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La Redazione

 

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VIAGGIO TRA I PASCIA' DI STATO

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A cura di Davide
Il 13 Agosto 2005
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DI RITA PENNAROLA

E bravi. Mentre in Europa il ceto medio scivola pericolosamente ogni giorno verso la soglia di nuove povertà (circa un quinto della popolazione ne è già ampiamente al di sotto), sul versante opposto in Italia cresce il Paese dei nababbi di Stato: l’esercito di politici, burocrati e magistrati che, pur godendo già di grossi privilegi, periodicamente si attribuiscono all’unanimità incrementi di stipendio, indennità, benefit, prebende di ogni genere. Provvedimenti sanciti nell’ombra, al sicuro delle segrete stanze dei Palazzi, dove a disturbare c’è solo – quando c’è – qualche voce scomoda, generalmente clamans in deserto e subito zittita, o più spesso dispersa dentro il rumore assordante dell’informazione quotidiana di massa. Per loro, i pascià degli anni duemila a spese della collettività, non c’è ragionamento che tenga su stabilità dell’euro o ritorno alla lira. Poco o nulla da commentare sulla “sindrome della quarta settimana” che colpisce ormai due famiglie su tre. E al diavolo pure le diatribe su chi doveva vigilare – e non lo ha fatto – sugli abusi connessi all’entrata in vigore dell’euro. Poco importa. Basta che le banconote continuino ad arrivare puntuali, ogni trenta giorni, ad ingrossare i già lauti conti correnti. Alle vette di questa particolare classifica – incuranti della trasformazione in atto nel Paese, ripiombato alle condizioni economiche del primo dopoguerra – ci sono due categorie che, non a caso, da tempo hanno reciprocamente blindato le loro massime retribuzioni: parliamo di magistrati e di “rappresentanti del popolo”. Una norma del 1965, la numero 1261, prevede infatti l’aggancio automatico fra le retribuzioni dei parlamentari in carica e quelle dei giudici di Cassazione ai più alti livelli. Tanto per non scontentare nessuno. Partiamo allora proprio dagli abitanti del Palazzaccio per sollevare una buona volta il velo sull’esercito dei nababbi che avanza nell’Italia dei nuovi poveri.


I SIGNORI DELLA CORTE


Le denunce sugli sprechi che caratterizzavano l’amministrazione della giustizia a fine anni novanta, qualche effetto lo hanno sortito.
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Nel 1998 l’ex ministro liberale Raffaele Costa ( a sinistra nella foto) tuonava ad esempio contro il pletorico organico della Cassazione dove, a fronte di una previsione pari a 732 magistrati, ne risultavano in servizio ben 2966. «In particolare – si leggeva nel fortunato volume “L’Italia degli sprechi” – ci sono 1940 magistrati di Corte di Cassazione con funzioni superiori (formula burocratica per dire che hanno le funzioni e il trattamento da presidenti di Cassazione) contro i 112 previsti dalla dotazione organica». Ed «anche i “semplici” magistrati di Cassazione sono più del doppio di quelli previsti (1022 rispetto a 616)». Oggi, secondo i dati ufficiali rilevati dal Csm, sui 9246 magistrati italiani poco meno di 350 risultano in servizio presso le dodici sezioni civili o penali che compongono la suprema Corte. Eppure qualcosa sfugge anche a queste rilevazioni, se all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2005 il procuratore generale di Venezia Ennio Fortuna sosteneva che «non significa nulla essere, come siamo in tanti, anzi in troppi, decisamente in troppi, magistrati di Cassazione dichiarati idonei all’esercizio delle funzioni direttive superiori, a volte senza avere mai visto la sede della Corte Suprema».

