DI JEAN-MICHEL VALANTIN
A quanti di noi non è capitato almeno una volta di vedere James Bond sventare una serie di complotti transnazionali che mettevano a rischio gli equilibri strategici mondiali, Bruce Willis sterminare eserciti di terroristi prima di salvare l’umanità dalle minacce spaziali, Rambo porre fine alla guerra del Vietnam vincendola, il presidente degli Stati Uniti assumere il comando dell’Air Force per annientare gli extraterrestri? Questi film provengono dagli Stati Uniti, e il dramma che mettono in scena è alimentato dalle problematiche scaturite da questioni di sicurezza nazionale.
Vengono prodotti in modo regolare, e tutti mettono in scena e partecipano all’attualità del dibattito strategico americano. Quest’ultimo è costituito da interazioni permanenti (alleanze, schieramenti, ma anche conflitti durissimi) presenti in maniera strutturale tra i grandi centri del potere, la Casa Bianca, il Congresso, il Pentagono e le grandi agenzie di intelligence. Ciò che è in ballo in tale dibattito sono le principali opzioni adottate in politica estera e in politica di difesa e di sicurezza nazionale.Dai miti alla minaccia
Il cinema partecipa appieno al dibattito strategico in quanto da una parte è pervaso dai grandi temi che lo attraversano, e dall’altra ne propone un’interpretazione per immagini. La sua efficacia risiede nel radicamento a miti fondatori come quelli della “Frontiera”, della “Città sulla collina”, e del “Destino manifesto”, componenti fondamentali dell’identità americana, per primi attivi nel determinare il rapporto politico e militare degli Stati Uniti con il resto del mondo.
Il cinema di sicurezza nazionale riprende e interpreta quei grandi miti americani che intervengono a dare il loro significato alle sfide strategiche. Il più potente tra essi è senz’altro quello della Frontiera. Elaborato nel XVII secolo, investe lo spazio in cui i coloni si insediano e di cui fanno arretrare senza sosta i limiti. La Frontiera è uno spazio ignoto, ostile, popolato di indigeni potenzialmente pericolosi; è il luogo in cui i pionieri, sia come collettività che come individui, vengono messi alla prova, nelle loro condizioni di vita materiale e nei loro corpi.
Ma, sulla Frontiera, ognuno deve anche affrontare la sfida della ricostruzione della propria identità. Il pioniere non è più dipendente né costretto dalle norme, dagli obblighi e dalle abitudini che conosceva in origine. La sua nuova identità si forgia attraverso un nuovo rapporto con la violenza, mezzo necessario per sopravvivere, per appropriarsi dello spazio e della natura, ma anche per purificarsi e rigenerarsi. Nello stesso tempo, l’apprendistato di tale violenza rigeneratrice, e quindi “virtuosa”, richiede un’autodisciplina che non ammette cedimenti, salvo quando è “legittimo” esercitarla contro le minacce che nascono sulla Frontiera e possono essere sradicate solo con l’impiego di una violenza sfrenata, sanguinaria, ma “giusta”.
Il mito della Frontiera è il condensato della memoria della conquista del West, della costruzione della collettività nazionale e dell’uso ripetuto e legittimo della forza delle armi contro ogni entità che minacci la comunità e le sue regole. L’epica della prova e del trionfo resta ancora oggi allo stato di processo attivo, impregna a fondo la mentalità americana e si perpetua in una narrazione mai conclusa, determinando largamente la percezione politica e strategica del mondo esterno come Frontiera. L’uso della forza è perciò non solo legittimo, ma necessario, e non conosce limiti interni.
Un mito essenziale, completato da quello della Città sulla collina che, fin dall’arrivo dei primi coloni puritani nella Nuova Inghilterra all’inizio del XVII secolo, fa dell’America la “Nuova Gerusalemme”. Un mito che corrisponde alla fede dei coloni nel rinnovamento dell’alleanza tra Dio e gli uomini e che fa di loro e dei loro discendenti il nuovo popolo eletto. Oggi quelle narrazioni e le rappresentazioni che ne discendono sono molto presenti e attive nel pensiero strategico americano e nella mentalità dei suoi agenti individuali e istituzionali, tanto da indurli ad attribuire un carattere quasi sacrilego a ogni attacco contro gli Stati Uniti, i loro interessi o i loro rappresentanti.
