Vladimir Putin: missili contro ISIS armabili con testate nucleari. Ash Carter: siamo in guerra con l’ISIS. Il messaggio tra le righe

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DI FEDERICO DEZZANI

federicodezzani.altervista.org

“I moderni missili impiegati dalla forze armate russe in Siria possono essere armati con testate nucleari, sebbene non sia ovviamente necessario”, afferma Vladimir Putin: l’evanescente stampa occidentale non ha colto un lapalissiano avvertimento che durante la Guerra Fredda avrebbe allertato qualsiasi “cremlinologo”. Non è l’impegno a non usare armi nucleari contro l’ISIS, bensì l’evocazione stessa delle testate atomiche, il messaggio che Putin lancia all’Occidente: aumentate il tono dello scontro in Siria ed Iraq e sarà guerra. La situazione militare del Califfato volge infatti al peggio e gli angloamericani con i vari alleati NATO raddoppiano gli sforzi per evitare che Mosca e Teheran li espellano dalla regione. La Turchia di Recep Erdogan è impiegata da Washington e Londra per il lavoro sporco e ricopre lo stesso ruolo che ebbe la Serbia nel 1914.

Quando il contesto è più importante del testo

L’occasione del discorso è l’incontro al Cremlino tra il presidente russo Vladimir Putin ed il ministro della Difesa Sergey Shoigu per discutere degli sviluppi militari in Siria: la mattina dell’8 dicembre il sottomarino “Rostov sul Don”, un moderno esemplare della categoria Kilo-class a propulsione diesel-elettrica, è emerso dalla acque del Mediterraneo orientale per il lancio1 dei missili Kalibr che, dopo aver sorvolato i cieli della Siria, esplodono in riva all’Eufrate, a Raqqa, distruggendo due postazioni dell’ISIS. L’impiego di un sottomarino per bombardare il Califfato unito all’utilizzo dei modernissimi Kalibr, quando sono più che sufficienti i bombardieri Tu-22 e Su-24 affiancati dai missili da crociera che partono dal Mar Caspio, è uno sfoggio di potenza sproporzionato ai fini. Il significato è infatti tutto politico, come emerge dalle parole che Putin scambia con Shoigu2:

“Dobbiamo analizzare tutto ciò che accade sul campo di battaglia, compreso come le armi funzionano. I missili Kalibr e KH-101 hanno dimostrato di essere moderni ed altamente efficienti e, adesso, ne abbiamo la certezza. Sono armi di precisione che possono essere equipaggiate sia con testate convenzionali che con quelle speciali, ossia nucleari. Naturalmente, ciò non è necessario quando si combattono i terroristi e spero che non sarà mai necessario.”

L’esternazione del presidente russo passa quasi inosservata e la Repubblica titola anodina “Putin: -Spero non siano necessarie testate nucleari-”.

È sintomo dell’elettroencefalogramma piatto dei media occidentali che, a forza di copiare veline, hanno perso qualsiasi capacità di analitica. Una simile affermazione avrebbe fatto saltare sulla sedia qualsiasi cremlinologo ai tempi della Guerra Fredda , guadagnando la prima pagina dei giornali con il probabile titolo: “Mosca avverte: escalation militare in Siria e sarà guerra nucleare”. L’idea infatti di ricorre a testate nucleari contro un esercito (in rotta) di 30.000 mercenari al soldo degli angloamericani è talmente balzana che il riferimento alle testate atomiche deve essere estrapolato dal testo, e ricondotto al contesto: ovvero lo scontro in atto senza esclusioni di colpi tra Russia, Iraq, Iraq e Siria da una parte e Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Israele ed autocrazie sunnite dall’altra. Siamo pronti a tutto, anche al salto di qualità nel conflitto: questo è il messaggio che Putin lancia agli angloamericani.

Venerdì 11 dicembre Vladimir Putin ribadisce il concetto, nel dubbio che qualcuno in Occidente fosse stato distratto3:

“Qualsiasi bersaglio che minacci il nostro gruppo o le nostre infrastrutture di terra in Siria deve essere distrutto immediatamente. (…) Dobbiamo prestare un’attenzione particolare al rafforzamento del potenziale bellico delle forze strategiche nucleari e dotare tutti i componenti della nostra forza nucleare – marina, aviazione ed esercito – di nuovi armamenti.

