FAME DI GIUSTIZIA

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Riceviamo e pubblichiamo per contribuire al dibattito sul tema.

Buona lettura.

Di Marcella Raiola e Marianna Panico

Dopo 238 giorni di digiuno, il 27 agosto 2020 moriva Ebru Timtik, avvocata curda accusata di terrorismo per aver difeso attivisti della resistenza curda e aver chiesto un equo processo per sé stessa e per i morti di tortura nelle celle della polizia turca. Condannata a 13 anni e sei mesi,  Ebru Timtik era stata imprigionata nel carcere di Silivri, in Turchia, il carcere più grande d’Europa. La sua morte, cui fece seguito quella di altri perseguitati politici, scosse per qualche giorno lo spregiudicato Occidente, che con sanguinari tiranni fondamentalisti come Erdogan non esita a stipulare trattati e alleanze, sia per “contenere” i flussi migratori dalla Siria e dagli altri fronti delle guerre “umanitarie”, sia per favorire l’adesione di altri paesi all’Unione Europea, organismo che riteniamo ormai commissariato dalla Nato.

Lo sciopero della fame come mezzo estremo di rivendicazione di giustizia si è nuovamente imposto, con la morte della Timtik, come oggetto di dibattito politico, sia pubblico che interno alle formazioni che animano la resistenza a un sistema che, a partire dalla fine degli anni ’90, ha raggiunto livelli di violenza e invadenza mai toccati prima, ed è al centro della discussione in questi giorni, in riferimento alla vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito.

Ponendosi nel solco della lunga tradizione radicale, Marianna Panico ha iniziato il suo sciopero della fame solidale allo scoccare della mezzanotte del trascorso anno 2022, nel bel mezzo delle feste all’insegna dello scialo. Marianna si è offerta alla coscienza collettiva come paradigma di un’opposizione disperata, che non sa più come farsi contropotere e che avverte lo svuotamento del codice semiotico delle lotte, di quel linguaggio-azione che non commuove e non smuove più un “popolo” sempre più disincantato e disimpegnato.

Marianna Panico ha deciso di mettere in gioco nella lotta la propria salute e la propria vita perché ha aderito in modo autentico e completo a quel detto di Ernesto Che Guevara – che molti si compiacciono oggi di pubblicare sui social per darsi arie da rivoluzionari senza troppo sforzo -, che induce a sentire sulla propria pelle le ingiustizie perpetrate contro chiunque, a qualunque latitudine.

L’ingiustizia che Marianna ha sentito come inferta alla sua stessa persona è appunto quella patita da Alfredo Cospito, un militante anarchico che al 31/12/2022 era già al 70° giorno di digiuno. Cospito è detenuto nel carcere di Bancali, a Sassari, in regime di 41 bis: è stato condannato al cosiddetto “ergastolo ostativo”, senza aver ucciso nessuno, per decisione del tribunale di sorveglianza, che, come avvenuto in Turchia per il caso di Ebru Timtik, ha comminato una pena del tutto sproporzionata all’entità e qualità del reato. Una di quelle pene inique cui ci hanno già abituato i processi intentati ai No Tav e ai lavoratori in lotta. Come dimenticare, tanto per menzionare un caso emblematico, la persecuzione di cui è stata fatta oggetto Nicoletta Dosio, la docente 76enne in pensione divenuta iconica figura della resistenza pacifica ma irremovibile alla devastazione e militarizzazione della Val di Susa?

Già nel Novembre del 2021 era stata condannata a più di un anno di carcere per aver “violato” gli arresti domiciliari partecipando a manifestazioni contro la TAV e rifiutando pubblicamente di diventare “carceriera di sé stessa”. Il “reato” contestato? Un blocco stradale simbolico di pochi minuti effettuato al casello di Avigliana, nel lontano 2012, con un “danno erariale” di 700 euro (il mancato incasso del pedaggio autostradale non corrisposto dalle auto transitanti in quel frangente). Il 3 Dicembre del 2022, Nicoletta è stata nuovamente raggiunta da una condanna a 8 mesi per “evasione” dai domiciliari. Attualmente la pena è sospesa per 30 giorni, ma l’accanimento giudiziario, contro una donna che non si è mai nascosta e che ha denunciato anche, a più riprese, in monografie e interviste, le regole inutilmente vessatorie del regime carcerario, appare più che evidente. Insieme a lei, altri 22 attivisti No Tav sono stati segnalati per essere sottoposti a misure cautelari per una manifestazione svoltasi nel giugno scorso.

