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La Redazione

 

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FAMIGLY DAY, FOREVER !

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A cura di Davide
Il 8 Febbraio 2016
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DI CARLO BERTANI

carlobertani.blogspot.it

Direbbe John Lennon, grande John Lennon: peccato che l’abbiano ammazzato, quello sì che sarebbe stato un perfetto Re del Mondo! Ci assataniamo dietro ai vari Family day, oppure ci opponiamo ai Family day, perché i “famigli” sono noiosi, spaccapalle, razzisti e fanno pure i predicozzi e la morale. Loro, ovviamente, sono contro perché (gli altri) sono froci o lesbiche, oppure non vogliono fare figli, o ancora li vogliono in provetta, e vogliono pure rubare figli già fatti per adottarli. Un perfetto casino, meglio di un Roma-Lazio che finisce al 94° minuto 1 a 1, con due rigori (uno per parte) nei minuti di recupero: Olimpico in fiamme, 247 ricoverati in ospedale e 145 fermati in Questura. Che meraviglia. Gran confusione sotto il cielo…tutto va bene! Ma, qualcuno, riflette su cos’è la famiglia e su come è messa oggi?

Nel 2014, in Italia, ci sono stati 142.754 matrimoni, religiosi e civili: le separazioni sono state 89.303 ed i divorzi 52.335 (Fonte: ISTAT). Si potrà piluccare fra i numeri, ma la somma fra separazioni e divorzi fa 141.638, ossia “l’1 a 1” che prima citavamo. La durata media di un matrimonio è di 16 anni (in costante calo). Per fortuna, la vita media di un matrimonio, per ora, è superiore a quella di un elettrodomestico: cosa importante, così non siamo ancora arrivati a dividerci i pezzi della lavastoviglie di fronte ad un magistrato.

Possiamo continuare a sostenere che la famiglia è il “mattone” essenziale del vivere sociale? Per certi versi sì: se non esistesse la famiglia, in Italia non esisterebbe stato sociale, e la famiglia tradizionale lo fa, ma con il fiato sempre più corto. Dunque, l’establishment al potere avrebbe maggiori grattacapi per sostenere le situazioni di povertà e di disoccupazione, per questo “concede” e preme su questo “format” obsoleto – o meglio, fa tanto chiasso sulla questione per l’affido dei minori – ma è un concedere monco, senza contropartite. A costo zero, come di consueto. Sull’altro versante – ossia quello degli affetti e delle aspettative – la famiglia è un disastro.

Alcuni dati, un poco approssimativi poiché difficili da verificare, ci dicono che circa un terzo o la metà degli italiani/italiane tradiscono abitualmente il coniuge, hanno un’amante (o più storie, d’amore o di sesso) vivendo realtà affettive/sessuali in modo “seriale”, oppure perseguono menage a trois che durano decenni, restando in famiglia “fin quando i figli non saranno grandi” o, ancora, frequentano abitualmente i club “privé”…su tutte queste abitudini, svettano i siti Internet per incontri: è un dilagare di posizioni, da chi propone rapporti finalizzati ad una nuova convivenza a chi, semplicemente, prospetta “una botta e via”. Qualcuno dirà “E’ sempre stato così e sempre sarà…” per alcuni aspetti è senz’altro vero – è questo l’aspetto interessante dell’evolversi sociologico – ossia il far capo a pulsioni archetipe che s’innestano in sempre diverse situazioni sociali.

La pulsione sessuale preme in tal senso e la conferma ci viene dall’etologia, laddove gli scimpanzè (che condividono con noi il 98% del patrimonio genetico) vivono un’esistenza di promiscuità, ma anche l’antropologia conferma: le popolazioni “primitive” che l’uomo occidentale ha incontrato sul suo cammino di scoperta e di conquista (Amazzonia, Polinesia, ecc.), vivevano con molta naturalità non tanto la poligamia (a ben vedere, una forma di potere), quanto l’estrema libertà sessuale (lo riporta in modo chiaro Melville, in “Taipi”). La “teoria” della sessualità plurima si basa sul fatto che l’uomo desidera spargere il suo seme in più uteri per garantire la sopravvivenza della sua discendenza, mentre per la donna accettare rapporti con più partner assicura maggior appoggio “economico”: curiosamente, tali comportamenti non avvenivano in popolazioni che vivevano in ristrettezze alimentari, bensì era un evento naturale, al quale conferire scarsa importanza, mentre i veri “tabù” erano per lo più relegati ad aspetti della loro religiosità (luoghi, periodi, ecc).

