Di Raniero Mercuri
Inseguivamo un goal. Sotto il cielo di quell’estate tutta nostra. Giocosi e giocondi, ignari del sipario pronto a calare su un’epoca alla quale avevamo chiesto troppo. Poco dopo, come un tornado a spazzare via false ingenuità, arrivarono Tangentopoli prima e Maastricht poi. Eppure, già novembre ’89 avrebbe dovuto dirci qualcosa: crolla il Muro e noi con lui. Voltarono pagina e noi con loro. D’altronde, per dirla con Marc Bloch, storico francese di inizio Novecento, “gli uomini sono figli dei loro tempi più che dei loro padri”.
La dolce estate pallonara del ’90 fu l’ultimo affresco di quando eravamo ancora noi. Sognatori incurabili e ingenui furbastri, certi che non esistesse limite al bizzarro carrozzone degli anni Ottanta, benessere orgiastico di risa semplici e sguaiate, di abbracci così leggeri da dispensarne a volontà. Ancora davamo per scontato che una tavolata di venti persone festanti, una tv a schermo tondeggiante e un siciliano dagli occhi spiritati bastasse per essere felici. L’apoteosi della banalità. O no?
L’estate più felice non fu un via vai di emozioni. Fu un’emozione unica e basta. Un’onda d’urto che investì tutto il Paese in quei giorni dove bastava un brivido a trascinarci via. Aggregazione, socialità, leggerezza, spontaneità. Scegliete il termine che preferite e domandatevi se oggi esiste. Niente, neanche uno. Forse qualcuno latitante e braccato da qualche parte ancora c’è. Ma vallo a trovare. Troppo “vecchia” l’idea di stare insieme dal vivo a condividere qualcosa.
L’estate più felice la cantammo tutti a squarciagola. Il calcio era un fenomeno sociale ampissimo e dalle mille sfaccettature, molte non sane. E allora tutti dentro, nessuno restò fuori, anche chi ignorava la forma di un pallone. Ma a chi importava? Noi volevamo stare insieme, tutti, il più possibile. Un’estate italiana di Bennato e Gianna Nannini fu la colonna sonora di piazze piene, balconi imbandierati, urla esagerate, macchine addobbate e via cantando. E allora cantiamo ancora: non eravamo fluidi né virtuali. Eravamo semplici, quello sì. Forse troppo, quello sì. Forse felici, quello sì.
L’estate più felice era una giostra di colori e il vento accarezzava le bandiere. Quelle di tutte le squadre partecipanti e dei loro tifosi venuti da ogni parte del mondo. Dai “leoni indomabili” del Camerun di Roger Milla e Oman Biyik, che pronti via segna subito di testa all’Argentina di Maradona e poi piange come un bambino abbracciando lo stregone, fatto inserire dalla federazione africana come dietologo. Uno spasso. Poi, la Colombia dei volti “rassicuranti” di Higuita e Valderrama, la pancia strabordante del genio romeno di Hagi, le facce pazze e allegre, un tantino “borderline”, di Caniggia e Gascoigne.
L’estate più felice aveva la voce di Pizzul, vera narrazione del cuore, educata, cortese e professionale. Entrò nelle nostre case senza urlare, rimbalzando qua e là dalle finestre o dai balconi dei vicini, al tempo “vicini” per davvero, in tutti i sensi, tra rumori di piatti, bicchieri e grida di bambini. Sentivamo di esserci davvero tutti, insieme.
A proposito di Vicini, ci fu Azeglio, ct di quella nazionale tutta cuore e talento. Un gentiluomo. Perdemmo in semifinale ai rigori, a Napoli, contro Maradona. E piangemmo tutti. Quella sera, il 3 luglio del 1990, su Raiuno si collegarono ventisette milioni e mezzo di telespettatori. Resta ancora il dato di ascolto più alto di sempre.
Poi, come un temporale di fine estate, la magia finì. Il mondo prese un’altra direzione.
Trentaquattro anni dopo, in un mondo ribaltato, la notizia più triste: è morto Totò Schillaci. Sì, quel siciliano dagli occhi umili e spiritati. Re assoluto e inatteso.
Ha fatto solo quello in tutta la carriera. E noi siamo stati veramente felici solo quell’estate.
AddioTotòSchillaci. Tutto attaccato, che fa meno male.
Di Raniero Mercuri
18.09.2024
Raniero Mercuri. Docente e giornalista.
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