VITE BIANCHE

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MARCO ROVELLI
Nazione indiana

E’ da tempo che giro l’Italia incontrando sopravvissuti. Coloro che hanno avuto un affetto, e lo hanno visto scomparire inghiottito dalla macchina produttiva. Incontro padri, madri, parenti, amici, colleghi dei morti sul lavoro. E ogni volta si tratta di far fronte a un dolore negato. Negato dalla società, che si rifiuta, nei fatti, di considerarlo davvero. Perché considerare una morte sul lavoro significherebbe non lasciare soli i sopravvissuti, per prima cosa, e poi cominciare ad articolare un discorso che provi a mettere rimedio al suo ripetersi, e ne affronti le cause. Significherebbe smettere di pensare che sia una fatalità. Ma questo non è possibile. Perché sappiamo tutti che la nostra società ha bisogno di sacrifici umani. E’ accettato da tutti. E’ normale così.

La strage di Torino mi riporta alla mente la morte di Matteo Valenti. Ventitré anni, di Viareggio. Anche lui morì bruciato. Ma in un’azienda artigianale, di appena due dipendenti. Il cui proprietario era il presidente della Confartigianato di Lucca, e aveva la responsabilità per la sicurezza per quattromila aziende. Nella sua, nemmeno un aspiratore. Matteo non è stato dimenticato, ed è nato un comitato che ha chiesto verità. Ma è un caso raro. Quante verità come la sua sono negate?

A Torino un lavoratore era vicino ai compagni che bruciavano. Testimone impotente. E anche in questo caso, mi viene da pensare che sia davvero questo l’inferno: un ragazzo innocente che brucia e grida, e tu che guardi e non puoi farci nulla. Di Roberto Scola, il secondo morto, il testimone ha detto: Era bianco, sembrava carne cotta. In questa immagine che annichilisce c’è tutta l’incommensurabile verità delle morti sul lavoro. E’ come se Roberto, e in lui ogni lavoratore, fosse stato sottoposto a una pressione insopportabile. Una pressione che conduce al punto di combustione, e cancella. Una pressione che svuota, che priva di ogni identità, di ogni resto. Fino a far diventare una persona una semplice appendice macchinica, bianca di morte.

Sì, morte bianca, è questa la classica e bugiarda espressione. Bianca come un sepolcro. Un’espressione ipocrita, che racchiude in realtà l’indifferenza della società. Quell’indifferenza diffusa verso cui Gramsci manifestava il suo odio, un territorio affine all’ignavia che Gesù di Nazareth vomitava dalla bocca. Morte bianca, come a dire: non è colpa di nessuno. Com’era per le morti in culla dei neonati. Se però grattiamo il palinsesto, troviamo che l’espressione originale era “omicidi bianchi”. A dire invece che le colpe c’erano, ed erano occultate.

Non sono le morti a esser bianche. Sono le vite. Vite cancellate dall’indifferenza, e dalle necessità intangibili, e sacre, della Produzione. Vite bianche.

Nella strage di Torino ci sono tante verità insieme. La grande fabbrica multinazionale, in via di smantellamento, gli estintori vuoti, i turni di lavoro massacranti. E di fronte a questa cruda evidenza, si grida allo scandalo. Ma lo scandalo è tutti i giorni, questa è la verità. Basta voler vedere, e ragionare. Quante volte si incontra negli occhi delle madri, o delle mogli, questa verità.

La strage di Torino è un evento così fragoroso che non può non conquistare i titoli principali di giornali e tg. Ma faranno presto a dimenticarsene, come sempre: conviene piuttosto additare i migranti come untori, ché la gente è contenta quando l’evidenza è confermata, e non importa se è solo un’impressione. Meglio farebbero invece a obbligarsi a dar conto di come vanno avanti i procedimenti sulle morti sul lavoro. O meglio, di come troppo spesso non vanno avanti. Di come queste vite vengano cancellate anche dopo la morte. Del resto, nessun imprenditore va mai in galera per una morte dovuta a sue precise, accertate e definite responsabilità. L’imprenditore sa che non rischia nulla. E perciò può permettersi di trascurare la sicurezza delle vite umane che sta usando. Cominciamo da qui, è questo che dicono la maggior parte dei familiari delle vittime. Non per vendetta del passato, per giustizia del futuro. E poi affrontare davvero i dati strutturali della questione: la frammentazione del processo produttivo, la catena infinita degli appalti, la ricattabilità e la precarietà dei lavoratori, la competizione selvaggia scaricata sul costo del lavoro e sulla sua sicurezza. Fino, magari, a tornare a pronunciare, magari in forme nuove, quel sintagma antico: “coscienza di classe”. E’ solo a partire dall’articolazione di un discorso di questo tipo che la lamentazione a reti unificate sulle “morti bianche” cesserebbe di essere un rito che celebra un sacrificio necessario.

Marco Rovelli
Fonte: www.nazioneindiana.com
Link: http://www.nazioneindiana.com/2007/12/08/vite-bianche/#more-4944
8.12.07

(pubblicato su Liberazione, l’8-12-2007)

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