Singolarmente, in tutte quelle culture c’era la rigida proibizione dell’incesto: però, per dei “selvaggi”!
L’impatto fra le due culture, quella bacchettona e quella libertaria – siamo nel ‘700/’800, ricordiamo il noto caso del Bounty – fece esclamare a qualche antropologo, forse in vena ridanciana, che l’uomo occidentale, nella sua corsa verso la modernità, “si stesse perdendo qualcosa”. E che dire, allora, del Settecento libertino o del Quattrocento boccaccesco? O della “famiglia” latina, virgolettato per non confondere il medesimo termine con due concetti diversissimi? Al punto di nominare un “pater familias”, agghindando la lingua con un accusativo plurale, per sottolineare il concetto di potere plurimo e l’oggettività dei soggetti a lui sottoposti?

Insomma, abbiamo alle spalle una geo-storia molto variegata, che i nostri ignorantissimi politici (per cultura, lessico, e capacità di governare la polis) restringono ad una partita di calcio: di qua i “famigli”, di là gli altri. Quanno nnammo a magnà? Sse scopa stasera? Cce sta na mignotta de quelle bbone?

Capirete che incrociare sessualità, modernità e progresso è un affare un tantino complesso, che ha occupato molte menti – ricordiamo, una su tutte, Wilhelm Reich – e che è un po’ troppo per i Razzi, gli Scillipoti et similia – e la domanda che dovremmo porci è, allora, siamo giunti al termine della cosiddetta “modernità”? Perché il mutamento non avviene solo per aggregati fisici (l’esterno: lavoro, prodotti, beni, economia, ecc) ma anche psichici (l’interno: libido, affettività, sentimenti, ecc): dire che siamo giunti al capolinea è una pietosa bestialità, poiché moderno significa soltanto meno vecchio di ieri, null’altro. Come la famosa “fine della Storia”. Tutto ciò c’impone di dialogare con quest’Uomo timido e compresso, incapace oramai di gesti autentici: un Uomo che trova liberazione solo nella purezza di un Kata, nell’illusione (che Mishima trascinò con sé, più che evidenziare) che la fuggevolezza di un istante trasfiguri gli eventi. Allora, cos’è cambiato?

La ferrovia. Non mettetevi a ridere: riflettete. A metà Ottocento la ferrovia, in pochi decenni, decuplicò la velocità di trasferimento di tutto ciò che serviva: bushel di frumento, tonnellate di carbone, metri cubici di legname. L’Uomo seguì quella velocità, a lui ed ai suoi tempi di “risposta” meno congeniale: “Tempi moderni” di Chaplin, non invento nulla. Il dopo lo conosciamo: ciò che non possiamo più sapere è come viveva, intimamente, l’Uomo di prima.

Ci rechiamo a Venezia per il Carnevale, cercando qualche forma di trasgressione remota, ma non possiamo tornare – anche solo per un attimo – in quel noto “campo” dove, nobildonne e cortigiane, si recavano all’alba, in silenzio, per lasciarsi ammirare, per far comprendere agli amanti che si davano convegno la tempesta che era passata in quella notte d’amore: lasciavano seguire le tracce di quegli amplessi passo dopo passo, scolpite sui loro visi sfatti e gioiosi. In una società segnata dalla malattia mortale, inseguita dalla peste, il carpe diem era l’unica risposta accettabile, come lo era l’ascetismo per i (pochissimi) veri asceti. Noi, oggi – magari vestiti da Marchese d’Ambaradan – non notiamo nulla, solo quattro pietre puzzolenti di piscio di cane: al più, ci massaggia la mano di una coscienziosa infermiera al Pronto Soccorso, dove vomitiamo una notte insulsa mentre attendiamo un’alba altrettanto svaccata.

