La trasposizione cinematografica restituisce un’immagine di Alessandro Magno falsata ad arte dai media americani
DI LUCA LEONELLO RIMBOTTI
Se non l’avete ancora visto, andateci. Il film
su Alessandro Magno, intendiamo. La vicenda è
appassionante, il personaggio ha un fascino memorabile, ci
sono storia e mito insieme, e tutto fa parte del nostro grande
immaginario collettivo. Passato europeo, storia nostra.
L’eroe, la conquista, la gloria, le armi, il potere. Bellissime
scene di battaglia. E poi la vicenda personale: la madre maga
Olimpiade, il padre Filippo il Macedone, la sposa
Rossane, gli amici, con cui si divide tutto: pericolo, vittoria,
morte e fama immortale. E anche l’amore, amore virile,
quello ellenico, tra uomini riuniti in sodalizio d’anime
scelte. Su tutto, un tragico, grandioso destino. L’ansia di
conquista. Alessandro, effettivamente, è stato forse la più
grande incarnazione dello spirito “faustiano” – come lo
chiamava Spengler – tipico della civiltà europea: la volontà
indomabile di conoscere, di conquistare, di gettare fondamenta di imperi, penetrando il mondo e l’ignoto con una febbre divina, che proveniva dal mitico Prometeo, colui che rubò il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini, come tremendo strumento di potere.
Neanche a dirlo, il film Alexander è americano, lo ha prodotto
la Warner Bros, lo ha diretto Oliver Stone, ma non è
un’americanata, non almeno nel senso superficiale e grossolano con cui spesso da quelle parti si mettono le mani commerciali su cose preziose,
spesso banalizzando patrimoni culturali e tradizioni nostre e
altrui, dai gladiatori ai samurai.
Tuttavia, bisogna dire che è qualcosa di peggio. È una
sottile infiltrazione ideologica. Alessandro come il primo grande globalizzatore, questo il messaggio.
A un certo punto, la scena madre:
lo spettatore assiste al giovane conquistatore che,
dagli spalti di Babilonia appena conquistata dalle sue invincibili falangi, fa all’amico Efistione la minacciosa profezia che un giorno tutti i popoli del mondo, finalmente mescolati
e strappati alla miseria, verranno condotti dalla Babilonia
alessandrina sulla via della civiltà, del benessere, del
riscatto, dei liberi commerci, per poco non gli scappa di
rammentare la “democrazia”…
Quando si dice, però, la potenza dei simboli: proprio
Babilonia era, e lo era ad
esempio anche per gli ebrei, la
“grande puttana”, il luogo dello
scandaloso rimescolamento
dei popoli, della perdita dell’identità
e della caotica corruzione,
un simbolo dunque di
degrado e miseria morale…
L’Alexander di Stone poi rincara
la dose, rinnovando, in
un’enfatica scena verso la
fine, il suo sogno di vedere un
giorno tutti i popoli ricondotti
sotto un unico re – un re
del mondo liberal? – e
finalmente affrancati dalle loro terre, sulle quali spadroneggiano l’egoismo, l’arretratezza, l’incomprensione:
no, il mondo un giorno sarà migliore,
quando dalla grande città
la luce del benessere e
della liberazione si sarà
irradiata dappertutto avremo
genti felici, non più
popoli, ma un’umanità
sola e redenta. Alessandro
il Mondialista lo sentiamo
lanciarsi in un vero delirio
globalizzatore. I suoi
generali, invece, gente
all’antica, stupefatti e inorriditi,
lo richiamano al rispetto
della terra patria lontana, lo
sfidano, gli rimproverano questa
inutile sete di spazio, e più
di tutto gli rinfacciano il tradimento
del sangue – e qui il
film riporta fedelmente i
documenti storici. Dicono che
questo è il tradimento di un
capo diventato despota, sposato
indegnamente a una straniera,
una “negra”, come dice papale papale la sceneggiatura
del film: ma perché hanno fatto una Rossane che pare Condoleeza Rice? Non era, secondo le cronache antiche, una
principessa persiana, quindi indoeuropea?
Comunque sia, l’amico Clito
viene ucciso per mano del
conquistatore, perché aveva
osato rimproverargli il rinnegamento
delle radici. Questo,
per la verità e per quanto ne
sappiamo, è storicamente esatto.
I generali macedoni furono
davvero i testimoni della tradizione,
del senso dell’appartenenza,
la voce di una stirpe
cui bisogna rimanere fedeli
come a un destino superiore e
impersonale. Alessandro stava
sbandando pericolosamente…
ma l’Alexander di Stone fa
ancora peggio: il propagandista
multirazziale, il grande
globalizzatore ante-litteram,
all’attacco del mondo, fino a
morirne.
Che Alessandro il Grande fosse
un agente liberal apparso
improvvisamente come una
cometa nella notte dell’antichità,
non lo sapevamo e
ancora stentiamo a crederlo.
Ma l’avremmo scommesso,
che Hollywood ci avrebbe
giocato qualche scherzo del
genere.