Miti, rappresentazioni, ideologie e simboli che attraversano il cinema americano, e in particolare il cinema di sicurezza nazionale, poiché pongono la questione dell’uso giusto della forza, che, a livello statale, diventa quello della coercizione militare e del potere strategico. Inoltre il mito della Nuova Gerusalemme, che dovrebbe risplendere sul mondo con la sua luce, conferisce un’accezione particolare alla nozione di difesa, che non è solo difesa della nazione e dei suoi interessi, ma una delle modalità di attuazione di una superiore legittimità. Questa tematica è presente nella maggior parte dei film di sicurezza nazionale. Quanto detto appare lampante in The Patriot (2000) di Roland Emmerich, con Mel Gibson, dove un ex ufficiale dell’esercito inglese, diventato coltivatore in Virginia, si unisce all’esercito rivoluzionario quando la sua fattoria viene devastata e uno dei figli ucciso dagli inglesi. Nascostosi nei boschi e nelle paludi raduna un esercito di coloni in fuga, briganti e schiavi liberati, ma è a questo punto che la guerra subisce un’escalation. L’esercito inglese viene mostrato mentre, col terrore e coi massacri, tenta di piegare la popolazione coloniale alla propria volontà e mentre il governatore cerca la moderazione per poter “riprendere delle relazioni commerciali dopo la guerra”.
Il film si conclude con una battaglia campale durante la quale il “patriota”, portabandiera dell’esercito indipendentista, affronta un ufficiale inglese sadico e massacratore che lo martirizza prima che lui a sua volta lo massacri, in mezzo a un campo di battaglia di un realismo vibrante d’orrore, dove la vittoria degli indipendentisti è filmata come un momento di trascendenza. È in quell’istante che i miti fondatori intervengono nella costruzione e perpetuazione dell’identità strategica americana: la tirannia inglese ha costretto i coloni a scegliere tra l’abbandonare la loro identità europea o sottomettersi, e la guerra che conducono fonda la loro società, facendo emergere un sentimento comune di minaccia venuta dall’esterno. Per proteggersi, devono superare la prova della vita nella natura e riscattarsi dal genocidio delle tribù indiane perpetrato prima della rivoluzione. Il film serve così anche ad affermare un “pentimento” americano nei confronti del genocidio fondatore della conquista. Questa esperienza è un momento di rivelazione: una società utopica può essere costruita in America, il mondo può esservi rifondato, grazie all’articolazione dell’idealismo messianico e del pragmatismo, in particolare militare e strategico.
La cultura politica
Come si è detto, queste mitologie fondatrici sono indissociabili dalla cultura politica americana per la quale il potere politico è di per sé una minaccia e non deve esistere se non ripartito tra istituzioni concorrenti, volte ad assicurare un equilibrio di poteri che garantisce la libertà dei cittadini.
Tale concezione del potere si è incarnata in un sistema non centralizzato, dominato dalla “triade” Casa Bianca, Congresso e Pentagono. Il suo fondamento storico e ideologico è la rivendicazione dell’indipendenza dalla tirannia della Corona inglese. Ne risulta un orrore della tirannia in generale, percepita dalla cultura politica americana come “peccato mortale”, che giustifica qualsiasi rivolta, qualsiasi guerra, e da cui è necessario difendersi sempre. Lo Stato federale è così l’origine di rappresentazioni paradossali: rappresenta una minaccia potenziale per la libertà dei cittadini e della collettività nazionale, ma nello stesso tempo protegge l’ideale americano del “diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità” (preambolo alla Costituzione degli Stati Uniti).
La capacità tirannica del potere è identificata in particolare con l’istituzione militare. Ma questa identificazione a priori negativa è però controbilanciata da un’identificazione positiva, relativa all’attaccamento della società americana per le sue forze armate, mezzo efficace, legittimo ed eroico di protezione e di difesa degli individui, della collettività, dei suoi interessi, dell’identità, dei miti e dei valori.
