo. È questo l’esito che fa davvero paura.

  • Nicolás Gómez Dávila affermava che il mondo moderno non verrà punito, il mondo moderno è la punizione…

È così, nel senso che neppure si accorge di essere degradato, disumano, informe. Tutto ciò a velocità crescente, poiché – ce lo insegna la fisica – motus in fine velocior. L’uomo senza qualità, addestrato, addomesticato, dipendente dagli apparati, denaturato, cioè strappato alla sua essenza, è la punizione di sé stesso, ma se ne renderà conto nell’atto finale, sempre meno lontano. Una società di morte – gaia, igienizzata, ma pur sempre morte- non può che realizzare il suo obiettivo, sparire. Dàvila scrisse alcuni aforismi particolarmente fulminanti; me ne viene in mente uno: le cattedrali non furono fatte per l’ente del turismo. È tremendo constatare che il nostro tempo non sa edificare, ignora il senso del sacro, irride ogni fede, ogni causa perseguita con sacrificio. Le cattedrali sono vuote di fedeli ma piene di turisti, così come ogni monumento, opera d’arte, simbolo di civiltà non è altro che una “location” per scattare il selfie (uno dei simboli più ridicoli della Zivilisation agli sgoccioli) da postare sulle reti sociali, una specie di certificato di esistenza in vita dell’umano post moderno, o per girare spot pubblicitari. L’universo-merce. Se tutto questo non è una punizione…

  • Lei parla spesso di “oicofobia” e “volontà di impotenza”. Di cosa si tratta precisamente? Che origine hanno?

Su questi temi ho scritto due libri, “Elogio dell’appartenenza” [1] e, appunto, “Volontà d’impotenza” [2]. Oicofobia è un neologismo inventato da due intellettuali non conformisti, l’ebreo francese Alain Finkielkraut e l’inglese Roger Scruton. Significa odio di sé, disprezzo per ciò che si è, per la civiltà di cui si è figli. L’odio di sé è una malattia degenerativa. Innanzitutto perché è innaturale: ogni essere ama sé stesso, se arriva a odiarsi qualcosa di torbido, di terribile ha attraversato la sua mente. Se questo capita a una civiltà- la nostra – significa che il tramonto è vicino e incombe la notte. Oicofobia, in termini di civiltà, significa gettare nella spazzatura tutto ciò che ci ha resi quello che siamo. Significa anche arrendersi senza combattere, anzi con stupida allegria, come chi si libera di un peso. È il contrario della “volontà di potenza”, che per Nietzsche è l’istinto degli uomini e delle civiltà in ascesa. Prima di lui, il pessimista Schopenhauer aveva teorizzato l’insensatezza del vivere, parlando di noluntas, non volontà. Volontà di impotenza è il nome che io dò all’attitudine di chi si consegna alla volontà altrui, alle altre civiltà, di chi rinuncia a difendere le sue ragioni di vita poiché non ne ha più. Mi sembra che sia questo l’atteggiamento corrente in Occidente. Tuttavia, penso anche che, in qualche modo, ogni singolo uomo abbia riflessi di vita: non è detta l’ultima parola. Scrisse Curzio Malaparte che non è finita finché non è tutto finito.