Gli fa eco il ministro della Difesa russo Sergey Shoigu: oltre il 95% dei sistemi di lancio delle armi nucleari russe è pronto al combattimento e nel corso dell’anno si sono aggiunti all’arsenale atomico 35 nuovi missili balistici.

Accidenti, quanto è salita la temperatura da quando i russi hanno distrutto il contrabbando di petrolio gestito dal Califfato!

Già, perchè il punto di svolta della guerra in Siria ed Iraq coincide con l’intervento militare russo di fine settembre e la simultanea costituzione di un centro di coordinamento bellico ed informativo tra Iran, Iraq, Siria e Russia: da allora le fortune dell’ISIS si trasformano in continui rovesci. Il colpo letale è assestato quando nell’ultima decade di ottobre Mosca inizia a concentrare i bombardamenti sulle autocisterne che trasportano il greggio dai tre maggiori siti petroliferi controllati dall’ISIS (Raqqa e Deir El Ezor in Siria, Mosul in Iraq) verso la Turchia, dove poi il petrolio è immesso nel circuito internazionale: distruggendo la flotta di camion e le infrastrutture petrolifere, Mosca mina alle fondamenta l’intero progetto di destabilizzazione del Medio Oriente, che necessitava degli introiti del greggio per la nascita e la maturazione del Califfato, assemblato a colpi di bombe e pulizie etniche sulle macerie di Siria ed Iraq.

Da allora gli eventi si sono fatti incalzanti: il 13 novembre la strage dell’ISIS a Parigi ed una decina di giorni dopo, il 24 novembre, l’abbattimento del Su-24 da parte di Ankara, con il placet della NATO.

Con la strage al Bataclan ed allo Stade de France, gli angloamericani conseguono l’obbiettivo di far convergere in Siria ed Iraq il maggior numero possibile di alleati, in primis Germania e Francia, dove il presidente François Hollande ed il premier Manuel Valls utilizzano invece gli attentati per scopi interni, cercando di arginare l’ascesa del FN con la classica strategia della tensione. Con il Su-24 colpito dai turchi, si lancia al contrario un chiaro avvertimento ai russi: colpendo il petrolio dell’ISIS, avete varcato la linea rossa.

Putin non si fa intimorire: pone le basi per una zona d’interdizione di volo sopra la Siria schierando i missili S-300 e S-400 e fa capire, come da sopra, che è pronto a rispondere colpo su colpo.

Washington è costretta ad adottare immediate contromisure, di fronte alla concreta possibilità che Siria (vedi la riconquista di Homs) ed Iraq (vedi l’imminente espugnazione di Ramadi) debellino l’ISIS con l’aiuto di Mosca e Teheran, sabotando così il progetto di balcanizzazione della regione. C’è l’imbarazzo derivante dal fatto che l’intervento russo ha svelato al mondo come la coalizione a guida americana non combattesse bensì proteggesse l’ISIS e poi c’è l’impellente necessità di bloccare lo sfaldamento del Califfato.

Il 9 dicembre, il giorno successivo allo sfoggio dei muscoli russi, il Segretario Ashton Carter, interrogato dalla commissione Difesa del Congresso, ammette pubblicamente che gli USA non hanno finora contenuto l’ISIS a livello “strategico” ma solo a livello “tattico”4 e che tutti gli sforzi statunitensi fossero finalizzati a “contenere” l’ISIS, non a debellarlo: il termine “containment” è lo stesso che usavano dagli strateghi angloamericani durante la Guerra Fredda, quando era necessario convivere con l’URSS. È molto singolare che i tagliagole dell’ISIS siano trattati con lo stesso riguardo di una potenza nucleare come l’Unione Sovietica.

Carter asserisce che ha personalmente viaggiato in 40 Paesi per spronare gli alleati e promette che saranno aumentati gli sforzi, perché “the reality is we’re at war”. In guerra contro l’ISIS addestrato, equipaggiato e finanziato dalla stessa Washington? Ma neppure per idea. Si estrapoli anche qui il testo e lo si ricollochi nel contesto: gli angloamericani & Co. sono in guerra con Mosca e Teheran.

