“Oggi ho saputo che i sondaggi indicano che il 60% degli israeliani
spera
che Arafat muoia. E’ una notizia che mi fa molto male e mi fa andare in
collera. Quando l’unico partner che abbiamo avuto, Yitzhak Rabin, venne
assassinato, so che molte furono le famiglie palestinesi che versarono
lacrime per la sua morte. L’altro fronte può certamente piangere per
chi ha
la giustizia dalla sua parte e dalla parte della sua nazione. E’ quello
che
vorrei accadesse anche nella società di Israele.”
DI GIDEON LEVY
“E’ stato come se fosse morto mio padre, nonostante quest’ultimo sia
morto
trent’anni fa”. Il colonnello Marwan Abu Fada allunga la mano verso la
scatola di fazzoletti e ne prende uno e poi un altro, uno rosa e uno
bianco,
per pulirsi il naso e asciugare le lacrime. Le sue parole suonano
strozzate,
la voce lo tradisce. Eppure fino a poco prima era quello che
rimproverava
aspramente ai suoi sottoposti. Con tutta una vita trascorsa da militare
sa
bene che un soldato non piange mai; ma le lacrime gli scendono
inarrestabili
lungo il viso come se dotate di volontà propria e per di piu’ in
presenza di
uno sconosciuto.Abu Fada è in grande imbarazzo. Domanda che non vengano scattate foto
che lo
ritraggano in quello stato. Ma non appena gli si chiede di raccontare
del
suo primo incontro con Yasser Arafat, ecco che erompono i ricordi e il
dolore. Aveva incontrato Arafat la prima volta nel 1968, racconta, dopo
una
breve pausa per ricomporsi. Era avvenuto sulle colline circostanti la
città
di Salt, in Giordania. Da allora lui era appartenuto alla Forza 17, la
guardia presidenziale, e aveva girato per il mondo arabo al seguito del
suo
comandante supremo; nel 1994 erano rientrati insieme nei territori e
lui era
stato messo a capo dell’ unità territoriale di Gerico della Forza 17.
Adesso
si sente un orfano.
Partiamo da Gerico: Arafat era giunto in quella città sul Mar Morto in
un
giorno d’estate, il 5 luglio 1994, due giorni dopo aver messo piede a
Gaza.
Qualche settimana prima aveva fatto un giro nella piu’ bassa e antica
città
del mondo, la stessa che allora stava vivendo un sogno. Tutti gli
albergatori e i proprietari di ville della zona avrebbero giurato che
Arafat
si sarebbe fermato proprio da loro. Staff televisivi da ogni angolo del
globo immortalarono le future residenze presidenziali e ne
intervistarono i
proprietari. E invece Arafat se ne ando’ via allo stesso modo di come
era
venuto. Visitò la città assediata altre quattro o cinque volte in
seguito,
ma mai fu in grado di allentarne la morsa di morte. Nessun altro luogo
nei
territori occupati ha assistito ad un tale slittamento – dai 2000
ospiti
circa, in gran parte israeliani, di un’assolato sabato al ristorante
Green
Valley e al vicino ristorante Seven Trees, alla malinconia attuale
aleggiante lungo le strade di questa pastorale città fantasma.
Questa settimana siamo tornati a Gerico per parlare del suo sogno e del
suo
leader, che in questo momento lotta tra la vita e la morte lontano
dalle
oasi del deserto. In un primo momento sembrava che lo sciopero dei tre
trasportatori di gas della città, che aveva finito per bloccare la
piazza
centrale nel primo pomeriggio e creato lievi disagi al traffico, stesse
turbando la gente molto piu’ che i bollettini provenienti da Parigi.
Fahmi Mustalha sta compilando un cruciverba. Gli manca solo il nome di
nove
lettere di un’attrice egiziana. Non ha altro da fare questa mattina, a
parte
il cruciverba. Mustalha è il proprietario del ristorante Green Valley.