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Se il numero delle toghe è stato almeno in parte ”prosciugato”, permangono di tutto rispetto le retribuzioni assegnate. L’ultimo prospetto disponibile, che risale al 2002, snocciola cifre ancora in lire: al primo presidente della Cassazione (attualmente è Nicola Marvulli, componente anche del Csm) vanno ogni mese circa 30 milioni fra stipendio, indennità integrativa speciale e indennità giudiziaria. Poco meno (26 milioni e ottocentomila circa) ai procuratori generali, mentre i “semplici” magistrati di Cassazione percepiscono, ogni trenta giorni, l’equivalente di 13 milioni e 270 mila lire. Quindicimilioni e settecentomila se sono state riconosciute le “funzioni direttive superiori”. Tutte somme naturalmente “ritoccate” verso l’alto negli ultimi anni e rapportate a quelle dei parlamentari. Passiamo alla magistratura ordinaria del tribunali sparsi lungo la penisola: sempre secondo le rilevazioni del 2002, in corte d’appello ai giudici spettavano circa 11 milioni e mezzo al mese, mentre un magistrato di tribunale dopo tre anni di nomina riceveva circa 7 milioni al mese.


Intanto, per non rischiare di dover intaccare, prima o poi, le sudate risorse personali, i prudentissimi giudici italiani si affidano alle polizze assicurative. Benché non risulti praticamente mai applicata, esiste infatti ancora la norma sulla responsabilità civile dei magistrati (la 177 del 1988), senza contare i “pericoli” connessi alla legge Pinto sulle lungaggini della giustizia. Che fanno allora le toghe? Sanciscono un accordo fra ANM e BNL Broker Assicurazioni che, con soli 138 euro e 60 all’anno, li mette al riparo dalla possibilità di dover risarcire di tasca propria l’eventuale vittima di errori giudiziari. Non si sa mai. Intanto s’impenna anche la spesa pubblica per la magistratura onoraria, che si attesta (dati 2005) sui 135 milioni di euro all’anno. Se verranno accolte le richieste di “stabilizzazione” della categoria per almeno 4.500 unità (sulle circa novemila in servizio), si registrerà un aggravio per la collettività pari a 142 milioni di euro.


Dolenti note arrivano, però, proprio sulla produttività del pianeta giustizia italiano. Il drastico resoconto emerge dal recente rapporto del Consiglio d’Europa che, a inizio 2005, ha assegnato le “pagelle” alle toghe dei diversi stati membri. I dati, riferiti al 2002, mostrano che i magistrati italiani percepiscono uno stipendio superiore del 30 per cento a quello dei colleghi francesi. La nostra spesa pubblica risulta fra le più elevate, benché altri Paesi europei mostrino performances decisamente più brillanti in termini di lunghezza dei processi: Svezia, Germania e Olanda ad esempio svolgono le cause civili in meno di metà tempo di quanto necessario in Italia per procedimenti di analogo contenuto. Dov’è il problema? Qualcuno, fra gli stessi magistrati, punta l’indice verso uno fra i principali intralci per la macchina giudiziaria del belpaese: l’endemica piaga dei cosiddetti “fuori ruolo”. A protestare, in prima fila, ci sono i battaglieri esponenti del Movimento per la giustizia: «Procede senza tentennamenti, se si prescinde dalla nostra formale opposizione – dichiarano ad esempio il partenopeo Ernesto Aghina, Paolo Arbasino e Giuseppe Fici – la linea di questo Consiglio Superiore di autorizzare sempre e comunque ogni richiesta di collocamento fuori ruolo, da qualunque autorità o istituzione provenga e a prescindere da pareri contrari dei Consigli Giudiziari o dei capi degli uffici». Secondo le tre toghe “movimentiste”, insomma, l’organo di autogoverno avrebbe svuotato di contenuto l’autorizzazione per il collocamento fuori ruolo prevista della legge 195 del 1958. «E’ evidente – proseguono – che se l’autorizzazione non viene mai negata, svilendola a mero adempimento formale senza alcun vaglio di merito, costituisce soltanto esercizio retorico il richiamo a linee di maggior rigore, mai concretamente percorse, e viene mortificato il ruolo (di rilievo costituzionale) del Csm nel delicato settore della destinazione dei magistrati a funzioni diverse da quelle giudiziarie ordinarie».