Sul piano militare gli angloamericani devono invece puntellare nell’immediato lo Stato Islamico ed assicurarsi una serie di basi da cui continuare la destabilizzazione di Siria ed Iraq, garantendosi l’esistenza di uno Stato sunnita incastonato nel cuore del Levante e fedele ai loro interessi.

Si alzano quindi in volo gli aerei statunitensi ed il 6 dicembre bombardano a Deir El Ezor le uniche postazioni dell’Esercito Arabo Siriano che resistono adamantine in mezzo alla marea dell’ISIS5: se gli americani avessero sganciato le bombe a caso, le probabilità che colpissero le truppe regolari erano vicine allo zero. Bilancio: 4 morti, 12 feriti e l’ISIS di nuovo all’attacco grazie al provvidenziale soccorso americano. Dice probabilmente il vero il presidente Bashar Assad quando afferma che i raid della coalizione angloamericana hanno sinora rafforzato e non indebolito il Califfato6.

Parte poi la manovra per dispiegare nuovamente uomini e mezzi statunitensi in Iraq, da dove si sono ritirati nel dicembre del 2011 dopo aver formato i futuri capi dello Stato Islamico, sfornati tutti da Camp Bucca, prigione americana non distante dal confine col Kuwait7. Il primo dicembre Barack Obama annuncia l’invio di una nuova “forza di spedizione permanente” in Iraq, composta da forze speciali che si sommano ai 3.500 militari già in loco8.

Il 10 dicembre appare sull’autorevole New York Times l’articolo “Pentagon Seeks to Knit Foreign Bases Into ISIS-Foiling Network9 dove si illustra la strategia americana per “combattere” lo Stato Islamico: la creazione di una rete di basi in Africa, Sud-Est asiatico e Medio Oriente, così da assicurare la presenza militare nelle “world’s most volatile regions”. Si legge all’interno:

“Officials said that the Pentagon’s proposed new architecture of bases would include four “hubs” — including expanding existing bases in Djibouti and Afghanistan — and smaller “spokes,” or more basic installations, in countries that could include Niger and Cameroon, where the United States now carries out unarmed surveillance drone missions, or will soon. The hubs would range in size from about 500 American troops to 5,000 personnel, and the likely cost would be “several million dollars” a year, mostly in personnel expenses, Pentagon officials said. They would also require the approval of the host nation. (…) The Pentagon plan also calls for a hub in the Middle East, possibly Erbil, in northern Iraq, where many of the 3,500 American troops in Iraq are based.

Ecco a cosa servono i vari Boko Haram, Al Qaida nel Magreb ed ISIS: a piantare bandierine nell’Africa tropicale e a creare un’enclave americana in Iraq, così da proseguire la destabilizzazione della regione. Si noti infatti dove gli americani vogliono aprire la base irachena, ad Erbil, nella zona nord dell’Iraq a maggioranza curda, dove tra l’altro anche il governo tedesco di Angela Merkel sta investendo molte risorse in vista della secessione della regione dal resto dell’Iraq10.

Già, perché il governo centrale di Baghdad, come peraltro anche quello di Damasco, ha esplicitamente rifiutati l’invio di nuove truppe americane, il cui dispiegamento è considerato un “atto ostile”: di fronte al palese sostegno di Washington alle forze che lavorano per la disintegrazione del Paese, il parlamento iracheno ipotizza addirittura la cancellazione degli accordi stipulati con gli USA in materia di sicurezza11.

Se l’ISIS è in condizioni drammatiche dopo l’intervento militare di Mosca ed il governo di Baghdad, sempre più filo-russo, è ostile al dispiegamento di truppe americane, come portare avanti la destabilizzazione dell’Iraq e della vicina Siria?

Magari la NATO può chiedere un aiuto ad un membro dell’alleanza: la Turchia…

Ankara, lo sgherro della NATO

Il presidente Recep Erdogan non è un fantoccio degli americani secondo i classici standard europei (Tony Blair, Nicolas Sarkozy, Matteo Renzi, Angela Merkel, etc. etc.).