Il capitalismo? E’ colpa del capitalismo? Perché, con la nobiltà di prima si campava meglio? No, erano i ritmi, la percezione del tempo che era diversa. Goethe si lascia andare per pagine e pagine nella descrizione di un paesaggio e non si cura se, il lettore moderno, scalpita e – in fin dei conti – vuol solo sapere se Carlotta, infine, gliela darà oppure non tradirà il marito. Ma non è colpa sua se ha fretta: non può capire un uomo del ‘700!

La famiglia, insieme all’Uomo, è stata triturata dall’aumento di velocità improvviso: 150 anni su…facciamo almeno 20.000? O un milione? Tanto, V=at sempre, comunque la pensiamo: Razzi, incosciente come una vergine, è rimasto “triturato”, ed anche Crozza che lo imita. Difatti, anche l’accelerazione delle separazioni sui matrimoni segue questa linea (sempre fonte ISTAT) laddove t – Data Separazione meno Data Matrimonio (in minuti secondi) – è un limite che tende a zero.

Osservare i grattacieli che tremolano nelle acque del porto, la sera, è una bella icona del matrimonio. Ne è la sintesi. Occhio acceso, occhio buio, acceso, buio, buio, buio, acceso, buio, buio, buio…nel silenzio totale, nel buio fagocitante, nello sciacquio stanco della risacca, identico da milioni di anni. I grattacieli, i grandi palazzi, sono le icone del nostro tempo e, allo stesso tempo, il “termometro” dei matrimoni e delle famiglie. Non più grandi case gaie, non più piccoli tuguri – magari gai perché quella sera c’è un salame in tavola – ma prevedibili, perfetti abituri, studiati fino all’inverosimile da coscienziosi architetti per addetti alla produzione, od al controllo della produzione. Poi al guadagno sulla produzione. Minime ristrutturazioni fra un passaggio e l’altro: saletta computer al posto della camera per il pupo. Infine, ciak, si gira! Silenzio…motore…azione! Scena 34 di “Vita umana”. Via! Il protagonista entra in scena e pronuncia poche parole: “La produzione è terminata”. Buona, spegni motore, via le luci.

Sparito tutto. Il carbone, che vorticava da 150 anni, non c’è più. Non si fabbricano più sedie, non si mungono mucche. Silente, il greggio scorre nell’oleodotto e finisce nella centrale, diventerà elettricità che scorrerà, anch’essa silente, nei fili. Ricordo l’angoscia che provai leggendo Tiziano Terzani che comunicava, pelle a pelle, ciò che provava osservando la prima fabbrica giapponese completamente automatica. Anni ’90: lui e il guardiano, soli nella notte. Dalla vetrata, un enorme reparto, macchine che lavoravano. Sole. Il frastuono appena attenuato dalle pareti anti-acustiche. A questo punto, i marxisti mi tireranno le loro adunche falci e martelli (questo significa gabbare Marx!), i fascisti vorranno darmi l’olio di ricino (e i figli per la Patria?), ma a me non frega nulla né degli uni e né degli altri perché – cercate di capire, non di controbattere a cervello spento – questo non è un articolo d’economia politica, ma un articolo su basi sociologiche dove si cerca di capire:

1) A che punto siamo giunti nel percorso storico/evolutivo; 2) Qual è, conseguentemente, la forma migliore per l’aggregazione sociale; 3) Come armonizzare l’aggregazione sociale con le pulsioni naturali. Detto questo, una fabbrica completamente automatica dev’essere bellissima.

In definitiva, se la velocità degli scambi – commerciali, culturali, d’informazioni – è aumentata (modificando anche la percezione del tempo nei rapporti, ma noi non ci siamo accorti di nulla perché il fenomeno è stato “diluito” in un secolo e mezzo) la famiglia patriarcale, abituata a ritmi e tempi “lunghi”, è stata travolta. Rottamata. Prima, esistevano famiglie tradizionali incastonate nella cornice del villaggio, che era anch’esso una forma di “grande famiglia”, o clan. A quel punto, intervenne il già citato aumento di velocità: le emigrazioni di massa furono possibili solo nell’era del vapore, così come le colonizzazioni “mercantili”, ossia un sistema complesso ma funzionale, che prevedeva lo stazionamento in area coloniale di una classe dirigente straniera per dirigere i traffici (George Orwell: Giorni in Birmania), mentre Stati Uniti ed Australia assorbivano l’eccesso di popolazione comune, per lavori di basso livello ma di buona competenza artigianale. Entrambe questi fenomeni iniziarono a “disossare” la tradizionale famiglia patriarcale.