Una polarità presente in film come Thirteen Days (2000) di Roger Donaldson, con Kevin Costner, o Decisione critica (1996) di Stuart Baird, con Kurt Russell. Thirteen Days mette in scena la crisi di Cuba dal punto di vista della Casa Bianca, ma mostra i militari come dei pericolosi fanatici antisovietici da tenere sotto stretta sorveglianza. Il film arriva a suggerire la presenza di un risentimento attivo da parte di alcuni generali nei confronti di John Kennedy, e il loro rifiuto dell’esecutivo come istanza regolativa del loro potere… All’opposto, Decisione critica si inscrive nella mitologia dell’esercito americano visto come prolungamento armato e fedele della società americana. Un aeroplano civile viene dirottato da terroristi “orientali” che vogliono farlo esplodere sopra New York, con una bomba chimica che potrebbe uccidere decine di migliaia di persone. Da un aereo fantasma, in volo, un commando riesce a penetrare nella stiva dell’altro e a neutralizzare i terroristi. Il commando è composto da rappresentanti di tutte le comunità (bianchi, neri, latini, meticci, americano-asiatici). L’eroismo dimostrato illustra quanto le forze di difesa siano considerate essenziali per assicurare la perpetuazione della società nonostante l’esistenza di una minaccia potenziale, sempre incarnata in una forma o in un’altra, qui rappresentata dal terrorismo.
Cinema, minaccia e strategia
La strategia americana è determinata anche da un rapporto unico al mondo: gli Stati Uniti non hanno vicini ostili, due oceani li proteggono dal mondo esterno e non hanno mai subito invasioni. In compenso, il mondo esterno è avvertito come gravido di minacce potenziali, e svolge la funzione di “superficie di protezione” del mito della Frontiera che è assimilato a un gigantesco universo frontaliero che circonda gli Stati Uniti.
La visione strategica del mondo degli americani è in realtà molto più concettuale, ideologica e mitologica che empirica, dal momento che manca di un’esperienza del mondo che temono. La costruzione dell’identità americana avviene attraverso la definizione di un’alterità minacciosa, di un altro generico. E se questo è comune alla grande maggioranza delle costruzioni identitarie politiche, qui l’originalità risiede nel suo materiale e nelle sue modalità di realizzazione: l’esterno è percepito in funzione del mito della Frontiera, e non attraverso il prisma dell’esperienza delle invasioni reciproche, dei flussi migratori e degli scambi commerciali, culturali e religiosi.
Inoltre, essendo la società americana recente e fragile, ha bisogno di un consenso che l’idea di una minaccia comune fornisce agevolmente, e sul quale si appoggia il potere dello Stato federale per il suo sviluppo.
Produzione di minaccia, produzione di consenso
La produzione di minaccia è resa possibile dall’incrociarsi del discorso politico e della sua messa in scena. La minaccia è, come ha scritto Michael Rogin: “Il diavolo straniero, l’anarchico bombarolo, la tentacolare cospirazione comunista, gli agenti del terrorismo internazionale [che] sono figure familiari del sogno a occhi aperti che domina così spesso le politiche americane”‘; ma è anche la fragilità della comunità americana di fronte alla furia della natura, vista sia in una prospettiva teologica – come manifestazione della collera divina – sia in una prospettiva strategica – una forma di esplosione di violenza a cui si deve sopravvivere e che bisogna controllare il più possibile. Tutte le minacce di cui il mondo brulica legittimano la produzione di strategia e di potenza militare, le cui proiezioni all’esterno permettono di imporre l’ordine americano, senza il quale gli Stati Uniti pensano non possa esserci sicurezza.
La nozione di minaccia non può essere esclusivamente concettuale. Per risultare efficace e pregnante, è necessario che abbia una dimensione affettiva, che scateni autentici sentimenti collettivi di inquietudine, oltre che di paura, di orrore all’idea che chi ne è oggetto possa soffrire, subire lo sconvolgimento della sua vita nazionale, l’annientamento delle persone che gli sono care e il proprio per mano di forze distruttrici, mosse da un’ideologia politica o da una volontà malvagia.