A Cospito come alla Dosio sono state erogate pene commisurate non alla gravità del reato commesso, ma alla pericolosità potenziale, per il sistema e il potere costituito, dell’ideologia politica che lo ha ispirato.
In questi casi, si palesa la volontà di punire il dissenso, l’ostinata resistenza di chi, come Alfredo Cospito, contesta duramente tutto un modello di vita associata, ritenendolo disumano, liberticida, ecocida e corrotto.

Cospito è il primo caso di un anarchico che finisca al 41 bis. La sua condanna può essere letta sia come un caso di patente abdicazione dai fondamenti stessi del Diritto, sia come l’ennesimo caso di persecuzione personale “a fini dimostrativi”, per così dire.
Da ottobre 2022 si sono moltiplicate le iniziative di solidarietà (“Alfredo fuori dal 41bis”), per richiamare l’attenzione sulla sua vicenda, passata sotto silenzio dai media mainstream. Ma le iniziative sono volte anche, più in generale, a contestare l’applicazione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo, che secondo molti sono in contrasto con la Costituzione e con il principio del valore “rieducativo” della pena.

Il processo di secondo grado ad Alfredo Cospito è attualmente sospeso, in quanto la Corte d’Assise d’Appello di Torino ha sollevato eccezione di costituzionalità sulle numerose attenuanti deliberatamente ignorate dai giudici di primo grado. Intanto, lo sciopero della fame di Alfredo Cospito non si ferma: ha già perso oltre 35 kg, praticamente un chilo ogni due giorni; i suoi livelli di potassio sono molto bassi, il che lo espone a gravi rischi cardiaci.
Data la corporatura e considerando le condizioni fisiche iniziali di Cospito, si può prevedere che il suo sciopero della fame possa durare circa tre mesi, prima che accada l’irrimediabile. E i tre mesi sono agli sgoccioli.

Per questo motivo, il comitato “Resistenza Radicale – Azione nonviolenta”, nella persona della Segretaria-Cassiere Marianna Panico, ha deciso di affiancare Alfredo Cospito nel suo sciopero, allo scopo di indurlo a interromperlo e di aprire uno spiraglio sulla sua vicenda. Una vicenda non isolata, che rende manifesta un’escalation di repressione, abuso poliziesco e coercizione che Resistenza Radicale trova preoccupante, non tanto e non solo per la “tenuta democratica” del paese, ormai da tempo alla deriva, e quasi ridotto ad una federazione di regioni autonome dalla rapacità ottusa dei leghisti, quanto soprattutto per l’azzeramento dell’agibilità politica di quanti vogliano continuare a denunciare la degenerazione politica, istituzionale e sociale di cui fanno e faranno le spese i lavoratori e le lavoratrici, nonché le persone marginali, immigrate, precarie.
Lo sciopero della fame di un dissidente per motivi politici è una forma di protesta nonviolenta molto controversa; pone interrogativi sul senso dell’azione di un contestatore che mette in gioco la vita perché vede davanti a sé un blocco di poteri concordi nel vessarlo, e percepisce la sostanziale indifferenza della comunità che dovrebbe indignarsi.

È interessante notare che, nei suoi sette giorni di sciopero della fame, a Marianna Panico sono arrivati inviti a interrompere la pericolosa ed estenuante forma di lotta prescelta solo da parte di donne, amiche, conoscenti o anche sconosciute. Ma tutte donne, preoccupate per la sua salute e assolutamente scettiche circa l’impatto di questa forma di lotta su un sistema che ha fatto del cinismo e dell’ipocrisia assiologicamente ribaltante il suo modus operandi consueto.

Uno degli accorati appelli a interrompere il digiuno è stato rivolto a Panico proprio da chi firma con lei questo pezzo, una docente di Lettere Classiche da anni in lotta contro la “Buona Scuola”, i tagli all’istruzione e l’autonomia scolastica, che si batte in difesa della libertà di insegnamento e del pluralismo ideologico, metodologico e didattico.

