DI RITA PENNAROLA
Mi trovo fra i tanti che non hanno mai avuto particolare simpatia per Giuliano Ferrara. Stavolta però dico che dobbiamo ringraziarlo. Se non avesse trasformato il dilemma-aborto in un partito politico, se non si fosse volontariamente esposto al lancio di pomodori e uova sfidando la prevedibile, rumorosa impopolarità nelle piazze, oggi forse il diritto e il non-diritto di sospendere una gravidanza indesiderata non sarebbero argomenti tornati al centro del dibattito nazionale. Resterebbero là, nel chiuso delle coscienze, confusi con temi che non c’entrano un bel niente, come la libertà delle donne di scegliere il proprio destino, l’emancipazione femminile o l’autodeterminazione.
Sul piano strettamente biologico, la vita e la morte non sono questioni sulle quali possiamo scegliere. E questo non perché debba esistere un essere soprannaturale che possa decidere per noi, ma per una semplice esperienza quotidiana che accompagna la nostra esistenza, da quando c’è la vita su questo microscopico angolo della Via Lattea: non possiamo in alcun modo fermare la morte.La finitezza della conoscenza che ci è resa possibile dai limitati mezzi di cui disponiamo dovrebbe indurre in ciascuno di noi la “certezza” della nostra abissale ignoranza.
Limitiamoci a quello che vediamo. Un embrione o un feto non sono un tumore, ma spesso vengono trattati proprio come un tumore. Per molte donne e per tanti medici un aborto è doloroso come lo è l’asportazione di un carcinoma. E’ ora che queste cose ce le diciamo con chiarezza.
Da donna dico: non posso disporre pienamente del mio corpo. Non so se per uno scherzo della genetica, del fato, della natura o di qualcosa d’altro, ma dentro questo mio corpo può avvenire in certe fasi della vita un processo che non ho il potere di controllare. Non controllo, durante la gravidanza, se il tubo neurale o la colonna vertebrale si stiano formando perfettamente, o se le dita delle mani e dei piedi siano del tutto separate… Non controllo e non ne so nulla. Non controllo e, quindi, non posso interrompere un processo che in qualche modo non mi appartiene.
A maggior ragione affermo queste cose da comunista. Se il comunismo, quello originario, quasi evangelico, significa stare dalla parte degli ultimi e tutelare i loro diritti più dei miei, allora io dico che non c’è un ultimo più ultimo di quell’embrione o di quel feto. Nessuno è più indifeso. Perfino un protozoo, un unicellulare primordiale, di fronte all’estremo pericolo mette in atto le sue difese. Il feto no, cade sotto i colpi del bisturi. Non ha via di scampo.
Diverso è rendersi conto che ogni nuova vita non può essere patrimonio (o fardello) di una sola persona, ma in primo luogo di due persone. Chiedo leggi che inducano nell’uomo quella piena responsabilità sulla nuova vita cui finora, per millenni, era riuscito sistematicamente a sfuggire. Per allontanare ogni possibile dubbio sulla paternità esistono oggi le prove del Dna. Dovranno essere portate in tribunale, quelle prove, ogni volta che il “papà” cerca di scappare, con pene severe per chi abbandona la donna dopo aver determinato insieme a lei la gravidanza.
In secondo luogo, l’obbligo di provvedere a quella nuova vita sia di tutta la comunità allargata, chiamata a provvedere quando i genitori naturali non possono o non vogliono farlo. Circoscrizioni, municipalità ed altri apparati dello stato locale mettano in campo le strutture e il personale necessario. Occorrono programmi, leggi ben precise e presidi organizzati, case famiglia degne di questo nome, enti locali consapevoli dell’importanza del proprio ruolo in questa materia decisiva per le sorti dell’umanità.
Credo che sfidare l’impopolarità per accendere le luci su queste riflessioni sia necessario. Per le donne. Ma ancor di più per i comunisti.
Rita Pennarola
11.04.08