La susseguente società industriale aveva bisogno, invece, solo di produttori/consumatori (più appartamenti = più lavatrici, lavastoviglie, televisori, ecc) e quindi l’impeto consumista fu diretto verso l’anello debole della famiglia patriarcale, ossia “la libertà”. E’ fuor di dubbio che, in quelle famiglie numerose, di libertà personale ce ne fosse poca, ma lo Stato – in contropartita – raccontò d’assumersi l’onere dello stato sociale. Asili, ospedali, ricoveri (non lager!) per gli anziani, ecc. Oggi, nella società post-industriale, osserviamo il fallimento di quella impostazione: come sempre, quando viene soddisfatta l’esigenza del capitalista, il resto va alle ortiche. Diventano “risparmi”, e così la gente – imbambolata dai format televisivi – li percepisce. Tali teorie non sono campate in aria: se ne occupò Gandhi in sociologia politica ed Ettore Scola, nell’arte, col film “La famiglia” (1987), oggi sono interessanti le riflessioni di De Benoist sull’argomento.

Risposte? Volete delle risposte?!? Ma per chi mi prendete? Non sono mica Renzi! Ve beh, ve le darò…d’accordo…
La famiglia mononucleare come noi l’abbiamo vissuta (padre, madre, figli), è morta e bollita: finita. Nel tempo ha mostrato tutti i suoi limiti: scarsa elasticità, sensibilità estrema alle pulsioni soggettive disgregatrici, incapacità di far fronte a minime variazioni dell’ambiente circostante. Basta un imprevisto (anche a causa dell’odierna situazione economica) di spesa pari a 600 euro ed il 30% delle famiglie è in crisi nera. In una società dove il 10% della popolazione possiede il 50% della ricchezza, non potrebbe essere diverso. Conseguentemente, bisogna allargare la base del triangolo affinché il baricentro rimanga compreso nell’area di base: in altre parole, aumentare i componenti della “famiglia”. Qualcosa del genere già accadeva nelle vecchie famiglie patriarcali, dove si trovava sempre una soluzione proprio per il numero dei componenti, ma il problema è trovare una forma d’aggregazione sociale che non ne includa i difetti: autoritarismo, subalternità della donna, morale “unica”, ecc. Inoltre, in un mondo a “redditi variabili”, la compensazione interna è molto importante, perché consente di sopravvivere anche in tempi di “magra” restringendo un poco i consumi, oppure – se la pianificazione è più saggia – attingendo a risorse preventivamente accantonate. Mi pare che qualcuno abbia già parlato di vacche grasse e vacche magre…non ricordo più il testo di riferimento…

Inoltre, la società post-industriale non ha più bisogno delle ciclopiche aggregazioni cittadine, zeppe d’aggressività e poco inclini all’empatia: una saggia rioccupazione del territorio sarebbe la manna per tante ragioni: economiche, energetiche, ambientali e sociali. Ma il potere, guarda a caso, “rallenta” molto su uno degli aspetti più importanti di questa rivoluzione: la “banda larga”, essenziale per la comunicazione, come lo fu il treno per i trasporti. Meglio avere a disposizione le moltitudini, per nutrirle a panem et circenses?

Una famiglia “allargata” – chiamatela comunità, comune e come cavolo vi pare – ha più possibilità di resistere all’attacco coordinato del KriminalKapitalism e del BankAssassin: la famiglia tradizionale si separa, poi i partecipanti si risposano (omo od etero, è la stessa cosa) e continuano a lottare contro i mulini a vento. Se pensate che vi stia raccontando delle bagattelle, provate a pensare cosa significa pagare un’imposta sulla spazzatura in due persone contro dieci: fa un quinto. 600 euro? 120 euro. Va meglio? Quando c’è da cambiare la lavatrice, siete in dieci (faccio un esempio) ad affrontare la spesa, non in due.