  • Come ha potuto imporsi l’odio di sé nel nostro mondo occidentale

Non esiste una risposta semplice. Io penso che uno dei problemi sia la pretesa di universalità. Ciò che è vero in un certo sistema di pensiero, di valori e principi non lo è necessariamente per un altro. Nella passata “volontà di potenza”, abbiamo osservato l’Altro, le civiltà con cui ci incontravamo e scontravamo, misurandolo con un metro contraffatto, il nostro. Noi eravamo i progrediti, quelli “avanzati”, i giusti, coloro che avevano capito tutto, per merito della nostra scienza, della tecnologia, del modo di vivere che avevamo scelto. Se noi eravamo i “progrediti”, gli altri dovevano adeguarsi ai nostri canoni, essere come noi. In questo impatto- e nello scontro di civiltà e visione della vita che ne è scaturito- abbiamo cominciato a dubitare del nostro suprematismo e a considerare le nostre ragioni come altrettanti torti da riparare. Si è impadronito di noi il senso di colpa, quella che Hegel e Marx chiamavano la coscienza infelice, e tutto si è rovesciato nel suo contrario. Il bene è diventato male e viceversa. In senso spengleriano, è come se all’improvviso la Kultur si fosse arresa a una voce misteriosa che avesse prescriveva non solo di tagliare i ponti con il passato, con sé stessi, con tutto ciò che ci aveva caratterizzato per tre millenni, ma di odiare ciò che si era e si è. In termini psicanalitici, abbiamo ucciso il padre, ma non sappiamo più perché e rigettiamo l’eredità. Odiamo il nostro volto perché ci ricorda il suo, bruciamo tutto ciò che ci ha lasciato per nascondere le tracce del crimine. Come Caino dopo l’assassinio di Abele, ci condanniamo a vagare nel deserto, nascondendoci a tutti, anche a noi stessi.

  • Lei ha introdotto l’espressione “generazione codice a barre”. I codici QR e i vari Green Pass vanno perfino oltre. Perché l’essere umano ama venir marchiato e mostrare lasciapassare nazisti?

Il codice a barre rende meno che numeri: un grumo di segni e righe apparentemente uguali che designa me, proprio me. Mi fa diventare un prodotto di serie, una merce. Da oltre due secoli si parla di uguaglianza come di un obiettivo giusto, utile, necessario, il traguardo finale della vicenda umana. C’è un unico punto debole in tutto questo: gli uomini non sono uguali e in realtà non vogliono esserlo. Lo spiegò magistralmente George Orwell nella Fattoria degli animali, in cui tutti erano uguali, ma alcuni lo erano più degli altri. Significativamente, i maiali. Il potere- che certo aborre l’uguaglianza – sa che un gregge si domina facilmente. Quindi ci ha trasformato in pecore, lavorando affinché questa condizione ci piacesse. Meno libertà, meno cultura, meno conoscenza uguale masse addomesticate, alle quali si offrono le tre “effe” teorizzate dai Borbone: feste, farina e forca. Nulla di nuovo sotto il sole. Ci danno qualche svago, le serie televisive, il consumo, il sesso compulsivo; distribuiscono un po’ di farina – reddito di cittadinanza, gli ultimi spiccioli di Stato sociale- e, naturalmente, puniscono i reprobi. Ogni tempo ha il suo nemico. Ora è il turno dei non vaccinati, o semplicemente di chi dissente dalla narrazione ufficiale, sull’epidemia, sui nuovi “diritti” – guarda caso quasi tutti relativi alla sfera sessuale e pulsionale. Sempre, il potere designa un capro espiatorio, la cui punizione suscita l’applauso della folla, ricompattata attorno al potere. E poi non è che la gente ami essere marchiata, ma se togliamo il pensiero critico che cosa resta? La versione ufficiale, creduta per coazione a ripetere, la “comodità”, la facilità di stare nel gregge. Seneca, il filosofo che fu consigliere di Nerone, scrisse “facile transitur ad plures”, è facile passare con la maggioranza, rassicurante, comodo. Esenta dal pensare e dal giudicare, esattamente ciò che vuole il potere. Pensiamo alle leggi che vietano di “discriminare”, ovvero di giudicare, scegliere ciò che ci piace e ciò che non ci piace. Il codice a barre ci rende merci, il chip prossimo venturo ci degrada a esemplari zootecnici controllati da remoto. Ma come possiamo farlo capire, se oltre a chiudere gli spazi di opposizione, hanno ristretto il pensiero e rinchiuso la mente, come capì Allan Bloom, osservando la chiusura culturale indotta nelle università americane?

  • Teoria Critica della Razza, neofemminismo, gender, ambientalismo estremista che ammicca al cannibalismo esplicito. C’è forse un giocatore nascosto a cui giova questa situazione?

