Di Guido Cappelli per ComeDonChisciotte.org
Apparentemente, le elezioni amministrative dello scorso 12 giugno non hanno presentato particolari novità: le forze di sistema, i partiti tradizionali e le loro emanazioni locali continuano a dominare il panorama elettorale con la salda presa di chi possiede pressoché tutte le leve del potere, a cominciare da quella, cruciale, dell’informazione. In verità, sono ormai decenni che, anno dopo anno, elezione dopo elezione, partiti e sigle “tradizionali” – da Fratelli d’Italia a Potere al Popolo, passando per tutto l’arco parlamentare salvo onorevoli eccezioni – mettono in scena questa commedia sinistra e beffarda in cui, mentre fingono di assestarsi legnate, restano tutti variamente accucciati ai piedi del Potere globalista.
Questa volta è toccato ai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni raccogliere una fetta dello scontento ormai dilagante, drenando in particolare dalle destre, mentre la Lega di un Salvini ormai ustionato al novanta per cento, si corrode nelle contraddizioni inerenti al ruolo di governo, scende nei consensi e insomma mostra la corda (un altro giorno, magari, parliamo della triste fine dei suoi due “ragazzi prodigio”, impegnati ormai full time a difendersi dagli improperi dei loro ex ammiratori inferociti e delusi).
Sull’altro fronte, quello dei cosiddetti “progressisti”, il panorama è ugualmente piatto e prevedibile: il PD si erge su queste macerie a “primo partito” nazionale, ma è ben lontano dal prefigurare una maggioranza chiara – cosa che peraltro non gli impedisce, né gli ha mai impedito, di governare de facto il Paese, dentro o fuori le stanze dei ministeri. Il crollo del Movimento 5 Stelle – il più atteso e clamoroso, dato il voltafaccia degli ultimi anni, indegno ma ampiamente prevedibile – si è tradotto in un aumento dell’astensione, che ormai sfiora livelli storici. Quest’ultimo punto è cruciale perché apre spazi di possibile consenso immensi e imprevedibili.
E in realtà, sottotraccia, nascosta nella miriade di liste civiche, civetta, di appoggio e quant’altro, malgrado questo paesaggio blindato, plumbeo, una novità sì che c’è stata, e altra non è che la comparsa, qua e là, a macchia di leopardo ma su tutto il territorio nazionale, di liste antisistema: una galassia, ancora in forma di nebulosa, che si pone in opposizione frontale all’attuale sistema oligarchico-partitico eterodiretto dalle centrali di potere internazionale di cui il proconsole Draghi è attualmente la massima espressione.
Queste forze, ancora atomizzate, sparse sui territori, dunque disuguali a seconda delle esperienze locali, hanno avuto il merito di visualizzare per la prima volta, sul piano politico-elettorale, il grande movimento civico che da oltre un anno si sta organizzando in Italia intorno alla critica serrata della gestione autoritaria e irrazionale dell’emergenza pandemica – un’emergenza che d’altra parte, come ormai sappiamo, è stata in gran misura creata e cavalcata con scopi politici che stanno sotto gli occhi di chiunque voglia vedere.
È quella miriade di comitati, coordinamenti, gruppi, partiti extraparlamentari, che nell’ultimo anno abbiamo imparato a conoscere come no green pass, ma che più correttamente potremmo definire come ispirati al restauro e all’aggiornamento dei valori costituzionali plasmati nella Carta del 1948.
Orbene, alle ultime elezioni amministrative quest’area del dissenso, variamente articolata e collegata, ha raccolto, in termini assoluti, percentuali basse, poche volte superiori al 3 per cento della soglia di sbarramento, ottenendo un pugno di consiglieri, uno a Palermo (l’europarlamentare ex Lega Francesca Donato), uno a Genova (il senatore Crucioli, ex 5 Stelle, oltre a una manciata di altri rappresentanti minori e qualche buon “exploit”, come a Lucca.
Un risultato (comunque poco traducibile a livello nazionale), a prima vista misero, come non hanno mancato di far rilevare, quando l’hanno degnato di uno sguardo, i commentatori del mainstream.