Durante gli anni Cinquanta, la minaccia sovietico-comunista è stata costruita da Hollywood attraverso un doppio schema: extraterrestri che si sostituiscono agli abitanti di piccole città, o, al contrario, presentando attacchi massicci da parte di strane creature dall’incerta identità, come nell’Invasione degli ultracorpi (1956). In entrambi i casi la metafora dei sovietici è evidente. Oggi la minaccia è cambiata, può anche essere incarnata da un gruppo di terroristi che prende di mira uno dei dirigenti della CIA, come in Giochi di potere (1992) di Phillip Noyce, o riguardare un re dei media desideroso di scatenare una guerra tra la Cina e gli Stati Uniti per fare audience.
Sarà fortunatamente sconfitto da James Bond in Il domani non muore mai (1997) di Roger Spottiswoode, con Pierce Brosnan.
Ma la minaccia può anche nascere dall’interno, quando il sistema strategico si squilibra e un potere improvvisamente non è più bilanciato da un contropotere. Lo Stato mette allora a rischio la propria stessa società. Accade in Terminator (1984) di James Cameron, dove il computer centrale del Pentagono si autonomizza e scatena un attacco nucleare contro i sovietici affinché la rappresaglia lo sbarazzi degli uomini…
La minaccia è una nozione polimorfa, incessantemente elaborata e plasmata dal dibattito strategico; essa fornisce un materiale drammatico di prim’ordine a Hollywood e le offre i mezzi per attirare il pubblico che, attraverso i temi sviluppati, viene trasformato in vettore dell’opinione pubblica. Questo processo di interpretazione del cinema e del dibattito strategico conosce una storia ciclica, che comincia all’inizio della guerra fredda, con la produzione di minaccia determinata dai rapporti con l’URSS.
Cinema e identità militare
I film che mettono in scena la comunità di difesa e sicurezza non sono semplici illustrazioni delle preoccupazioni strategiche americane, ma partecipano ai dibattiti istituzionali, in particolare in seno al ministero della Difesa.
L’istituzione militare americana è composta da tre grandi corpi: la US Army (Esercito), la US Navy (Marina), l’Air Force (Aviazione), e dal piccolo, benché immensamente prestigioso, corpo dei Marine, che dipende dalla US Navy. Tutti hanno un rapporto vitale e organico con il cinema che, attraverso la messa in scena eroicizzante del personale e delle attività, permette di collegare le forze di difesa ai grandi miti, al processo di legittimazione politica e all’attualità.
Questo collegamento risale al 1942. Dopo che Franklin Roosevelt convocò alla Casa Bianca i più grandi registi dell’epoca, tra questi John Ford e Frank Capra, per commissionargli decine di film nella prospettiva della mobilitazione psicologica del paese, il ministero della Guerra apre un ufficio di collegamento a Hollywood. Successivamente, con l’avvento della guerra fredda si assiste all’istituzione permanente di quell’ufficio, in un momento in cui, siamo nel 1947, nasce il National Security State, nel 1947, che consiste nella creazione di un certo numero di istituzioni consacrate alla sicurezza nazionale nel quadro della lotta contro la minaccia sovietica. Lo Stato di sicurezza nazionale si è così ritrovato, per effetto del sistema, integrato all’industria cinematografica e dipendente da quest’ultima per la sua immagine, il che ha avuto come conseguenza quella di legittimare la produzione e la messa in pratica di strategia, per lo più sotto forma di massicce e temporanee spedizioni militari.
Le modalità di cooperazione tra l’apparato di sicurezza e i grandi Studios, sono molteplici e complesse e non hanno smesso di aumentare nel corso dei decenni. Riguardano tutte le fasi della produzione: la cooperazione è logistica, ma implica anche l’intervento di registi, sceneggiatori e attori specializzati in quel particolare genere. L’Esercito può fornire materiali, consulenti, uniformi, addestramento, piattaforme da combattimento (dai reggimenti di carri armati alle squadriglie di aeroplani o alle portaerei). L’inizio degli anni Ottanta, con l’offensiva ideologica, politica, tecnologica, finanziaria e mediatica di Reagan contro l'”impero del male”, ha rafforzato questa tendenza.