Il
rivale ristorante Seven Trees ha chiuso da tempo, ma lui il suo locale
continua a tenerlo aperto, tanto per passarvi il tempo. “Così me ne
rimango
tranquillo” sospira. Non ci sono clienti. I ventilatori sul soffitto
sono
fermi e stanno arrugginendo, centinaia di sedie di plastica giacciono
inutilizzate. L’unica attività del ristorante è un matrimonio di tanto
in
tanto. Una copia del quotidiano palestinese Al-Ayyam è posata sul
tavolo –
“Arafat non ha il cancro”.
Mustalha aveva inaugurato il suo ristorante del 1963; il periodo
migliore
era stato intorno agli anni ottanta. “Allora questo tavolo sarebbe
stato
apparecchiato quattro volte in un giorno. Tenevo aperto ventiquattro
ore al
giorno” – fino allo scoppio della prima Intifada, alla fine del 1987.
Da
allora gli affari al ristorante sono andati sempre peggio. Gli anni di
Oslo,
che hanno portato ai posti di blocco, hanno solo peggiorato la
situazione.
“Yesh mahsomim, ein avodah” (dove ci sono posti di blocco non c’è
lavoro),
dice in ebraico.
Questa mattina un poliziotto armato, insieme a dei soldati della
riserva,
presidiavano il posto di blocco all’entrata della città controllando i
pochi
taxi autorizzati a passare di lì. Il poliziotto metteva la testa
all’interno
di ogni vettura per controllare che il nome dell’autista o del
proprietario
apparissero, come richiesto dalla legge, su di una targhetta posta sul
lato
destro del vano interno. L’ordine deve essere mantenuto. Ciascun
autista
senza targhetta viene multato sul posto. In questo paese la legge viene
rispettata.
Mustalha è convinto che Arafat si sia recato prima a Gerico e solo in
un
secondo tempo a Gaza. “Era venuto come Joshua Bin-Nun” L’euforia in
città
era durata esattamente tre mesi, ricorda, per poi dissiparsi. Aveva
pensato
di rinnovare il ristorante, che in un attimo si era affollato di
giornalisti
e funzionari dell’Autorità Palestinese di fresca nomina. Invece, se ne
sono
andati altrove, a Ramallah, portandosi via le speranze della città.
“Ramallah” cominciò ad emergere e Gerico a declinare, prosegue
rattristato
il ristoratore, “Sodoma e Gomorra”. E’ critico nei confronti dei
funzionari
dell’Autorità Palestinese ma non si sofferma sull’argomento. “Ogni
leader ha
persone che lo amano e altre che lo odiano”.
E lei chi odia? “Arafat è un brav’uomo. Forse anche meglio di tanti
altri.
Finora non mi risulta ci sia niente da ridire su di lui. Pensava di
istituire uno stato, ma le cose sono andate in maniera diversa. Di chi
è la
colpa? Di Israele da un lato e degli Stati Arabi dall’altro. Non hanno
dato
il loro sostegno a sufficienza. “Come ricorderà Arafat?” “Mi ricorderò
soltanto delle cose buone. E’ colui che ha dato voce al popolo
palestinese,
è la persona che ci ha permesso di rimanere a galla”.
Il capo cameriere Alawi: “Prima della (prima) intifada non si parlava
di
politica. Andavamo a Tel Aviv, sedevamo con gli israeliani, mangiavamo
con
loro e ci fermavamo con loro a dormire. Non esistevano i posti di
blocco.
Fino a quando non arrivarono i coloni, fino a quando non li abbiamo
visti.
Su ogni collina, in tutto il paese. Anche prima di allora c’erano stati
dei
coloni, ma mai come alla fine degli anni ottanta.I coloni giunsero e
presero
tutto alla Palestina. Presero 150 dunams (37.5 acri) a mio padre.
Perchè?
Per quale motivo un colone dovrebbe arrivare e prenderci la terra e
costruirci un edificio? Ha forse un certificato rilasciatogli da Dio
che lo
identifica come proveniente dall’Etiopia o dalla Romania? E’ la sua
terra
questa? E’ la mia terra, e allora perchè me la dovrebbe prendere? Per
quale
ragione un colone armato deve venire nel mio villaggio e spaccarmi la
macchina e comportarsi come un criminale? Non è quello il suo compito.