Personalmente, ho partecipato a due esperienze: una agricola ed una urbana. Sono i periodi della mia vita che ricordo con maggior gioia, poiché eri responsabile di te stesso ma non avvertivi quel senso di oppressione che la famiglia tradizionale ti assegna. Perché? Poiché la tua responsabilità era con-divisa da altre persone e…vivaddio! Fra tanti, c’è sempre qualcuno che sa cambiare un asse del cesso! Non mi sembra opportuno raccontare particolari di quelle esperienze, perché questo articolo è scritto per chi ha coraggio e ci vuole provare: per gli altri, è solo tempo perso. Nel tempo che avete impiegato a leggere questo articolo, la vita media di un matrimonio è scesa di 1,463 secondi, anche se la funzione di riferimento è ancora in studio.

Vi posso solo dire che, ogni anno, c’incontriamo tutti, i vecchi “comunardi” e siamo come fratelli: nella famiglia tradizionale è il sangue a scegliere, in quella comunitaria sei tu a scegliere, secondo le tue inclinazioni ed i tuoi desideri. La profondità del rapporto è totale, ancora dopo 40 anni, ed è come se ci fossimo lasciati il giorno prima. Per chi non avesse ancora capito, io posso recarmi – senza telefonare – a casa di chiunque visse con me 40 anni fa – magari a distanza di centinaia di chilometri – suonare il campanello e ricevere, per prima cosa, un abbraccio ed un sorriso di piacevole sorpresa. Anche i “dotti” se ne sono interessati, e sono state redatte due tesi di laurea sulle nostre esperienze.
Perché finirono? Mai sentito dire panta rei? La comunità è, per suo statuto interno mai scritto, fluida e variabile: sta a chi partecipa saperla improntare alla stabilità, sapendo bene che – se lasci – devi consentire ad altri di giungere, e d’arrivare bene, di poter fare buona vita con chi rimane. Tu passi, la comunità deve restare. Erano tempi di pionierismo, e gli errori ci furono, tanti. Oggi, a differenza di molti anni fa, mi sembra che quel “vezzo” stia diventando una necessità: urbana od agricola, poco importa, l’importante è saper reggere all’impatto dei bastardi che pretendono le nostre vite in locazione. Domani, in proprietà assoluta.

I figli? Tre coppie, nelle nostre esperienze, avevano figli: oggi campano bene – compatibilmente con il nostro tempo incivile – e non sembra che abbiano gravi problemi per essere stati abbandonati ad un’altra coppia per qualche tempo, con due mamme o con due papà, secondo chi era disponibile. L’amore, il sesso? Certo, sono storie che capitano ed hanno impatti anche violenti in certe situazioni, ma – tutti noi che vivemmo insieme – concordiamo su un fatto: fummo molto naif in quelle situazioni, e c’è modo di porre un rimedio a tutto, soprattutto se la comunità è abbastanza ampia, se l’affetto comune, il senso d’appartenenza, supera queste buriane. Chiedete al un polinesiano d’oggi come viveva suo nonno.

Per questa ragione m’appassiona poco l’attuale dibattito (ma è un dibattito o una gazzarra?) sulla famiglia: si analizzano le “qualità” dei componenti, il loro sesso, i loro orientamenti sessuali, ma il “contenitore” deve restare identico. Omo od etero, uomini o donne, devono finire tutti nel “format” del cubicolo, con figli o senza, con un lavoro saltuario oppure stabile…tutti seduti ad ascoltare il Verbo, ossia mamma Tv. Penso, spesso, che dovrebbero pagarci per guardarla (non ditelo a me, non la guardo da decenni). Nelle strutture comunitarie, c’è il rischio che, invece, la sera che non c’è niente da fare si giochi a briscola e ci si facciano quattro sane risate, condite da motteggi e frizzi: il miglior antidoto contro la depressione dilagante.

Cercavate un’alternativa? Questa non vi convince? Non so che dirvi…provate a rivolgervi a Giovanardi…

Carlo Bertani

Fonte: http://carlobertani.blogspot.it

Link: http://carlobertani.blogspot.it/2016/02/famigly-day-forever.html

8.02.2016

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