Registi importanti come James Cameron, John Milius, John Mc-Tiernan, Richard Donner, Tony Scott, Edward Zwick, Oliver Stone, Phillip Noyce si sono imposti tra il 1983 e il 1994 girando alcuni dei film caratterizzanti questa categoria, come Rambo 2 (1985) e Rambo 3 (1988), Aliens – Scontro finale (1986), Top Gun (1986), Predator (1987), Trappola di cristallo (1988), Glory – Uomini di gloria (1990), Caccia a Ottobre Rosso (1990) ecc.
Questi film segnano l’avvento di una generazione di attori “duri”, specializzati nei “ruoli di sicurezza nazionale”, come Sylvester Stallone, Arnold Schwarzenegger, Chuck Norris, Steven Seagal, Bruce Willis, Mel Gibson, Sigourney Weaver, Denzel Washington, Morgan Freeman, Ben Haffleck ecc. Attori che si distinguono per un’eccezionale presenza fisica, per il modo particolare di incarnare nei loro corpi il pericolo rappresentato da un’arma pesante e la capacità di maneggiare le armi con indiscutibile credibilità. Questa cooperazione è permanente, ma di intensità irregolare, e può essere marcata da picchi tanto di accordo che di antagonismo.
In realtà, ogni Arma dell’esercito decide secondo i propri interessi se dare o meno sostegno a determinate produzioni. Così, dopo il Vietnam, mentre la US Navy subiva da dieci anni una crisi di reclutamento, il suo comando decise di sostenere la produzione di Top Gun (1986) di Tony Scott fornendo una portaerei, aeroplani, piloti, e mettendo a punto coreografie aeree e nuove tecniche di ripresa in volo allo scopo di facilitare il lavoro del regista. L’unica condizione imposta a Tony Scott fu di filmare gli aerei al decollo e all’atterraggio sulle portaerei e le scene di combattimento sull’oceano, in modo da sottolineare il carattere “Navy” del film. Il quale ebbe un successo tale che la US Navy installò degli uffici di reclutamento all’uscita delle sale; ciò che, secondo il corpo, pare aver giocato un ruolo non indifferente nella soluzione della sua crisi di reclutamento. In modo più bislacco, allo scopo di ridare smalto alla sua immagine appannata dalla guerra del Vietnam, nel 1978 è ancora la Marina a prestare un missile Destroyer alla casa di produzione del gruppo pop omosessuale cult Village People per le riprese del videoclip In the Navy.
L’integrazione cinema/esercito è ampiamente utilizzata nei conflitti tra servizi per il prestigio e quindi per il vantaggio nelle battaglie finanziarie al Congresso. Tali conflitti mettono in gioco la cultura militare e strategica proprie di queste Armi, legate ognuna all’elemento fondamentale, l’aria, la terra o il mare, nel quale esse si muovono. La relazione con gli elementi si accompagna a un diverso rapporto con lo spazio e con il tempo, quello che poi determina le concezioni americane della guerra.
La US Army è radicata alla terra, al combattimento al suolo, con tutto ciò che questo comporta: la sofferenza, il sangue, l’eroismo del dolore, la morte, la durezza e la conoscenza delle società civili con cui viene a contatto – rispettate o devastate che siano. La US Navy è l’Arma democratica per eccellenza, perché un colpo di Stato non potrà mai aver luogo in mare; è il medium storico di una cultura della fluidità strategica, della diffusione morbida della potenza americana a partire dagli oceani, dove la sua presenza è permanente, capace di accerchiare le terre assicurando nel contempo la sicurezza dei flussi commerciali di cui gli Stati Uniti hanno bisogno. I marine, i fucilieri di marina, sono l’affermazione della capacità storica della US Navy di sbarcare a terra e aprire la strada alle truppe non marittime trasportate via nave. Quanto all’Air Force, è l’Arma del dispiegamento aereo, liberato dalle contingenze terrestri; è caratterizzata dalla fusione tra l’uomo, il materiale e la tecnologia nell’esperienza del volo. Essa trascende le distanze, conferisce un carattere astratto alle frontiere, esige non soltanto coraggio e raziocinio, ma anche tenacia e rapidità. La concezione aerea della guerra è caratterizzata dalla contrazione temporale, dall’estrema esiguità degli equipaggi e dall’idea di inibire le difese terrestri o marittime; essa tende a rendere obsoleta la nozione di combattimento al suolo.