“Non credevo che Arafat avrebbe messo un freno a tutto ciò. Le spiego
perchè. Fin da subito l’accordo di Oslo faceva acqua da tutte le parti.
Si
disse prima Gerico e Gaza, e poi Ramallah e Nablus e Jenin – e il resto
delle città? Non rientravano negli accordi di Oslo. Non diciamo che è
stata
tutta colpa di Arafat. Arafat non è solo. Ha un gruppo con sè”.
“Secondo me, Arafat – questo è quello che posso dirle – è il meglio
che si
possa avere. E’ proprio un brav’uomo. La situazione non è nelle sue
mani.
Dal momento che l’America e Israele hanno dato ad Arafat una stanza
senza
sole e senza luna, in che modo potrebbe mai Abu Amar (Arafat) ottenere
di
risolvere qualcosa? Forse per telefono? Ditemi come. Non è da oggi che
Sharon vuole la morte di Arafat. E’ dal 1982. Ancora adesso lo vuole
morto.
E chi ha consentito il trasferimento di Abu Amar a Parigi? Nè Sharon,
nè
Mofaz. Sappiamo chi lo ha lasciato andare in Francia – sono stati Bush
e
Colin Power. Mica Sharon.
“Se però morirà, prima diciamo Dio non voglia, abbiamo della gente
molto
molto in gamba. Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e Salim Zaanoun (Presidente
del
Parlamento Palestinese). Questi sono i due, non Qureia e non Dahlan e
neppure Barghouti.
Adesso io lavoro al ristorante. Come cameriere. Un capo cameriere. E un
giorno verrà un apprendista cameriere il quale saprà poco o niente
perchè
non ha esperienza. Imparerà. Imparerà il mestiere di cameriere. Diciamo
che
potrà essere un cameriere abile al 20 per cento. Poi il ristorante
chiude e
andiamo da un’altra parte. Chi verrà preso? Il cameriere o
l’apprendista?
Capisce che cosa intendo? Mohammed Dahlan, è nato ieri, non come
Mahmoud
Abbas o Salim Zaanoun.”
Quali sono stati gli errori di Arafat? Alawi: “Abu Amar ha un gran
cuore ed
ha dato a
diverse persone incarichi di fiducia. Sono quelle che gli hanno dato
problemi. Lui ha dato loro il posto e loro hanno dato problemi. Non
creda
che a noi faccia piacere che un tizio vada a far esplodere un autobus.
A
nessuno piace una cosa del genere. Ma se uccidono i miei e mi prendono
tutto
quello che ho, che cosa daro’ a Shaul Mofaz? Dovrei forse dirgli grazie
mille per quello che fa a Gaza tutto il giorno? Lo sa quello che fa a
Gaza.
E’ un lavoro da essere umano? Non ha un po’ di giudizio? Non ce l’ha un
cuore? Shaul Mofaz e Sharon sono dei criminali. Il mio cuore duole a
causa
degli
israeliani che sono stati uccisi.”
Le cose saranno più facili dopo la morte di Arafat?
Alawi: “Non credo che Sharon desideri la pace. Dirà che vuole portar
via i
coloni da Gaza. Vedremo quando. Ne toglierà 1000 da Gaza per piazzarne
40000
nel West Bank. Conosciamo Sharon come le nostre tasche.
Ha mai visto Arafat di persona?
“Si, l’ho visto con i miei occhi. A Ramallah e a Gerico. Non potevo
credere
ai miei occhi. Ci siamo salutati e baciati. Che posso dire? Ho ricevuto
qualcosa – non so come spiegare. Come un malato a cui viene data della
morfina per farlo sentire meglio. Ecco come mi sono sentito quando l’ho
visto. Sono seduto col Capo della mia nazione e percepisco tutto
l’onore di
Abu Amar. Non proverò più la stessa cosa per nessun altro. Lui ha
qualcosa
di speciale. Ho visto Qureia e Jibril Rajoub e Dahlan e Fathi Arafat e
Amin
al-Hindi – sono venuti tutti qua al ristorante. Li ho visti. Gente
comune.
