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La Redazione

 

Ferita a morte. I transumanisti stracciano il tema di maturità

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A cura di Redazione CDC
Il 24 Novembre 2021
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Di Guido Cappelli

Mi chiedo che cos’altro ancora devono farci, quanto ancora devono sbeffeggiarci per farci svegliare. La notizia è recentissima: la prova scritta di maturità, il celebre “tema d’italiano”, è in coma profondo. Coma indotto, coma farmacologico, eutanasia: è ovvio.  E il colmo della beffa è che il metodo è tipico del regime autoritario: se lo fanno chiedere da fantomatiche “forze sociali” che a gran voce esigono… quello che vogliono loro! Eseguono ordini o, se si preferisce, implementano un’Agenda: sono schiavi; ma dentro la propria sfera di competenza – cioè l’Italia, cioè noi – il loro è un potere quasi illimitato, e si stanno abituando in fretta e con gusto a esercitarlo.

Il pretesto, il cavallo di Troia è sempre lo stesso da quasi due anni a questa parte: Covid. Testualmente: “non consentirebbero ai maturandi di stare in totale sicurezza”: dobbiamo diventare bestioline incapaci di esprimersi, altrimenti ci viene la febbre! “In totale sicurezza” – così dice il ministro della (d)istruzione, l’indegno valvassore della tecnocrazia cyber- e post capitalista. Facciamogli caso, prendiamolo in parola, non lasciamoci sfuggire queste smargiassate benché indegne di esser prese sul serio. Guardiamole in faccia: sicurezza da che cosa? Cosa mai vuole insinuare questo tono paternalista? L’elisir di lunga vita? Lo scudo galattico? L’inconsistenza infantiloide di queste pagliacciate brilla in tutta la sua sfacciatezza al solo rivolgergli lo sguardo.

Ma in mezzo alla solita fuffa (“dobbiamo tenere conto della massima sicurezza dei nostri ragazzi e della loro capacità di saper esprimere se stessi”), il sinistro personaggio si è lasciato andare a un’altrettanto sinistra confessione-ammonimento: “finché non si tornerà ad una totale normalità, non si potrà tornare ad una normalità anche per quanto riguarda l’esame di Stato”. E noi che sappiamo che la “normalità” non c’è più e, se dipenderà da loro, non tornerà mai, possiamo già prevedere che questa ennesima mazzata all’istruzione, al sapere, alla civiltà in definitiva, è già stata assestata una volta e per sempre e segna una svolta che parte proprio dallo svuotamento della scuola.

In fondo, in questa scusa securitaria umiliante e insultante c’è tutta la mentalità distopica di questi maligni transumanisti: la sfiducia, anzi il disprezzo per l’uomo, per la sua capacità di discernere, di raccontare, di interpretare, per la sua dignità di essere pensante e in grado di decidere. E invece no, decide il ministro Bianchi per noi, per tutti: un’altra picconata, l’ennesima, alla credibilità del nostro sistema di istruzione ci farà bene, eviterà sicuramente millanta contagi e salverà millemila vite umane. Dobbiamo ingoiare cotanta ostentata, palese stupidità: ma attenzione, accettare la stupidità vuol dire meritarsela. Perciò non possiamo né dobbiamo tacere.

Il “tema” di maturità, che loro avevano già degradato a “elaborato”, è stato per decenni la prova principale nella scuola italiana. Perché è la forma più complessa per uno studente di organizzazione del pensiero e di libera espressione. Perché indica il raggiungimento di qualcosa che per secoli è stato comunemente ritenuto la capacità più importante dell’individuo e del cittadino, tanto semplice quanto decisiva: esprimersi. Non occorrono troppe spiegazioni: costruire un tema vuol dire strutturare il pensiero attraverso il linguaggio: l’attività umana per eccellenza. Sopprimere questa pratica, che era l’identità stessa della nostra scuola, non è che l’ennesimo colpo di un potere che vuole una società destrutturata, incapace di autodeterminarsi, regredita allo stato di minorità da cui, diceva Kant, i Lumi settecenteschi l’avevano tirata fuori.

C’era una volta la scuola gentiliana: il sistema di organizzazione delle conoscenze pensato da un filosofo, Giovanni Gentile, che per una serie di concause storiche ebbe la possibilità di proporre quella scuola a base umanistica che ha formato le menti migliori del paese per quasi un secolo. Il sistema dei licei era un meccanismo di promozione sociale: uno Stato che si faceva carico integralmente dell’istruzione pubblica aveva nei licei, in particolare in quello classico, il miglior garante, il miglior bastione proprio e innanzitutto della democrazia: perché le differenze di classe si arrestavano sulla soglia di quelle aule austere e disadorne, dove regnava il sapere critico, quello che rende liberi, quello che forma il cittadino cosciente che affronta il mondo a testa alta e a occhi aperti. Aule austere, a volte persino fredde, quasi inospitali, ma che si riscaldavano col calore dei corpi, con la consuetudine e la familiarità della vicinanza: aule da cui uscì il meglio che il nostro Paese ha saputo dare per almeno cinquant’anni. (L’ossessione per le infrastrutture – diciamolo una buona volta – è stato il primo passo verso la demolizione delle strutture, quelle vere, immateriali, dell’acquisizione e della trasmissione della conoscenza. A più infrastrutture (edilizie, logistiche o elettroniche) meno struttura (mentale e spirituale) – questo testimoniano le aule ipertecnologiche della Ivy League e dei tanti campus che la scimmiottano in giro per il mondo).