Installato ai vertici della Turchia grazie al determinante apporto di Washington (il suo padrino politico è il potente imam Fethullah Gülen che da anni vive in Pennsylvania e gestisce insieme alla Central Intelligence Agency il movimento Hizmet per la penetrazione religiosa e politica del Centro-Asia) Erdogan si è progressivamente reso autonomo dai propri burattinai, come a volte capita ai vari dittatori e capi di Stato che angloamericani ed israeliani manovrano in giro per il mondo.

I rapporti tra Erdogan e Gülen si incrinano a tal punto che il santone nell’ottobre del 2015 è inserito nella lista dei terroristi più ricercati: le proteste di Gezi Park del 2013 sono infatti un tentativo, fallito, di rovesciare Recep Erdogan con la classica rivoluzione colorata.

Il “sultano”, un personaggio molto spregiudicato, interessato solo a mantenersi al potere ed incamerare ricchezza per il suo clan (vedi il contrabbando di petrolio gestito dal figlio Bilal Erdogan con l’ISIS12), si vendica degli angloamericani nei primi mesi del 2015 accettando la costruzione del Turkish Stream, risposta del Cremlino all’affossamento del South Stream dietro pressione degli angloamericani, che riescono ad impedirne il transito sul territorio bulgaro.

Le oligarchie anglofone sono però pragmatiche e chiudono un occhio, perché Erdogan è molto utile su altro fronte: la destabilizzazione del Levante e del Nord Africa. È attraverso la Turchia infatti che il petrolio dell’ISIS è immesso nei mercati internazionali e dalla frontiera turca entrano miliziani ed armi per mettere a ferro e fuoco la Siria e l’Iraq.

Quando l’intervento militare russo (settembre 2015) colpisce il vitale contrabbando di petrolio che alimenta il Califfato, la NATO dà luce verde ad Ankara: con chiaro intento provocatorio un F-16 turco abbatte il 24 novembre il cacciabombardiere russo, senza che parte atlantica ci sia nessuna reazione. Recep Erdogan sta agendo infatti nella veste di sgherro della NATO: è l’autocrate sunnita che fa il lavoro sporco, con la copertura delle compiacenti Washington e Londra che dicono sardoniche “sono affari vostri, vedetevela tra di voi”.

I russi non mollano l’osso anzi, al contrario, martellano furiosi i campi petroliferi e le autocisterne che alimentano i traffici di greggio tra la Turchia ed i territori controllati dall’ISIS. A quel punto il Califfato è scosso alla fondamenta e c’è il concreto rischio che collassi nel volgere di pochi mesi: urge ritagliarsi almeno un pezzo dell’Iraq da cui continuare la destabilizzazione di Baghdad e di Damasco. Che fare? Rivolgersi ancora a Recep Erdogan.

Tra il 3 ed il 4 dicembre l’esercito turco entra in territorio iracheno con almeno 150 soldati e diversi carri armati, installandosi a nord di Mosul, controllata dall’ISIS con cui Ankara è in affari, per la costruzione di una base13. A chiedere l’intervento turco nel nord dell’Iraq è nientemeno che Massoud Barzani14, ex-presidente della regione curda e vecchia conoscenza della Central Intelligence Agency sin dalla Prima Guerra del Golfo15. Non sono quindi i curdi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) o del YPG, i primi acerrimi nemici di Ankara ed i secondi impegnati in Siria nella lotta contro l’ISIS, bensì i ferrivecchi al soldo degli angloamericani a chiedere l’intervento turco.

