DI UGO BARDI
Aspoitalia
Mi è venuto in mente in questi giorni che sono passati più di trent’anni da quando, nel 1976, facevo il primo viaggio nella mia vita su un jet che andava da Milano a New York. Non ho fatto conti precisi, ma credo di poter dire che da allora ho volato 200 o 300 volte e ho percorso sicuramente più di mezzo milione di chilometri, forse anche un milione. Quanto basta per andare dalla Terra alla Luna e ritorno.
Questo vuol dire che ho passato un buon mesetto della mia vita chiuso in un cilindro di alluminio pressurizzato, legato a un sedile duro e scomodo. I viaggi più lunghi che ho fatto sono durati anche 15 ore di fila, passate bevendo caffé schifoso, mangiando panini di plastica imbottiti di formaggio di gomma. Il tipo di viaggio che faccio di solito non prevede la business class se non occasionalmente; della prima classe, ovviamente, non se ne parla neanche.
Un altro mese di vita, o forse più, l’ho passato girellando per gli aereoporti: immensi luoghi che mi ricordano sempre la base lunare della fantascienza. Quando sono in aeroporto e mi capita di passare davanti a una finestra, mi aspetto sempre di vedere fuori i crateri e il cielo nero. Volendo, si può evitare di aggirarsi per ore con aria spettrale per corridoi, scale mobili e pedane semoventi rifugiandosi nei vari “club” delle linee aeree. Lì puoi bere caffè schifoso a volontà, guardare i programmi schifosi della TV e leggere gli articoli ancora più schifosi dei vari giornali. Personalmente, sebbene abbia guadagnato ampiamente i vari punti e privilegi che servono per accedere a questi club, di solito, preferisco aggirarmi con aria spettrale per i corridoi.
Di tutti questi viaggi, non mi sono mai capitate avventure particolari, a parte la noia delle attese, le dormite su poltrone scomodissime, la scortesia degli impiegati della sicurezza i quali, poveracci, se la devono ben rifare su qualcuno per essersi ritrovati incastrati a fare un mestiere stupido e mal pagato. Il massimo danno che ho subito è stato il mal di pancia in qualche volo un po’ più turbolento. Peggiore è il danno che arriva dalla cancellazione del volo; quasi sempre per “motivi tecnici” che, nel caso della nostra compagnia “di bandiera”, è spesso sospettosamente collegato a casi in cui avevi notato che c’erano pochi altri passeggeri ad aspettare quel volo. In caso di cancellazione, ti può spettare una lunghissima attesa ad aggirarti con aria spettrale per l’aeroporto. Oppure, ti può spettare un lunghissimo viaggio notturno in una corriera per la stessa destinazione che dovevi raggiungere in aereo. Altre volte, ti spetta ci una cena di robaccia scaldata in microonde e un letto con lenzuoli di plastica per aspettare il volo del giorno dopo. Il tutto è reso molto peggiore quando sei completamente sbalestrato dal cambio di fuso orario e dalla stanchezza di viaggi lunghissimi.
Però, vi dirò una cosa. Nonostante lo stress, la fatica fisica, il sonno da jet lag, l’eccesso di caffeina ritardi, cancellazioni, gente maleducata e tutto il resto, a me piace volare. Mi è sempre piaciuto, fin dalla prima volta.
Tutte le volte che l’aereo si alza, mi viene in mente la frase che disse Adolf Galland, comandante in capo della Luftwaffe tedesca, la prima volta che provò un aereo a reazione nel 1944: “sembrava che ci fossero gli angeli a spingere”. Quando sei in volo, hai una sensazione di leggerezza e di completa sicurezza. Di quel quasi un milione di chilometri che ho viaggiato non vi posso raccontare il più minimo incidente meccanico. Nemmeno sugli aerei della Pan Am, compagnia sparita ormai da anni, che sembravano tenuti insieme dalla colla dei tappetini sul pavimento. Nemmeno su quelli dell’Alitalia che, misteriosamente, si guastano solo quando hanno pochi passeggeri.
Ma il bello di essere in aereo è il panorama. Va di moda fra i viaggiatori incalliti fare la scena di essere smagati; di preferire la poltrona vicina al corridoio, dove è più facile alzarsi per sgranchirsi le gambe. Ma per me no. Quando posso, scelgo sempre il posto col finestrino. I migliori sono quelli in coda, dove la vista non è impedita dall’ala dell’aereo. Alle volte si vedono soltanto nuvole, ma quando il cielo è chiaro, beh, è un po’ come Google Earth, ma dal vero è tutta un’altra cosa.
