Di Andrea Falco Profili
La nuova America: tellurica e produttiva
Gli Stati Uniti sono un paese dalla doppia anima, due facce che si scontrano senza esclusione di colpi: da un lato, l’America autentica e profonda, quella dei campi, delle fabbriche e delle piccole città, dove si vive del proprio lavoro. È l’America produttiva, quella che coltiva, costruisce e si autogestisce. Dall’altro lato, le coste cosmopolite, le metropoli scintillanti e i college d’élite che da secoli plasmano un’America sofisticata, intellettuale e distante dalla realtà produttiva del paese.
Per decenni, i media hanno dato un’immagine caricaturale di questa rottura: l’americano è visto o come un cittadino colto e progressista delle grandi città, degno di una sitcom, o come un rurale rozzo e ignorante endogamo che vive in roulotte. Eppure, l’entroterra è abitato da una classe di lavoratori che costruisce la ricchezza materiale del paese: agricoltori, operai e artigiani. Le élite costiere, invece, popolano il mondo del terziario avanzato, il mondo accademico e della ‘new economy’, giornalisti urbani attenti al linguaggio e dagli alti titoli di studio, legati a un’economia che spesso nulla produce di concreto. Vivono di lavoro improduttivo e dal valore puramente finanziario, figlio del paradigma neoliberale, per cui misurare il valore è un’eresia ed è invece dettato da quanto siamo disposti a retribuirlo.
La vittoria elettorale di Donald Trump è stata il simbolico dito medio dell’America rurale e industriale, del Midwest, del Sud, delle Grandi Pianure e della Bible e Rust Belt contro questo establishment elitario. Queste comunità non accettano più di essere viste come i bifolchi della nazione, sapendo che – se smettessero di lavorare – lascerebbero vuoti i supermercati, ferme le fabbriche e spente le luci delle città. La loro ribellione è contro una classe che, in assenza, priverebbe la società solo di Serie TV ideologiche e ‘studi’ accademici pop e dalla dubbia credibilità.
Il loro voto ha scosso l’America, suscitando un terrore che ha varcato l’oceano fino in Italia, dove ora le classi urbane “improduttive” tentano di razionalizzare la sconfitta dipingendo i sostenitori di Trump come ignoranti e provinciali. Preferiscono sostenere il partito di Kamala Harris, come se a differenza dei vili ‘buzzurri’ dell’entroterra, ci fosse un che di aristocratico nell’aver riscosso successo tra i cartelli finanziari con le loro gargantuesche donazioni e mobilitando il non esattamente libero mondo dello spettacolo.
Il fenomeno del “woke”, il politicamente corretto esasperato, è l’espressione di una sinistra ormai pienamente accasata dentro i centri urbani, ormai lontana dai temi concreti dell’economia e che si rifugia nelle teorie astratte. Senza conoscenza diretta dell’acciaio o del carbone, si rifugiano nella speculazione intellettuale e nel delirio accademico semicolto, trasformando il disagio delle classi produttive in una spinta verso il movimento MAGA, un movimento che, lungi dall’essere ‘conservatorismo di destra’ all’anglosassone, è costituito da persone che dirigono la propria rabbia verso la grande finanza, credono nell’esistenza di élite economiche, e che queste servano esclusivamente i propri interessi e non quelli del cittadino medio, con le loro categorie hanno costruito una teoria anticapitalista, una teoria che vede in Trump l’uomo che può spurgare la palude da Wall Street e riportare la prosperità al cittadino comune.
Oltre l’ottimismo, scopriamo ogni carta
Ma, oltre ai sorrisi, è necessario mantenere cautela e ricordare che non siamo negli Stati Uniti. Donald Trump non è il presidente né per chi si scandalizza dalle ZTL nostrane né per chi, ingenuamente, pensa di trarne qualche vantaggio indiretto. Un fatto essenziale da considerare è che queste elezioni, descritte dai media come “l’evento del secolo”, sono state in realtà snobbate anche dai vertici di Blackrock, il più grande cartello finanziario americano. Si nota inoltre una leggera apertura alla destra da parte del metaverso di Big Tech, una mossa opportunistica che lascia intendere che il cambiamento in atto non è a favore della gente comune.
Gli indicatori economici, l’aumento vertiginoso delle paghe ai militari, tutto sembra preludere a uno scenario prebellico. Non abbiamo certezze, ma è possibile che Trump non sia l’antidoto alla guerra, bensì solo il dolcificante per renderla accettabile alle masse. La domanda sorge spontanea: in una nazione come gli Stati Uniti, segnata da una crisi dell’arruolamento e da un malcontento generale, sarebbe stato possibile ottenere il supporto popolare per un grande conflitto? La cauta apertura di alcuni settori della new economy a destra suggerisce che Trump non sia più l’incognita di una volta. Anche il conservatorismo di destra, in Europa, ha perso la carica antisistema che aveva fino al 2018-2022: oggi, a quella destra una volta criticata per i legami con l’Oriente, si è sostituito un melonismo atlantista, a parole persino più di quanto lo sia Trump.
Questa nuova apertura mediatica ed economica verso la destra potrebbe essere un tentativo di riallineare, in chiave patriottica, le popolazioni occidentali in vista di un possibile conflitto. È verosimile che, spaventato dalla scarsa lealtà dell’uomo comune, la maggioranza che nel sistema di pensiero politicamente corretto ha il peccato originale di essere tale, il sistema culturale arretri su certi temi del politicamente corretto e del woke. La capacità improvvisa di figure come Elon Musk di esporsi senza conseguenze a livello azionario potrebbe essere il primo segnale di una graduale apertura della finestra di Overton a destra: ma funzionale solo al riabilitare la possibilità di critica di alcuni eccessi del wokismo, per riguadagnare la lealtà di quella maggioranza troppo bastonata nell’ultimo decennio.
Con questo non si vuole accusare un piano orchestrato dall’alto; l’idea che tutto sia predeterminato e immodificabile serve solo a quel sistema che, difendendosi, si dipinge come più solido e inaccessibile di quanto non sia. Il complottismo estremo diventa, in questo senso, una narrazione rassicurante e, paradossalmente, perfettamente funzionale a quel potere stesso: una scusa per giustificare passivamente il disfattismo.
La politica neoliberale, d’altronde, non si basa su ideologie ma su marketing: sonda gli umori popolari, e studia un linguaggio per accattivarsi il consenso. Con l’aumento della disaffezione e della disillusione, diventa indispensabile tenere alta la guardia. Già in passato, certi settori politici hanno adottato i temi delle masse arrabbiate per cavalcarli e appropriarsene, salvo poi abbandonarli con altrettanta rapidità, a riprova della loro mancanza di onestà.
Come si suol dire: “Ingannati una volta, colpa loro; ingannati due volte, colpa nostra.”
Di Andrea Falco Profili
17.11.2024