DI GEORGE MONBIOT
Questo è il grande paradosso dell’umanità. Siamo l’unico animale capace di durevole empatia e altruismo verso esseri estranei. E siamo l’unico animale che ne uccide tanti appartenenti al suo genere, e devasta il pianeta che abita. Mentre la violenza degli uni verso gli altri è diminuita con una velocità sorprendente, come documenta Steven Pinker, la nostra violenza verso il pianeta vivente sembra si stia intensificando.
La megafauna che un tempo dominava gran parte del mondo è ora limitata a piccole e ridotte sacche, da cui sta scomparendo a grande velocità. Dato il ritmo attuale dell’attività di bracconaggio, rinoceronti e elefanti potrebbero scomparire da quasi ogni angolo dell’Africa prima che un bambino nato oggi finisca il periodo scolastico. I leoni un tempo vivevano un po’ ovunque: in Europa, Asia, Americhe e in tutta l’Africa.
Nel 1940 in Africa ne rimanevano 450.000. Ora ce ne sono 20 mila, e la popolazione ne prevede il dimezzamento nei prossimi 20 anni. In una sola stagione di incendi, la maggior parte della foresta pluviale indonesiana è stata frammentata e incenerita. L’ecosistema marino sta collassando davanti ai nostri occhi, i foodwebs disfatti dalla pesca eccessiva e dall’inquinamento. Il suolo, secondo l’Organizzazione per il cibo e l’agricoltura delle Nazioni Unite, si sta erodendo così velocemente che il mondo ha, in media, solo altri 60 anni di produzione agricola. Lo spazio climatico in cui fiorì la civiltà umana si è chiuso come una porta che sbatte violentemente. Potrebbe essere che queste due tendenze siano correlate? Potrebbe essere che il notevole calo della violenza che gli esseri umani si infliggono l’un l’altro siano stati ottenuti violando il mondo vivente? Impadronendoci e liquidando le ricchezze naturali, ci siamo acquistati una tregua temporanea dal conflitto per le risorse? C’è un modo più ottimista di comprendere il paradosso umano.
Con la possibile eccezione della talpa nuda, che è un mammifero eusociale (ha una struttura simile a quella della famiglia di api e formiche), nessuna specie di vertebrati è così socievole come l’uomo. Le talpe subordinano i loro interessi individuali solo a coloro con cui condividono il materiale genetico. Ma noi siamo capaci di subordinare i nostri interessi individuali anche verso gli estranei: inviando denaro per beneficenza, accogliendo i profughi, offrendoci volontari come scudi umani. Usiamo le nostre attitudini socievoli per normalizzare tale eccezionale comportamento. Ma la stessa capacità di socializzare, di metterci in posizione subordinata, può anche essere usato per normalizzare le nostre tendenze più oscure: l’avidità, la violenza, la distruzione, la subordinazione alle rivendicazioni degli psicopatici. La maggior parte delle persone si schiera con lo status quo, sia che si tratti di democrazia, di monarchia, di stalinismo, di nazismo, la cura per il pianeta vivente o un carnevale di rovina. In altre parole, il problema è che non siamo intrinsecamente inclini alla distruzione, allo spreco e all’assassinio, più di quanto non siamo intrinsecamente inclini ad angeliche gesta di gentilezza e amore. Il nostro cervello sociale è in grado di normalizzare l’una e l’altra tendenza. Non è la natura umana che abbiamo bisogno di cambiare, ma le norme e le istituzioni che entrano in gioco con essa.
In altre parole, il compito non è, come alcuni pensano, impossibile, ma semplicemente difficile. Attraverso le trasformazioni che Pinker documenta, ci sembra di aver subito ciò che il romanziere Michel Houellebecq chiama una mutazione metafisica nelle nostre relazioni con l’altro: il precipitoso declino della violenza che si è verificato, contro tutte le previsioni, in meno di un secolo. Ora dobbiamo fare lo stesso per il nostro rapporto con il mondo vivente. Sì, c’è ancora un lungo cammino da fare. Ci sentiamo meglio a persuadere noi stessi sul nostro cambiamento rispetto al vero cambiamento.
L’accordo sul clima a Parigi della scorsa settimana è stato ampiamente accolto come una svolta. Niente del genere. Privato dei traguardi, scadenze e strumenti vincolanti, si tratta di un programma molto efficace per salvare la coscienza collettiva dei delegati, e niente di più. Come il sito climateparis.org spiega, anche se gli impegni di ogni nazione portati sul tavolo dei colloqui venissero onorati (e già governi come quello del Regno Unito stanno infrangendo i loro), entro il 2030 il mondo produrrà più gas serra di quanto non faccia oggi. A quel punto avremo 14 anni per ridurre le emissioni globali a zero, per avere una buona possibilità di prevenire più di due gradi il riscaldamento globale. Se l’obiettivo della convenzione di Parigi “aspira ambiziosamente” a raggiungere non più di 1.5 gradi, altre stime indicano, che le emissioni di carbonio devono ridursi sensibilmente poco dopo il 2020. Il festival dell’auto-celebrazione con cui si sono conclusi i colloqui è stato una missione compiuta per il momento, ma le congratulazioni sono premature.
Questi fallimenti riflettono una generale convinzione che un’azione più efficace è impossibile. E’ troppo difficile, troppo costoso evitare il lento collasso della biosfera; più facile convivere con esso – o morire con esso. Ma mentre il supporto globale per le energie rinnovabili – 121 milioni di dollari all’anno – è ampiamente condannato come uno scandaloso prosciugamento di denaro pubblico, i 452 milioni di dollari con cui le nazioni del G20 supportano i combustibili fossili è, a quanto pare, notevolmente più conveniente. E’ fuori discussione per mantenere i combustibili fossili nel terreno, ma non, secondo alcuni commentatori, spostare le città in risposta al cambiamento climatico o, come proposto scelleratamente da un giornalista, lasciare che i tropici vengano ridotti a terreni incolti con pochi abitanti.
Il tossico flusso della disinformazione sul cambiamento climatico pompato dalle compagnie come Exxon si mescola ad una corrente profonda di anti-intellettualismo. Ma il nostro destino non è essere spazzati via da queste sciocchezze, non più di quanto lo sia resistergli. Questa è una scelta che prendiamo sia individualmente che insieme. Abbiamo una notevole capacità di fare e disfare norme sociali, come dimostra il grande rifiuto della violenza a partire dalla seconda guerra mondiale.
Ci sono molti esempi, sia tra le popolazioni indigene che nelle economie industriali, di contratti collettivi per non sfruttare al massimo l’utilizzo delle risorse. Tale restrizione è una tendenza umana al pari dell’avidità e della dissolutezza. Se riusciamo a smettere di ucciderci a vicenda così rapidamente, possiamo fermare con la stessa facilità e altrettanto rapidamente l’uccisione degli altri esseri che popolano il nostro pianeta. La pace e la prosperità umana non dipendono dalla violenza perpetrata verso l’ambiente. In effetti, si potrebbe ben sostenere che esse dipendono dalla sua cessazione.
George Monbiot
Fonte: www.monbiot.com
Link: http://www.monbiot.com/2015/12/15/life-and-death/
16.12.2015
Traduzione per www.comedonchiciotte.org a cura di CINZIA PALMACCI