Mi ricordo un temporale visto dall’alto sopra Milano, le nuvole al tramonto sopra Singapore. Mi ricordo un decollo dall’aeroporto di Newark con i grattacieli di Manhattan tutti illuminati che sfilavano come in un corteo. Le Alpi con in ghiacciai sono sempre uno spettacolo. Poi mi è capitato di passare sopra il Grand Canyon e sulle montagne deserte dell’Alaska. Le città dell’europa appaiono piccole come gioelli; perfettamente riconoscibili come se fossero disegnate sulla mappa. Mi ricordo la torre Eiffel di Parigi, piccola come uno stuzzicadenti piantato per terra; Venezia che sembra disegnata sul mare.
Eppure, negli ultimi tempi, tutte le volte che ho preso l’aereo ho sempre avuto l’impressione che fosse l’ultima volta. Non mi fraintendete; non ho presentimenti di morte. E’ solo che, con tutta la buona volontà, non riesco a vedere come il trasporto aereo civile possa sopravvivere per più di qualche anno ancora.
Ogni volta che parto, mi viene in mente che l’aereo è carico di cherosene e che quel cherosene viene da petrolio che si è accumulato da antichi organismi del Giurassico che sono andati a morire su una spiaggia da qualche parte. Questo è successo svariate decine di milioni di anni fa e un altro Giurassico avrà bisogno di un po’ di tempo per avvenire di nuovo. Nel frattempo prima o poi dovremo imparare a fare a meno del cherosene. C’è qualche modo per fare viaggiare gli arei senza cherosene?
Ahmé, no. Non c’è nessun modo pratico; non allo stesso prezzo, perlomeno. Certo, si possono immaginare varie soluzioni tecniche. L’idrogeno, per esempio; perché no? Nulla vieta di progettare aerei che vadano usando idrogeno liquido come carburante. Ma, attenzione, non per gli aerei di oggi. L’idrogeno liquido deve stare in un serbatoio criogenico e un serbatoio criogenico non può stare nelle ali, dove sta oggi il cherosene. Dovrebbe stare nella fusoliera, ma allora i passeggeri dove stanno? Dovremmo sostituire tutti gli aerei esistenti con nuovi aerei, ma questo avrebbe dei costi enormi. E l’idrogeno, di per se, costa molto più caro del cherosene a parità di energia fornita.
Lo stesso vale per altri carburanti. Possiamo fare liquidi che bruciano partendo dal carbone. Oppure possiamo fare biodiesel partendo dai cereali. In qualche modo, dovrebbe essere possibile alimentare gli aerei esistenti con questi carburanti. Ma a che prezzi? Chi potrà permettersi di pagarli? Mi risulta che c’è ancora gente che investe sulle compagnie aree, c’è chi sta costruendo nuovi aeroporti e cose del genere. A ognuno le sue scelte; personalmente mi è chiaro dove NON è decisamente il caso di mettere i miei risparmi.
In un certo senso, è anche bene che sia così. In fondo, il mio milione di chilometri me lo sono volato e, dopotutto, non mi fa particolare dispiacere se non mi capiterà più di trovarmi da qualche parte insieme a un altro centinaio di tizi che sono tutti volati laggiù in aereo per discutere su come risparmiare energia.
Da un altro punto di vista, però, non mi dispiacerebbe continuare a volare, anche se lo vorrei fare senza usare il petrolio. Un aereo fotovoltaico l’ho già visto su internet. E’ un aggeggio carino, ma non il tipo di cosa che porta 300 passeggeri e il loro bagaglio alle Maldive. Forse potremmo ritornare ai dirigibili, possibilmente fotovoltaici. Sarebbe un bel viaggiare, soprattutto per chi, come me, ama guardare il paesaggio. Leggevo da qualche parte che i vecchi Zeppelin tedeschi viaggiavano talmente a bassa quota che i passeggeri potevano sentire i cani che abbiavano giù in basso. Se qualcuno tira fuori una cosa del genere, io mi prenoto!
Se volete approfondire l’argomento, potete dare un’occhiata a questo articolo recente su “The Oil Drum”
Ugo Bardi
([email protected])
Fonte: http://www.aspoitalia.blogspot.com/
9.11.07