Ma il dato preoccupante su cui appuntare l’attenzione – e che in qualche modo avevamo paventato in precedenti interventi – è la reazione degli “amici”, ossia delle varie componenti dell’area stessa del dissenso.
Ebbene, contrariamente a quanto poteva aspettarsi qualche anima candida, tale reazione è stata (fatte salve le congratulazioni di circostanza che i diretti interessati hanno rivolto a se stessi) prevalentemente critica e negativa, soprattutto da parte di quelle organizzazioni che non avevano preso parte al processo elettorale o di quei militanti che non ci credevano.
Un enorme “Noi ve l’avevamo detto!” è risuonato sulle reti sociali di area, una sonora rampogna che qualcuno esibiva persino orgoglioso, compiaciuto palesemente del (presunto) naufragio della formula elettorale sgradita, del compagno di lotta antipatico, del gruppo vicino sentito come una minaccia al proprio confort ideologico. Per qualche giorno, l’atmosfera si è decisamente impregnata dell’aria greve del cupio dissolvi.
Uscite comprensibili e forse inevitabili, funzionali magari nel piccolo cabotaggio, ma dannose, controproducenti, deleterie, perché non tengono conto dei reali rapporti di forza, anzi li usano per farsene scudo e gettare la croce addosso al vicino.
Ancora una volta, dunque, giova risalire la corrente, ribaltare l’opinione dominante, provare ad adottare la prospettiva opposta: si è trattato, nelle condizioni date e tenuto conto della mostruosa sproporzione nei rapporti di forza, di un successo più che discreto: un battesimo del fuoco, che non è fatto solo di risultati finali, ma di coinvolgimenti tra gruppi, liste da costruire circoscrizione per circoscrizione, complicità, amicizie, sforzo comune, presenza continuativa sul territorio: cose che possono crescere e consolidarsi.
Una macchina nuova, costruita in “regime di sanzioni”, che ha cominciato il rodaggio e ha dimostrato di poter funzionare su strada. Se si prescinde da un “senso comune” da classifica calcistica, da esibizione del muscolo, e se invece si pensa al punto da cui siamo partiti e alla potenza degli avversari, in questa fase storica – a non più di un anno e mezzo dai primi vagiti di un dissenso organizzato – “buon risultato” non è né può essere una percentuale a due cifre, ma questo insieme di fattori che hanno costituito un’esperienza che, se sappiamo sfruttarla, può essere, appunto, un eccellente punto di partenza, un ottimo rodaggio.
La sproporzione principale – è disperante doverlo ripetere ancora e ancora –, quella che inibisce ogni tentativo di prendere il volo nell’acquisizione del consenso, è la schiacciante disparità sul piano mediatico, di mezzi informativi, cui timidamente e con inevitabile lentezza si sta cominciando a opporre una strategia di comunicazione organizzata e minimamente coerente.
La questione comunicativa è tutto, e come tale va presa. È dall’accesso limitatissimo ai mezzi di comunicazione che dipende, pressoché esclusivamente, il fatto che la realtà dei movimenti del dissenso sia ancora ignota alla maggior parte della popolazione (basta domandare un po’ in giro a caso); è un silenzio in parte voluto, una tattica tipica del sistema per annullare l’avversario, ma in parte anche reale, nel senso che ho potuto personalmente comprovare come molti giornalisti del mainstream siano talmente chiusi nella propria bolla da non immaginare neanche l’esistenza di gran parte delle organizzazioni che compongono il dissenso intorno al no green pass.
Un altro settore ci conosce ma diffida: in parte perché i media di regime ci presentano in modo distorto e caricaturale, in parte perché noi stessi, o frange delle nostre organizzazioni, ci incarichiamo di restituire un’immagine spesso ancora dilettantesca, spontaneista, inflessibile, o tutto questo insieme.
Ma la sproporzione di forze, in sé, non si può attribuire a colpa delle forze del dissenso, perché sono ancora in fasce, posto che si stanno articolando da poco più di un anno, il che in termini storici non è praticamente niente.
In realtà, in questo senso si è fatto moltissimo in un tempo storicamente brevissimo.