Ma Abu Amar, non è niente del genere.”
Il comandante dell’ultimo posto di blocco palestinese ancora esistente
in
città se ne va in giro con addosso una galabia malridotta e spreca le
ore
nell’ozio in compagnia delle sue truppe. Il ritratto di Arafat si
scorge
sulla tappezzeria dietro la sedia su cui siede il Colonnello Marwan Abu
Fada. Un vecchio condizionatore d’aria Tadiran attenua il calore. Un
berretto rosso è poggiato sulla scrivania. Abu Fada ha 56 anni, porta i
capelli corti e assomiglia ad un ufficiale dell’esercito israeliano. Di
tanto in tanto suona il campanello sotto la scrivania e un soldato in
abiti
civili fa il suo ingresso con fare riverente. Le lacrime del comandante
fuoriescono un attimo dopo: “Mio madre non l’ho visto quanto Arafat. E
non
mi sono sentito come se mio padre fosse morto fino all’altroieri. Anche
se
mio padre è deceduto negli anni settanta, solo l’altroieri ho provato
la
sofferenza della perdita di un padre. Per me Yasser Arafat non è solo
un
comandante. E’ un emblema. Nonostante sia il mio comandante personale,
ho
sempre provato qualcosa di umano nei suoi confronti. Ci sono state
volte in
cui lui ha sollevato la sua mano e nutrito la gente che gli stava
intorno.
Un piccolo pezzo di pane dalle sue mani non riempie la pancia eppure
lascia
una sensazione bellissima.”
“E’ stato un lungo cammino storico fatto di molte tappe di felicità, di
rabbia e di dolore. Una volta il generale-console americano mi chiese
come
potesse, una persona nata negli anni trenta, governare negli anni
ottanta.
Gli dissi che Arafat è colui che riesce a spostare il fucile dalla mano
destra alla mano sinistra. E’ la persona che è riuscita a convincere me
della pace. Yasser Arafat. Persino i suoi oppositori, i suoi
detrattori,
hanno sentito l’enorme vuoto che si è venuto a creare nei giorni
scorsi.
Credo sia la persona che è riuscita a mobilitare l’intero popolo
palestinese
inducendolo a sopravvivere e aggrapparsi alla via della pace, malgrado
tutto
quello che gli israeliani dicevano di lui… Ma ogni cosa è nelle mani di
Dio.
Siamo un popolo che crede in Dio”.
Abbiamo un modo di dire secondo il quale i cimiteri sono pieni di
persone
indispensabili – lei che cosa ne pensa?
“che noi abbiamo un altro detto per cui un solo uomo ne può a volte
valere
1000. Nessun uomo sarà in grado di riempire il vuoto lasciato da
Arafat. E’
una persona capace di grandi decisioni politiche, ma anche di andare a
trovare un bambino malato all’ospedale per nutrirlo con le sue mani. Il
popolo di Israele avrà molto da perdere, ben più del popolo
palestinese,
dalla morte di Arafat. Non troveranno un uomo valoroso in grado di
prendere
delle decisioni coraggiose.
“Oggi ho saputo che i sondaggi indicano che il 60% degli israeliani
spera
che Arafat muoia. E’ una notizia che mi fa molto male e mi fa andare in
collera. Quando l’unico partner che abbiamo avuto, Yitzhak Rabin, venne
assassinato, so che molte furono le famiglie palestinesi che versarono
lacrime per la sua morte. L’altro fronte può certamente piangere per
chi ha
la giustizia dalla sua parte e dalla parte della sua nazione. E’ quello
che
vorrei accadesse anche nella società di Israele.”
Gideon Levy
Fonte:http://www.haaretzdaily.com/hasen/pages/ShArtVty.jhtml?sw=Gideon+Levy&itemNo
=497361
4.11.04
Traduzione per Comedonchisciotte a cura di KOLDER