DARIO RONZONI
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Il regime iraniano quando si tratta di brutalità non si trattiene. Al termine del processo per lo scandalo finanziario scoppiato nel 2011 per una frode di circa tre miliardi di dollari, Teheran ha condannato quattro degli imputati alla pena capitale. Altri due, all’ergastolo. Ai restanti, pene tra i dieci e i trent’anni di prigione. Oltre che, naturalmente, all’obbligo di restituire il maltolto.In Europa, si lamentano in molti, le istituzioni sono troppo morbide contro banchieri responsabili di frodi e corruzione. Se si mette il naso in Iran, invece, si nota che l’aria è un po’ diversa. Un tribunale iraniano ha appena condannato a morte quattro persone, per il ruolo giocato in quello che – forse – è stato il più grande scandalo bancario dell’Iran. Una bufera scoppiata a settembre 2011, ma che era cominciata già nel 2007 e che ha travolto banchieri e dirigenti fino a lambire (addirittura) il presidente, Mahmoud Ahmadinejad. Lui, però, si è scrollato di dosso ogni insinuazione.
La truffa ha coinvolto sette banche, sia di proprietà statale che privata, e si basava sulla falsificazione di lettere di credito per i dirigenti della Amir Mansour Arya Investment, compagnia guidata da Mah Afarin Amir Khosrav. I falsi documenti gli sono valsi 2,6 miliardi di dollari di mutui garantiti, destinati all’acquisizione di grandi asset di proprietà statale (ad esempio la Kuzhestan Steel, azienda fra le principali nel settore della produzione dell’acciaio).
Allo scoppio dello scandalo, la polizia ha avuto il pugno di ferro. Diciannove arresti immediati, che sono cresciuti nel tempo fino a diventare 39. Al centro delle accuse, come era ovvio, era Khosrav e altri membri della sua famiglia. Come ha dichiarato Abbas Jafari Dolatabadi, magistrato incaricato dell’accusa, «le attività della Amir Mansour Arya sono un esempio di come una banda di delinquenti ha messo a rischio la sicurezza economica della società». Fatto grave, tanto che il capo d’imputazione per Khosrav è «diffusione di corruzione sulla Terra». Reato che prevede la pena di morte.
E, a quanto pare, così è andata. Secondo le parole del portavoce del Tribunale di Teheran Gholam Hossein Mohseli Ejeli, citato dalla Reuters, quattro dei 39 processati sono stati condannati alla pena capitale, due all’ergastolo e altri a pene che variavano da 10 a 30 anni di prigione. Altro che Libor. Qui coi loro metodi brutali non sono davvero andati per il sottile.
L’unico che, al momento, se l’è cavata, è Mahmoud Reza-Khavari, direttore della banca Melli, considerato uno dei pezzi grossi nello scandalo. Non appena è esploso il caso, Khavari è volato in Canada, forte della sua doppia cittadinanza. «Per motivi di lavoro», hanno detto i suoi portavoce. Sta di fatto che non è ancora rientrato e sembra non avere nessuna fretta. Tutti i tentativi fatti dal ministero e dai magistrati per rimpatriarlo sono falliti. In ogni caso, per evitare ogni equivoco, la polizia internazionale iraniana lo ha inserito nella sua lista dei ricercati. E ora rischia moltissimo.
Dario Ronzoni
Fonte: www.linkiesta.it
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30.07.2012