Lo sciopero della fame non è certo uno strumento recentemente esperito. L’insegnante che ha pregato Marianna perché interrompesse il suo digiuno aveva già fatto lo stesso con tenaci e coraggiosi precari della Scuola che, nel 2008/2009, in concomitanza con i “tagli Gelmini” (8 miliardi e 140.000 cattedre e posti di lavoro in meno), si collocarono nella piazza di Montecitorio e rimasero per quasi due mesi lì a digiunare, cioè a somatizzare la cancellazione fisica del loro diritto al lavoro e alla vita dignitosa. Due precari collassarono, nell’indifferenza generale di coloro che entravano in quei palazzi come rappresentanti del “popolo”.

Michele Santoro, all’epoca ancora in TV con qualche velleità di raccontare la realtà da una prospettiva diversa rispetto a quella padronale e filogovernativa (oggi ormai unica ammessa, come si è constatato con la propaganda attivata nel corso della pandemia e poi per la guerra in Ucraina), intervistò, nel corso della sua trasmissione su RAI 3, il siciliano Giacomo Russo, lavoratore della Scuola nel comparto amministrativo, il cui sciopero della fame fu così portato alla ribalta.

Nonostante la risonanza che l’interesse mediatico diede al valoroso Giacomo, però, il dramma che stava denunciando, quello cioè della Scuola calpestata e riconvertita in una comoda fabbrica di braccia a basso costo e “flessibili” per le imprese, non venne compreso né tematizzato.

L’attenzione, come accade fatalmente nei processi comunicativi incentrati sul singolo individuo e sul suo “stato di eccezione”, si concentrò sul “personaggio Giacomo”, al di là di ogni sua volontà. Ma, nel frattempo, neanche una delle cattedre tagliate da Gelmini venne ripristinata, né si fermò quel processo di aziendalizzazione della Scuola per il quale ogni anno contiamo i diciottenni morti nei cantieri con la copertura della cosiddetta “alternanza Scuola-lavoro”.
Lo sciopero della fame presuppone, per essere politicamente vincente, una sensibilità viva, una capacità di immedesimazione nel dolore altrui, che l’Italia prova solo in modo strumentale e paternalistico, quando non si corrono rischi o quando è il potere a ordinarlo (non si contano, ad esempio, le raccolte di generi alimentari e indumenti per gli Ucraini attaccati, mentre si ignora la sofferenza annosa di Kurdi, Palestinesi, Siriani e persino di italianissimi clochard che muoiono di freddo nelle nostre strade). Tale sensibilità l’Italia si guarda bene dal manifestare, invece, nei confronti di chi, avendo subito ingiustizia, pretenda di suscitare non momentanea pietà e commiserazione, bensì un moto di protesta, un atto di corale disobbedienza civile.

Alla fine, chi digiuna arriva al punto in cui non può più andare avanti, e allora l’alternativa è tra interrompere, adottando altri metodi di lotta, o morire, testimoniando fino in fondo l’indecenza di un interlocutore sordo e senza scrupoli, ma senza alcuna garanzia che il sacrificio estremo ottenga il risultato politico sperato per sé e per tutto il corpo sociale.

Il problema è spinoso, perché con lo sciopero della fame l’istanza politica viene direttamente collegata alla sopravvivenza individuale. Chi digiuna scarica indirettamente la responsabilità della sua eventuale morte sul referente politico indifferente, il quale, a sua volta, si sente (e può ostentare di essere) “ricattato” dal tentativo di aprire o viziare una trattativa imputandogli un delitto, ovvero inchiodandolo a un rimorso di coscienza.
Purtroppo, lo strumento di cui parliamo è stato spesso anche utilizzato abusivamente e sconsideratamente. Ciò ha prodotto un suo svilimento funzionale, con il risultato che oggi si accoglie e si dà la notizia di uno sciopero della fame con la stessa nonchalance con cui si comunica la data di inizio dei saldi di stagione!