Una volta di più è dimostrato che Recep Erdogan agisce in ossequio alle direttive della NATO: Washington infatti non fa nessuna protesta formale di fronte all’invasione turca e sulle agenzie si legge solo un laconico Washington, which is leading an international coalition against Islamic State that includes Turkey, Arab states and European powers like Britain and France, has told Ankara and Baghdad to resolve the standoff16

La reazione del governo di Baghdad è furiosa: il ministro degli Esteri iracheno convoca immediatamente l’ambasciatore turco per chiedere il ritiro delle truppe, la cui violazione della frontiera è considerata un vero e proprio “atto ostile”17, mentre il premier Haider al-Abadi concede 48 ore di tempo ad Ankara per ritirare i soldati prima di portare la questione all’ONU, come poi accade l’11 dicembre18. Il ministro degli Esteri turco esclude al contrario qualsiasi ritiro dell’esercito ed è diramato l’avviso a tutti i cittadini turchi residenti in Iraq di lasciare il Paese, eccezion fatta ovviamente per chi si trova nel Kurdistan iracheno, dove è dispiegato l’esercito Ankara19.

Gli alleati di Baghdad intervengono a loro volta: l’Iran dimezza il flusso di gas diretto verso la Turchia20 e l’8 dicembre l’ambasciatore russo all’ONU definisce “incauta ed inspiegabile” la mossa turca21. Lo stesso giorno il sottomarino “Rostov sul Don” lancia come abbiamo visto i missili Kalibr dal Mediterraneo Orientale e Vladimir Putin lascia con noncuranza cadere la parola “testate nucleari”.

Il gioco è ormai chiaro: gli angloamericani utilizzano Ankara per alzare la tensione nella regione e, come dimostra l’abbattimento del Su-24, è probabile l’equivalente della pallottola sparata a Sarajevo nel 1914 dai nazionalisti serbi questa volta sia esplosa dai turchi, su istigazione di Washington, Londra e Tel Aviv.

Il Cremlino ne è conscio ed i 35 nuovi missili balistici difficilmente sono puntati solo sulla Sublime Porta.

sarok-bush__2008_12_15_h11m36s56

Federico Dezzani
12.12.2015
NOTE

1https://www.youtube.com/watch?v=E8B64gmKWn8

2https://www.rt.com/news/325178-putin-nukes-missiles-isis/

3http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-12-11/putin-rafforzare-nostre-forze-nucleari–115640.shtml?uuid=ACmhBMrB

4http://www.cbsnews.com/news/defense-sec-ash-carter-isis-is-not-contained/

5https://www.rt.com/news/325179-coalition-jets-syrian-army-attack/

6http://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/isis-assad-warns-coalition-airstrikes-in-syria-made-terror-group-stronger-a6756736.html

7http://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/camp-bucca-the-us-prison-that-became-the-birthplace-of-isis-9838905.html

8http://www.theguardian.com/us-news/2015/dec/01/us-military-expeditionary-force-isis-iraq-syria

9http://www.nytimes.com/2015/12/11/us/politics/pentagon-seeks-string-of-overseas-bases-to-contain-isis.html?_r=0

10http://www.iraqinews.com/baghdad-politics/german-foreign-minister-arrives-erbil/

11http://sputniknews.com/world/20151209/1031467186/iraq-us-security-cancellation.html

12https://www.rt.com/business/323391-isis-oil-business-turkey-russia/

13http://www.presstv.com/Detail/2015/12/06/440595/Iraq–AlAbad–Peshmerga-Mosul-Bashiqa—

14http://www.bloomberg.com/news/articles/2015-12-06/turkey-bolsters-military-numbers-in-northern-iraq-hurriyet-says

15http://www.nytimes.com/1998/07/25/world/us-welcomes-kurdish-leader-who-betrayed-cia-in-iraq.html

16http://www.reuters.com/article/us-mideast-crisis-iraq-turkey-idUSKBN0TQ0SS20151207#dlQqxM4IqhF80igv.97

17http://www.bbc.com/news/world-middle-east-35012902

18http://www.aljazeera.com/news/2015/12/iraq-file-complaint-turkish-incursion-151211150935433.html

19http://sputniknews.com/middleeast/20151210/1031505344/turkey-urges-citizens-leave-iraq.html

20http://uk.reuters.com/article/uk-turkey-iran-gas-idUKKBN0TS0MB20151209

21https://www.washingtonpost.com/world/middle_east/russia-tells-un-turkey-was-acting-recklessly-in-iraq/2015/12/08/1b38ef3c-9e0f-11e5-9ad2-568d814bbf3b_story.html

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