Queste particolarità dell’identità militare sono rese perfettamente dal cinema, in particolare dal 1995 e dalla Revolution in Military Affaire (RMA, `rivoluzione negli affari militari’), progetto di trasformazione dell’apparato militare americano attraverso la tecnologia e la sinergia tra dispositivi di raccolta e trattamento delle informazioni e delle capacità di dislocazione di forze sempre più consistenti e rapide. Un cambiamento di concezione globale della funzione del militare che ha particolarmente ravvivato la competizione cinematografica tra le varie Armi. Sempre a partire dal 1995, si assiste alla feroce lotta simbolica dell’Air Force che, mediante le immagini, afferma il primato tattico e strategico dell’air power e dello space power. Essa si propone come lo strumento che rende possibile il raggiungimento dell’ideale del global reach, vale a dire della capacità di dislocare forze in qualsiasi parte del mondo in un tempo estremamente breve. Il global reach ha cominciato ad essere teorizzato poco tempo prima della guerra del Golfo.
Di contro, la US Navy sostiene di essere la migliore proprio nel controllare i flussi e nello spostare truppe e materiali, davvero significativi grazie al tonnellaggio che può mettere insieme. Un conflitto che si traduce nella moltiplicazione di “film Air Force” e di “film Navy”.
Così, nel 1996, in Independence Day di Roland Emmerich, con Will Smith, la terra viene salvata dagli extraterrestri sterminatori grazie all’Air Force. Simmetricamente, nel 1997, Soldato Jane di Ridley Scott, con Demi Moore, proclama che la sicurezza degli Stati Uniti dipende innanzitutto dalla qualità del personale della US Navy e dalla sua capacità di intervento in qualunque parte del mondo, essendo essa costantemente alla portata di una costa o di un’altra.
Tuttavia, proiettandosi nel cinema questi conflitti interforze acquistano un significato più profondo che li trascende in nome della sicurezza nazionale: essi permettono di partecipare alla produzione di minaccia (che legittima la loro stessa esistenza) e alla produzione di strategia.
La cooperazione tra settore civile e militare indotta dall’esistenza di questa cinematografia può avere effetti inattesi. Durante le riprese di The Abyss (1989) di James Cameron, per esempio, furono messi a punto dei nuovi tipi di cineprese sottomarine utilizzate in seguito dalla Marina.
Creazione di un universo mentale
Poiché il cinema di sicurezza nazionale dipende al contempo dal dibattito strategico e dalle esigenze commerciali dei grandi Studios, esso crea a partire da questa doppia origine un universo mentale in cui si fondono l’immaginario drammatico e la cultura americana della strategia.
Il cinema di sicurezza nazionale, in quanto spettacolo, non è limitato alle sale cinematografiche, ma, come l’insieme della produzione cinematografica americana, si diffonde altrettanto massicciamente nella sfera privata per mezzo della televisione via cavo e satellite o del mercato del video. L’impronta collettiva lasciata dai film è data anche dalla quantità di immagini fotografiche che fanno capo per esempio alle campagne di affissione su scala nazionale, a tal punto che a volte è impossibile ignorare la distribuzione di certi film. Così è stato per le formidabili campagne marketing e di distribuzione di Star Wars – La minaccia fantasma e Star Wars – L’attacco dei cloni, episodi i e II di Guerre stellari di George Lucas, nel 1999 e poi nel 2002. L’enorme attesa intorno a questi film, profondamente radicati nella cultura di massa e nella cultura strategica americane, è stata coltivata e utilizzata affinché la distribuzione in sala fosse accompagnata da una campagna pubblicitaria e dalla messa in vendita di una moltitudine di prodotti derivati (giocattoli, vestiti, videogiochi, libri, bibite, riviste, poster). Ma queste due campagne, di dimensioni impressionanti, sono tutt’altro che casi isolati nella storia della promozione dei film di sicurezza nazionale. Modalità simili sono state utilizzate per monetizzare il prestigio di film come Rambo 2, Terminator 2, Independence Day, La morte può attendere, Mission impossibile. Dopo il 1995 e dopo 007 – Zona Pericolo, i film di James Bond sono del resto diventati enormi supporti pubblicitari per marche di automobili, orologi, profumi, gioielli e altri prodotti di lusso.