Penso che dovremmo rileggere più spesso Marx. Aveva torto nell’immaginare il comunismo come scienza e come liberazione, ma la sua capacità di analisi della società capitalista resta insuperata. Le idee dominanti sono sempre le idee della classe dominante. Tutte le pessime cose che lei cita, unite da vent’anni nella teoria dell’intersezionalità, sono nate nelle università americane, che sono istituzioni private. Chi sale in cattedra, non lo fa senza il consenso di chi paga i suonatori e quindi decide la musica. Gender, omosessualismo, cultura della cancellazione, femminismo rancoroso, antimaschile, razzializzazione, “salute riproduttiva”, droga libera o quasi, eutanasia, teoria di Gea e terrorismo climatico non sarebbero uscite dalle aule universitarie se qualcuno, dall’alto, non le avesse promosse ad agenda ufficiale dell’Occidente. L’oligarchia del potere – finanziario, tecnologico, industriale e quindi culturale – vuole così perché il suo progetto implica una popolazione ridotta, popoli omologati, nessun diritto sociale, l’uomo a taglia unica, equivalente, liquido, fungibile. Nessun complotto: è tutto alla luce del sole. Il Grande Reset del partito di Davos è chiarissimo: non avrai nulla e sarai felice. Non avrai nulla e non sarai nulla. Klaus Schwab, gran ciambellano del Forum Economico mondiale e George Soros, il sinistro miliardario “filantropo”, hanno dichiarato che non ritorneremo mai più al mondo di “prima”. Non era granché, invero, ma questo è mille volte peggio: un mondo capovolto in cui torna alla mente Shakespeare: le streghe di Macbeth (brutto è il bello, e bello è il brutto) e il tempo in cui “i pazzi guidano i ciechi” (Re Lear).

  • Il nostro è un declino inevitabile o si può fare qualcosa per tornare agli antichi valori? In altre parole: possiamo ancora confidare in una Tradizione per invertire il processo?

Da un punto di vista esclusivamente umano, il destino dell’Occidente – terra del tramonto – è segnato. Non sono sicuro che sia un male, però. Se abbiamo capovolto principi e valori, se viviamo nella volontà d’impotenza, se rifiutiamo di sopravvivere come civiltà, anche biologicamente, se persino la morte (la “buona morte” igienizzata e legale) ci appare una soluzione alla vecchiaia, alla malattia, al disagio, alla solitudine, è segno che siamo già finiti. Inutile l’accanimento terapeutico, il punto di non ritorno è probabilmente giunto. In ogni fine, tuttavia c’è un inizio. Chi ci sostituirà avrà volontà di potenza, amore per la vita e inevitabilmente dovrà fare i conti con l’immensa eredità che lasciamo. Noi l’abbiamo rifiutata, altri la considereranno preziosa e forse ringrazieranno i pochi che hanno tenuto accesa di fiaccola. In “Elogio dell’appartenenza” ho citato un brano di Antoine Saint Exupéry, l’autore del Piccolo Principe, che ho sempre nel cuore. È tratto da Pilota di guerra ed è lo sguardo smarrito ma indomito di chi osserva dall’alto le distruzioni dei bombardamenti: “non tutto è perduto se tra le pietre sparse di un cantiere o in mezzo alle macerie c’è un uomo, anche uno solo, che sa pensare a una cattedrale”. Siamo ancora in tanti a pensare a una cattedrale, dispersi ma non soli.

Di Costantino Ceoldo, ComeDonChisciotte.org

INTERVISTA VIDEO

Video intervista su Rumble: https://rumble.com/vs02zd-volont-di-impotenza.html

NOTE

[1] Roberto Pecchioli, Elogio dell’appartenenza, Passaggio al bosco editore, 2020

[2] Roberto Pecchioli, Volontà d’impotenza, Passaggio al bosco editore, 2021

11.01.2022

Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org

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