DI MASSIMO FINI
Ho l’impressione che se Stati Uniti e Russia continueranno a rinfacciarsi le reciproche nefandezze compiute dopo il trionfo del 1945 sul nazifascismo, risulterà evidente a molti, almeno a quelli che non sono schierati a priori, faziosamente, a favore dell’una o dell’altra parte, che i vincitori di allora non erano poi molto migliori dei vinti e che il processo di Norimberga fu un atto di inaudita ipocrisia e di suprema arroganza morale. E credo anche che il «revisionismo storico» che George W. Bush, preso dal delirio che gli viene dall’essere il capo dell’unica Superpotenza rimasta su piazza, vuole oggi applicare alla Russia, ex Urss, finirà per ritorcersi contro gli stessi Stati Uniti.
Come si sa i processi di Norimberga e di Tokyo, un inedito nell’intera storia mondiale dove fino ad allora ci si era limitati a passare per le armi, com’è giusto e sacrosanto, i capi degli sconfitti, si basavano sul presupposto che i vincitori non fossero solo i più forti ma anche moralmente superiori ai vinti.
Tanto superiori da poterli, appunto, giudicare e che, in un certo senso, lo sarebbero stati per sempre.
Già c’era qualche forte dubbio che i vincitori fossero davvero migliori dei vinti nel momento in cui si chiudeva la guerra. Fa una certa impressione, per esempio, pensare che sullo scranno dei giurati a, Norimberga, sedessero, per giudicare, di «atti di aggressione», i rappresentanti di un Paese, l’Urss, che aveva assalito e squartato, con un attacco vilissimo e proditorio, concertato proprio con Hitler, la Polonia; che era responsabile delle fosse di Katyn, dove era stata liquidata l’intera aristocrazia militare polacca (5000 persone «infoibate»); che a quel processo su «crimini contro l’umanità» facesse la sua comparsa, fra coloro che giudicavano, il sovietico Visinkij, il pubblico ministero delle «purghe» di Mosca del 1936-37. Ma fa ugualmente specie pensare che sullo scranno dei giudici dei processi di Norimberga e Tokyo sedessero i rappresentanti di un paese, gli Stati Uniti, che avevano gettato due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, a guerra ormai finita, col Giappone in ginocchio, solo per far sapere ai sovietici di essere in possesso di quelle «armi di distruzione di massa», né, come scriveva il The Guardian il 1. ottobre del 1946, «è possibile per il mondo esterno – i neutrali e i futuri storici spassionati – sentir parlare di nazismo imputato di «distruzioni indiscriminate» senza ricordare Amburgo, Dresda, Lipsia, Berlino» dove gli americani uccisero intenzionalmente milioni di civili perché questo serviva, secondo le dichiarazioni esplicite dei loro comandi politici e militari, «a fiaccare la resistenza del popolo tedesco».
Il resto del mondo fu invece considerato un libero campo di battaglia dove le due superpotenze si muovevano guerra, in genere per interposta persona e sulla pelle altrui.
In poco più di quarant’anni Usa e Urss, con l’occasionale apporto di francesi e inglesi, hanno messo a ferro e fuoco il Sud-Est asiatico, usato il napalm e armi chimiche in Vietnam, combattuto guerre trasversali in Medio Oriente, devastato e assassinato l’Africa sostenendovi, oltre che le proprie economie di rapina, i loro dittatorelli comunisti o «liberisti», «suicidato» Masarik e Allende, foraggiato (gli Usa) i più sanguinari e criminali despoti sudamericani, salvo poi dismetterli quando non più presentabili, invaso, entrambe, a una ventina d’anni di distanza l’una dall’altra, l’Afghanistan, organizzato (entrambe) decine di colpi di stato qua e là per il pianeta, fomentato e guidato, attraverso il Kgb e la Cia, queste meritevoli organizzazioni umanitarie, una buona fetta di quel terrorismo internazionale terzomondista che ora gli fa tanta paura e messo il loro tallone imperiale e accampato le loro pretese egemoniche su ogni angolo, anche il più remoto e recondito, del mondo. Infine, con la «crisi dei missili» di Cuba, all’epoca di quelle brave e simpatiche persone che rispondono ai nomi di Kruscev e di Kennedy portarono il mondo sull’orlo della terza guerra mondiale che sarebbe stata combattuta a suon di atomiche.
Glielo impedì «l’equilibrio del terrore» che, per quanto feroce e spietato da entrambe le parti, era pur sempre un equilibrio che le induceva a una qualche cautela.
Poi, col crollo dell’Urss, gli Stati Uniti e l’occidente che essi guidano e pretendono di rappresentare hanno rotto le acque. In quindici anni ci sono state la prima guerra del Golfo (160mila morti civili di cui 32.195 bambini), il blitz in Somalia, l’aggressione alla Jugoslavia, l’attacco all’Iraq che in un paio d’anni ha fatto più vittime di quante ne avesse fatte in vent’anni Saddam Hussein, le minacce all’Iran e alla Corea, mentre, nel frattempo, si lasciava, come contentino, che la Russia dei «democratici» Eltsin e Putin massacrasse la Cecenia facendovi duecentomila morti, un quinto della popolazione.
Da ultimo è venuta la teoria della «guerra preventiva», che nessuna Potenza al mondo aveva mai usato formulare apertamente, e del diritto-dovere degli Stati Uniti e dei loro alleati di attaccare qualsiasi realtà che non corrisponda ai loro valori, di spazzare dalla faccia della Terra tutto ciò che è «altro da sè». Un’ipotesi di «guerra permanente» e una percezione e una concezione totalitaria di sè quale nemmeno la Germania di Adolf Hitler, che in fondo voleva impadronirsi solo dell’Europa e non fu mai potenza coloniale, aveva avuto.
Sergio Romano sul Corriere della Sera (8/5) ha parlato della «convinzione, molto diffusa nella società americana, che l’America, grazie alle sue origini e alla sua storia» possegga una superiorità morale che le permette di giudicare tutti gli altri e di considerarsi ingiudicabile. La storia americana, partendo dal genocidio dei pellerossa, passando per lo schiavismo e il razzismo in auge fino a meno di mezzo secolo fa in quel libero Paese, per arrivare fino ai giorni nostri, è infame non meno di quella di molti altri popoli del mondo, Germania nazista e Russia sovietica comprese. L’America non ha nessuna autorità e nessuna patente morale per ergersi a giudice di chicchessia. E George W. Bush, se desse meno retta a certi suoi consiglieri fanatici e impregnati di un’ideologia totalitaria, in salsa democratica, che fa impallidire persino il bolscevismo e il nazismo (alla Paul Berman, Corriere, 7/5), dovrebbe comprendere che chi di «revisionismo storico», su base morale, ferisce, di un «revisionismo storico» dello stesso tipo potrebbe anche perire.
Massimo Fini
Fonte: www.gazzettino.it
11.05.05