Tuttavia, parlare di “semplice” marketing equivarrebbe a dimenticare che cale dispiegamento commerciale si declina e diventa il supporto del singolare universo mentale che è l’immaginario collettivo americano della sicurezza nazionale. Contrariamente alla mentalità e al cinema europei che, dopo millecinquecento anni di guerre civili e internazionali, hanno relegato nel disprezzo, se non nella negazione, la guerra, la violenza armata e le passioni che scatenano, il cinema americano si appropria della preoccupazione per la guerra, la strategia, le armi e per la paura del mondo esterno. La mentalità americana tiene assolutamente viva la questione del campo della guerra, dei suoi settori, delle sue categorie. Perché, come scrive Sun-tzu, “la guerra è la grande questione delle nazioni; è il luogo dove si decidono la vita e la morte; è la via della sopravvivenza o della scomparsa. Non si può trattarla alla leggera”.
Per gli americani, la guerra, l’esercito e la politica dei rapporti di forza non corrispondono a un vissuto storico, ma rappresentano un riferimento mentale ininterrotto. Sono in effetti il veicolo e la norma del problema della protezione di una società impregnata dal sentimento della propria vulnerabilità e finitezza, oltre che dalla certezza di essere depositaria di un destino manifesto, che all’occorrenza è necessario difendere con la forza. Il cinema di sicurezza nazionale risponde alla cultura americana della strategia dando forma a quelle inquietudini e a quelle idee. La mentalità americana è recettiva nei confronti dello spettacolo militare, aperta all’ammirazione delle armi e della tecnologia, ma senza adorazione; le armi, infatti, sono anche motivo di inquietudine e diffidenza, in quanto incarnano il rischio di sradicamento della persona dai valori essenziali che sono la libertà, la democrazia e il diritto.
Questa ambivalenza è analizzata da Alexis Bautzmann come una delle forme essenziali della mentalità americana; egli la paragona alla mètis, l”astuzia’ dei greci, il cui archetipo è Ulisse, nello stesso tempo re di Itaca, capo militare e uomo capace di padroneggiare o sviare la tecnologia, in particolare con la costruzione del cavallo di Troia. L’uomo capace di mètis è in grado di usare la tecnica a suo profitto senza diventarne schiavo e, se necessario, di combattere con tutte le sue forze per sopravvivere e annientare i suoi nemici. I mezzi utilizzati, tra questi le armi, possono così essere quelli della liberazione e della vittoria come quelli della minaccia. L’eroe “buono”, dal punto di vista americano, è insieme tecnologo ma anche vicino alla natura.
Personaggi come Rambo che trasformano l’ambiente in un’arma contro i loro nemici, gli operai petroliferi che fanno saltare un asteroide in Armageddon, i ranger che costruiscono con mezzi di fortuna bombe anticarro in Salvate il soldato Ryan, danno tutti prova, in modi e gradi diversi, della stessa “astuzia eroica”, tra artigianato, capacità di cavarsela e padronanza di una tecnologia avanzata, che permette all’individuo di rovesciare situazioni che a priori gli sarebbero sfavorevoli.
Questo cinema diventa il medium tra le differenti istanze della strategia e dell’immaginario americani; relazioni molto forti e complesse, che hanno una storia, quella del dibattito strategico americano dalla fine degli anni Quaranta in poi.
Jean-Michel Valantin si occupa di studi strategici e di sociologia della difesa. È specialista di strategia americana e degli effetti strategici del riscaldamento globale. Collabora con Areion, centro di ricerca francese per la prevenzione della crisi e dei conflitti, e con le riviste Diplomatie Magazine, Défense et Sécurité Internationale ed Enjeux Mediterranée
Fonte:www.sagarana.net
link:http://www.sagarana.net/rivista/numero20/saggio6.html
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(Brano tratto dal libro Hollywood, il Pentagono e Washington, Fazi editori, Roma, 2005)