Molte volte, negli ambienti della protesta, oltre a fare interminabili e spesso sterili “analisi di fase”, si è discusso sull’opportunità dell’utilizzo di questa forma di lotta. Riteniamo utile, a margine della vicenda di Alfredo Cospito – che speriamo si concluda a breve nel migliore dei modi, cioè con il pieno riconoscimento dell’accanimento giudiziario contro di lui da parte di magistrati che sentenziano come se esistesse un “reato di opinione” da punirsi come il più grave in assoluto – riteniamo utile elencare i motivi che, a nostro avviso, sconsigliano e disincentivano il ricorso a questo genere di protesta, partendo dalle discussioni che si sono accese tra attivisti nel corso degli anni (ormai più di venti, per chi ha iniziato a contestare la svolta neoliberista all’inizio del Nuovo Millennio) e tenendo conto degli esiti politici che tale opzione ha sortito nel passato, remoto e recente.

1) Lo sciopero della fame “soggettivizza” la lotta, che apparirebbe più efficace e conforme ai suoi scopi sociali se si presentasse come rivendicazione collettiva, cioè di classe;

2) lo sciopero della fame “patetizza” la lotta, che invece sarebbe auspicabile condurre sul piano
politico, sociale, giuridico, con argomentazioni solide e dati incontrovertibili;

3) lo sciopero della fame, come già detto sopra, dà modo ai decisori politici che ordinano la
repressione di atteggiarsi a “vittime” di un ricatto sulla vita e sulla morte; e legittima, dunque, la “linea dura” perché non si deroghi, per pietà umana, dai “principi” (“sicurezza” declinata a comodità del potere, “dignità” delle istituzioni etc.), sui quali, quando al potere conviene, “non si transige”;

4) lo sciopero della fame, specie quando fallisce gli obiettivi, costringe in un certo senso i contestatori ad alzare l’asticella dell’autolesionismo (darsi fuoco davanti ai palazzi etc.) nelle lotte successive: il che non solo non è accettabile, ma si è rivelato comunque fallimentare,
perché eccede la capacità di comprensione e legittimazione da parte di un’opinione pubblica che di norma non riesce a superare lo shock e a conferire valenza politica al gesto, catalogato
semplicemente come “folle”;

5) lo sciopero della fame può avere un qualche effetto se è una “persona-simbolo” a farlo, e se c’è
una comunità che si sente rappresentata idealmente da chi fa il sacrificio, tanto da far presagire al potere sollecitato una sollevazione o una totale perdita di consenso, in caso di mancata accoglienza dell’istanza del digiunante;

6) lo sciopero della fame, banalmente, ma non così tanto, nuoce alla salute di chi lotta, e chi lotta (esiguo numero di persone) non può permettersi di regalare all’avversario anche la salute, in un modo per di più del tutto infruttuoso.
Con questo, ovviamente, non si vuole dire che perdano valore tutti i digiuni dimostrativi o solidali. Il digiuno è una forma straordinaria di partecipazione al dolore fisico delle persone private della libertà, della vita, della speranza. È una rinuncia alla nuda e inerte sopravvivenza in favore dell’affermazione di quanto unicamente può dare senso alla vita. È un atto simbolico e culturale potente, fonte di crescita morale per chi lo affronta e chi ne comprenda le matrici e le finalità.

Anche Marianna Panico ha ricavato dalla sua esperienza un potenziamento qualitativo della propria capacità analitica e definitoria, ed è un peculio, questo, che non andrà dissipato nelle future e necessarie lotte.

Il 7 gennaio, a mezzanotte, Panico, che intanto ha continuato a lavorare, ha interrotto lo sciopero, divenuto per lei non più sostenibile; ma il “testimone”, per così dire, è passato al Presidente e Portavoce del Comitato Resistenza Radicale, il prof. Davide Tutino, cui si affiancheranno altri compagni e compagne, “a staffetta”, nel tentativo di salvare la vita a Cospito.
Sempre del 7 gennaio è la notizia che per Alfredo Cospito si sono mobilitati 38 tra intellettuali e giuristi, con un appello rivolto al Ministro della Giustizia Carlo Nordio e al governo, per la revoca del regime di 41 bis all’anarchico. Nell’appello si chiede un “gesto di umanità e coraggio” nei confronti dell’anarchico che è “a un passo dalla morte”.