Prove di collegamento, geometrie variabili, incontri più o meno informali si susseguono incessanti ormai da tempo, con esiti alterni ma comunque progressivi. Alcune forze collegate già si delineano, raggruppate intorno a dei “poli” di attrazione politica. Ma restano ancora piccoli e grandi ostacoli, veti misteriosi, complessi inconfessati, tic, pregiudizi ideologici.
I movimenti di piazza, da una parte, ancora soffrono di eccesso di diffidenza e di una punta di troppo di antipolitica, che i leader (che purtroppo o per fortuna ci sono eccome, malgrado la facciata di orizzontalità) non riescono o non vogliono affrontare. Le organizzazioni, o “soggetti politici”, dall’altra, si mostrano impazienti o, in altri casi, disdegnano il confronto (errore simmetrico, potenzialmente devastante).
Sarà una fretta benintenzionata, sarà un’encomiabile voglia di fare dovuta alla corretta percezione della catastrofe imminente, o forse saranno quarant’anni di destrutturazione della mentalità politica per cui si compensa la sopravvenuta sfiducia nello Stato con un’idea anche troppo salvifica di “beni comuni”, di orizzontalità da meet up o un tocco di lifting di “democrazia partecipativa”: fatto sta che tutto quanto detto rende il quadro maledettamente più complicato di un semplice e banale “avete perso”, e fa sì che, con cautela e spirito di vigilanza, si debba guardare con attenzione al primo e più promettente tentativo di alleanza strutturata su punti programmatici, che è quello esperito da Ancora Italia, Alternativa, Partito Comunista, Riconquistare l’Italia, con incipiente partecipazione di comitati e coordinamenti un po’ su tutto il territorio.
A patto che anch’essa sappia guardare negli occhi, con apertura e generosità, i propri interlocutori naturali, e malgrado i mal di stomaco dei puristi veri o di comodo (su cui prometto un prossimo intervento), questa coalizione in nuce può prefigurare un primo, importante, anche se evidentemente ancora insufficiente, “fronte di liberazione”, capace – se da parte di tutti ci sarà la necessaria apertura d’orizzonti, se non ci si rinchiuderà negli interessi di bottega o peggio nelle gelosie da primato, se non si abuserà del manuale Cencelli – di mettere in moto quella massa di indecisi e disgustati che per ora non sente che il rumore di fondo di qualcosa che si agita lontano, ma che non riesce ancora a nascere, a palesarsi compiutamente.
Lo smottamento dei 5 Stelle e in parte della Lega è andato per ora a ingrossare le già corpose fila dell’astensionismo, ma una proposta corale credibile e convincente potrà riportarli alle urne, non “turandosi il naso” ma per contribuire a liberare il Paese.
Del resto, l’emergenza è tale da richiedere la capacità di mettere in sordina pezzi interi della propria identità per dar vita a una coalizione programmatica strutturata intorno al ripristino delle condizioni di agibilità democratica e legalità costituzionale: un progetto al vero servizio del Paese, al limite del sacrificio ideologico e, se vogliamo, personale – al di là dei narcisismi intellettualistici di presunti oppositori doc o premium.
Se invece la gente, la nostra gente, vedrà che alle prossime elezioni politiche la frammentazione non si sarà ricomposta e il dissenso andrà in ordine sparso incontro a una sicura disfatta, allora sì che il lavoro fatto sinora sarà stato vanificato e le conseguenze saranno devastanti per molto tempo a venire. Ricostruire fiducia a partire da una delusione cocente: la madre di tutte le tragedie politiche.
Di recente, una delle figure più amate e rispettate dal popolo del dissenso ha detto parole che, nella loro disarmante semplicità, valgono come una sentenza: “Abbiamo sofferto molto in questi due anni. Abbiamo resistito, ci siamo messi in gioco. Se volete il bene del popolo, e non il vostro, unitevi seriamente. Oppure mettetevi da parte, tanto il popolo, in quel caso, non vi voterà”.
Di Guido Cappelli per ComeDonChisciotte.org
Guido Cappelli è docente di Letteratura italiana presso l’ Università degli Studi di Napoli L’Orientale
18.06.2022
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Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org