Il paradosso italiano, l’ennesimo paradosso, è che riforme, riformine e stravolgimenti vari dell’istruzione negli ultimi vent’anni hanno fatto danni incalcolabili ma si sono innestati su una scuola che nell’ossatura generale resta ancora quella gentiliana – anche se ridotta a un’ombra. Uno strano effetto di dissonanza si crea tra l’apparato gonfio e tronfio delle nuove “abilità”, “competenze” e ammennicoli vari, e il bagaglio di alta cultura di impronta umanistica che, malgrado tutto, ancora serpeggia, malconcio ammaccato ma non estinto, nelle aule d’Italia. Quanto meno, in misura incomparabilmente maggiore, per presenza concreta e per rispetto astratto, di qualunque altro paese occidentale.

Purtroppo per noi, tutto questo non si accorda con l’individuo fragile e distopico che il transumanesimo montante ha in serbo per noi, e dunque deve sparire, per sempre. La nuova specie di homo che questi apprendisti stregoni dell’apocalisse hanno in mente di produrre è un individuo dall’identità fragilissima, zeppo delle nevrosi indotte dagli alchimisti dell’identità, perso dietro parole d’ordine demenziali, affogato in un universo cognitivo destrutturato e malato. Solo, introflesso e cattivo come un personaggio di Svevo; impaurito e perplesso come un eroe kafkiano. E kafkiano, in effetti, banalmente kafkiano, è l’algoritmo che governa sempre più implacabilmente la sua vita. Non cittadini che guardano la società e il mondo con sguardo diretto, da pari a pari, consapevoli del proprio diritto a esserci, ma soggetti nevrotici, larve impaurite e medicalizzate, clienti-pazienti da manipolare e dominare per un giga, per un’offerta di Netflix, per una triste vacanza kitsch, mentre strombazzano sui social la loro frustrazione e la chiamano democrazia. Non ci inganniamo: uno dei dispositivi cruciali di questo bel progettino è lei, la “buona scuola” che burocrati spregiudicati come Bianchi, ammantati da un’aura posticcia di asettica governance, stanno mettendo in atto su ordine espresso, neanche malcelato, del potere finanziario globalizzato. Basta leggere i deliri di questi pseudo-pedagoghi sulle pagine del Wef, quel loro disprezzo indissimulato, quella loro sufficienza irritata verso tutto ciò che sappia di alta cultura o semplicemente cultura, per affacciarsi su questo mondo desertificato e orwelliano: le loro ridicole soft skills, le loro “competenze” farlocche, tutta la loro psico-pedagogia che mischia in pari misura l’ovvio e l’assurdo, questo tripudio di illogicità, così in linea, peraltro, con la corsa generalizzata all’irrazionale, non hanno altro obiettivo che questo: spazzare via ogni senso di identità culturale, ogni coscienza di civiltà, ogni sentimento di appartenenza, ogni capacità di strutturare idee complesse, e infine ogni criterio di decodifica del reale, per sostituire tutto questo con il conformismo del “lavoro di gruppo”, con  l’ipocrisia del sorriso perenne che copre la cattiveria della competizione, o con l’onnipresente, inquietante “resilienza”, cioè l’abilità pre-razionale, acritica, quasi animalesca, di adattarsi, di confondersi nell’ambiente – come se l’homo sapiens fosse regredito a insetto o animale dei boschi. Il confronto tra un libro di testo delle medie degli anni settanta e uno attuale è impietoso: contenuti contorti e ridotti al minimo si mescolano a grafici e disegnini idiotizzanti, dove ogni rapporto con un sapere non dirò critico, ma strutturato, è annullato dalla banalità sinistra di un buonismo feroce, che si presenta come verità obiettiva/tabù etico. È il totalitarismo del bene, bellezza.

Tutto questo è profondamente funzionale a quell’emergente “governo del caos” in cui sembra essersi evoluta la nozione originaria di governance, perché promuove, legittima l’incapacità di distinguere, di analizzare e, al limite, di negare. Se la filologia è stata criterio genealogico di accertamento della verità, tecnica della ricostruzione e del restauro, pratica del discrimine tra falso e autentico, auctoritas umana, nel tempo postmoderno, sospeso, abbarbicato al “rischio zero” come a una nuova “città di Dio”, torna il dogma, la verità rivelata, questa volta non da un Dio metafisico ma dalla Scienza elevata a nuova Rivelazione. Punto di collasso scioccante, e al tempo stesso fusione caotica, tra credenza fideistica e argomentazione razionale. Coacervo dalle conseguenze imprevedibili, che coinvolgono il piano cognitivo e aprono uno squarcio di luce sul senso profondamente distruttivo di questa misura distopica.

Un sapere antico, millenario, che ha strutturato, dato forma alla nostra civiltà, è oggetto del più crudele attacco sotto la forma di una banale, ennesima riforma dell’esame di Stato.  È questo il passo mortale che sta consumando quell’obbediente pupo del transumanesimo che è il ministro Bianchi. “Ministro” nel senso etimologico della parola: cioè servo, ma non certo del popolo italiano, bensì degli opachi ma efficacissimi poteri globali semiprivati, dei nuovi feudatari che vogliono più della nostra obbedienza, vogliono la nostra anima. Per questo il piccolo ministro-pupo ha distrutto il tema di maturità. Per questo la Storia non avrà pietà del suo nome.

Di Guido Cappelli, docente di Letteratura italiana, Università degli Studi di Napoli L’Orientale

NOTE

23.11.2021

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