Non stupisce che ci si appelli all’umanità, e non alla giustizia e all’incompatibilità del 41 bis con un qualunque stato civile e coerente con le premesse, sempre disattese, dei suoi ordinamenti. Sono, questi, purtroppo, tempi di deideologizzazione e criminalizzazione “a prescindere” di ogni orientamento o comportamento che osi proclamarsi “politico”.
Una squallida “pragmatica economico-sociale” ha sostituito, nel sentire comune, la complessità del discorso politico e, quel che è peggio, ha finito col rendere equivalenti, in ragione del loro comune “estremismo”, Fascismo e Comunismo. Solo di quest’ultimo, peraltro, l’attuale Ministro dell’Istruzione Valditara ha incredibilmente e antistoricamente proclamato la morte e la definitiva archiviazione, in un documento emanato all’atto del suo insediamento.
C’è di più. Il popolo cui Alfredo Cospito vorrebbe comunicare il senso del suo gesto, oggi, dopo l’esperienza della gestione autocratica della pandemia, non percepisce più alcuna differenza tra gesto dimostrativo e reato, né pare comprendere le ricadute, sulla tenuta democratica, della confusione tra giustizia “preventiva” e punitivo-riabilitativa.

Quello a cui Cospito e i radicali parlano, ahinoi!, è lo stesso popolo italiano che si è sentito rassicurato dall’espulsione dal lavoro di poche centinaia di lavoratori non vaccinati e già puniti con l’obbligo di sottoporsi a loro spese a tre tamponi alla settimana; una violenza inusitata, eppure accettata come lecita e dovuta. È lo stesso popolo che ha imprecato contro il nemico pubblico creato ad arte, il “no-vax filoputiniano” da stigmatizzare e isolare fino alla morte “da sorcio”. È il popolo che ha bevuto le panzane dei virologi-star e plaudito alle campagne d’odio imbastite ad arte tramite leader-fantoccio come Zelenski.
Siamo in una pessima congiuntura. Il cocktail micidiale di dealfabetizzazione progressiva e stampa a senso unico sdogana i peggiori istinti, li fa assurgere al rango di impulsi civici, premia il moralismo facile e trasforma l’antifascismo stesso, declinato come finta deprecazione dello squadrismo, in un’ingannevole maschera che copre la rifascistizzazione sostanziale della società.

Per l’Italia di oggi, Alfredo Cospito è il peggiore dei criminali, perché la TV insegna che non è criminale chi tollera 1000 morti sui posti di lavoro e 300 femminicidi ogni anno, chi accresce il divario tra poverissimi e ricchissimi, chi privatizza la Sanità fino a lasciare intere comunità senza assistenza medica, chi manda i minorenni a lavorare gratis per i futuri padroni, chi continua a sfruttare la terra e a manometterne i meccanismi irrimediabilmente, chi elimina il reddito di cittadinanza e intanto balcanizza il paese per trattenere nelle proprie tasche il residuo fiscale… No! Secondo il mainstream a voce unificata, criminale è chi ha una “ideologia”, chi pretende di ragionare “in astratto”, chi pretende, insomma, di mettere un grande ideale e non un piccolo interesse alla base del proprio agire.

Alfredo Cospito non ha intenzione di interrompere il digiuno. E’ il suo modo per dimostrare che l’ergastolo ostativo con il 41 bis, che a metà 2022 gli è stato inflitto, è solo un modo diverso di annientarlo a livello culturale, morale e anche biologico. Lo Stato vuole togliergli ciò che nutre lo spirito; vuole impedirgli di scrivere, di diventare voce scomoda, prova vivente dell’uso politico della giustizia, così come ha fatto Adriano Sofri per gran parte della sua vita.

Come Sofri, Cospito non ha ucciso nessuno. Le sue azioni e i suoi gesti dimostrativi, che dovrebbero indurre il potere a interrogarsi sulla loro origine e sulla rabbia sociale di cui sono frutto, devono avere, a livello giudiziario, pene proporzionate e rispettose di quel ius che ha trovato la sua formalizzazione universale proprio a Roma, e che ora patisce una indegna e indebita torsione ideologica.
Perché quel che non si dice e non si dirà mai, in TV, sui giornali, sui social controllati dai miliardari che strombazzano “there is no alternative” fino alla nausea, è che il Capitalismo non è uno stato “di natura”, ma è anch’esso una cattivissima, esecranda “ideologia”!

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