In realtà, Alessandro non fu
un profeta della Trilateral, ma
un condottiero che aveva ben
fissa in testa l’idea di ellenizzare
la Persia, edificando un
Impero sulla base inter-razziale
di due popoli fratelli, non
più in guerra tra loro. Come si
dice ne I persiani di Eschilo,
secondo la visione profetica
della regina madre di Dario,
Greci e Persiani sono stirpi
gemelle che, dopo la morte
del Gran Re sconfitto, verranno
ricondotte a unità dal
Macedone. Questo è il senso
delle “nozze di Susa”, di cui il
film per altro non parla. Unione
della più giovane e più bella
aristocrazia dei due popoli,
attraverso le nozze di diecimila
guerrieri macedoni con
altrettante vergini persiane.
Nessun mondialismo, dunque,
ma una faccenda tra Indoeuropei.
In Alessandro, inoltre,
c’era il tarlo faustiano dell’Altrove,
la metafisica febbre della
conquista – per nulla globalizzatrice
e perfettamente in
linea con l’idea arcaica di gloria
divina – per raggiungere la
fama che aspetta gli eroi
immortali, come quell’Achille
di cui Alessandro era un devoto
seguace. L’India rappresenta,
in questo senso, il confine
del mondo, la vertigine che
coglie sempre l’uomo europeo
– da Pitèa a Cesare a Marco
Polo e fino a Colombo, fino a
Italo Balbo – dinanzi alla prova
con l’ignoto e con lo spazio
da conquistare.
C’era comunque in Alessandro
la vocazione di mettere in contatto
l’Europa con l’Asia, ma
nel senso monarchico-sacrale
dell’antichità e non certo in
quello globalista della modernità.
Ed effettivamente, egli si
volle travestire da orientale,
prendere panni persiani, trasformando
il potere greco in
satrapia. Ed è ciò che costituisce
la differenza rispetto ai
suoi generali, abituati all’idea
di comando che era tipica del
mondo indoeuropeo: il capo è
il primo tra i migliori, ma a
loro eguale, e tutti partecipano
di un medesimo rango. La
ripugnanza greca per la
proskynesis, ad esempio, cioè
la prosternazione orientale dei
sudditi davanti al sovrano, era
cosa estranea ai Greci e contraria
alla loro morale eroica.
Il guerriero non doveva inchinarsi
a nessuno, nemmeno agli
dèi. Non era un servo.
La differenza tra l’Europa e
l’Asia, nella mentalità grecoromana
e anche in quella germanica,
consisteva nel fatto
che a Occidente c’erano società
edificate sul potere di uomini
liberi, i guerrieri; a Oriente,
invece, dominava il servilismo.
Gli eserciti orientali erano
masse di schiavi costrette a
combattere, mentre l’esercito
greco – questo ripetono gli storici
ellenici, a partire da Tucidide
– era composto da signori,
da uomini liberi. Anche lo
storico Arriano notò la differenza
di “stile” tra libertà greco-
romana e monarchia orientalizzata
di Alessandro.
La storia del Macedone fu una
brama di gloria, ma un pericolo
per l’identità della piccola
Grecia. Egli, per altro, non
pensò affatto di affidare il
destino del mondo a una casta
chiusa di maneggiatori di
denaro. Ma pensava, da capo
militare imbevuto di mito,
solo in termini di smisurato
onore guerriero. E difatti, alla
sua morte prematura, il suo
Impero durato pochi anni si
sfasciò, non lasciando che il
ricordo indelebile di una fantastica
avventura.
Nell’epoca
contemporanea l’America,
con la sua gigantesca potenza
materiale e le sue classi dirigenti
enormemente arricchite,
ha poi provveduto a far passare
questa sete di gloria – di
gloria, non di quattrini – tipica
della nostra tradizione storica,
dalla mano guerriera e politica
a quella economica e mercantile:
e ha rovesciato l’Impero
nell’imperialismo finanziario,
la conquista nella violenta
repressione delle culture e il
rispetto per la varietà e la
diversità dei popoli – tipico
del paganesimo – nella volontà
di schiacciarli tutti sotto un
unico tallone egualitario.
Alessandro e il progetto mondialista
della finanza USA
sono, con tutto il rispetto, due
mondi opposti e imparagonabili.
Già ci aveva provato
Luttwak a spacciare paragoni
tra l’Impero romano e quello
americano, dimenticando
sacralità, gerarchia, onore di
stirpe, tradizione e differenzialismo,
che erano alla base di
Roma. Ora abbiamo anche un Alessandro Magno battistrada
della Borsa newyorchese. È un po’ troppo. D’accordo che
le multinazionali non vedono l’ora di arrivare in Persia e in
India sulle orme di Alessandro, dato che nell’antica Bactriana
alessandrina, cioè l’attuale Afghanistan, già ci sono;
ma non confondiamo i maneggi etnocidi del danaro con l’ideale pagano di una sovranità
solare e divina sul mondo.
Luca Leonello Rimbotti
Fonte:
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Segnalato da “AAAriannaEditrice”