Ma quanti sono e dove si trovano attualmente i “fuori ruolo”? A tutto il 2004 il loro numero era di ben 728, mentre altri 1.182 risultavano assegnati ad incarichi extragiudiziari. Cominciamo da Arcibaldo Miller, chiamato fra gli ispettori del ministro Roberto Castelli fin dall’inizio della legislatura, ma nei giorni scorsi “promosso” (non senza uno strascico polemico) a capo della stessa task force in sostituzione di Giovanni Schiavon, “silurato” a fine maggio dopo anni di “onorata carriera”, Fra i meriti di Miller ci sarebbe quello di aver condotto l’indagine ministeriale nata da una denuncia contro i pm milanesi Ilda Boccassini e Gherardo Colombo presentata da Cesare Previti, in quegli stessi giorni condannato in appello per aver corrotto i giudici romani del processo Imi-Sir.


Una cinquantina di toghe prendono intanto il volo come membri della commissione d’esame per uditori giudiziari, mentre la tornata di maggio aveva collocato o riconfermato fuori ruolo altri sette magistrati, facendo salire a 223 il numero totale degli “assenti” rispetto all’organico naturale dei tribunali. Destinatari del provvedimento di conferma erano stati Francesco Saverio Mugolino (passato dall’ufficio legislativo del ministero affari regionali al dipartimento analogo presso la presidenza del Consiglio, in qualità di esperto), il napoletano Ugo Ricciardi (dall’ispettorato di via Arenula allo staff di consulenti presso Palazzo Chigi), Francesco Florit (giudice alle dipendenze dell’Onu nell’ambito dell’amministrazione di supporto alla Repubblica di Timor Est) e Roberto Rustichelli (confermato presso l’Ufficio per la semplificazione delle norme e delle procedure del Dipartimento della Funzione Pubblica). Provenivano invece dalla giurisdizione ed hanno ottenuto il collocamento fuori ruolo il pm milanese Annunziata Ciaravolo (destinata al dipartimento giustizia Onu in Kosovo), Alfredo Maisto (dalla corte d’appello della capitale alla commissione parlamentare d’inchiesta Ilaria Alpi) e Loreto D’Ambrosio, passato dalla procura generale di Cassazione all’ufficio per gli affari giuridici del Quirinale. Ma cosa succede alla fine di questi mandati? «Generalmente – rispondono al Movimento – sussistono percorsi di sola andata, con sporadici ritorni nella giurisdizione». Tuttavia, se sono proprio costretti, a volte tornano. E’ il caso di Vito D’Ambrosio, ex presidente della Regione Marche, rientrato alla procura generale della Cassazione appena qualche mese fa. I Paesi esteri restano comunque la meta prediletta per le toghe in fuga dal solito tran tran.


Fra i più prestigiosi “fuori ruolo” assegnati negli ultimi dodici mesi si segnalano ad esempio il caso di Biagio Roberto Cimini, inviato come esperto della rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea di Bruxelles per 2 anni; o quello del partenopeo Fausto Zuccarelli, che fino al 10 aprile 2006 resterà a Vienna come inter-regional advisor. Resta in Italia, ma con lo sguardo rivolto al resto del mondo, il giudice partenopeo Maria Rosaria Marino, destinata fuori ruolo alla direzione generale per la cooperazione economica e finanziaria della Farnesina.


CAMERE D’ORO


Restiamo fra Strasburgo e Bruxelles, perché passiamo alla seconda categoria dei neo-nababbi d’Italia: questa volta si tratta di fare due conti in tasca al ceto eletto. Partiamo da quello che ci rappresenta in Europa. E scopriamo subito che, come sempre, il nostro Paese detiene primati assoluti in fatto di “generosità”. I nostri parlamentari risultano infatti più ampiamente retribuiti rispetto a quelli degli altri Stati comunitari: ben 9635 euro mensili di stipendio base, contro i 6.308 dei tedeschi, i 5.361 dei francesi e gli appena 2.872 degli spagnoli. «E voi pensate che, a fronte di questa remunerazione, i nostri europarlamentari si ammazzino di lavoro per noi, dedicandosi totalmente ai problemi europei?», carica a testa bassa il giornalista di Radio Gamma Rodolfo Roselli. E poi spiega: «Errore, perché si sono fatti una legge, nel 1979, che dichiara il contrasto solo tra la carica di europarlamentare e quella di presidente e assessore regionale». Quindi gli europarlamentari possono essere contemporaneamente anche sindaci, deputati nazionali, ministri o sottosegretari e, di conseguenza, ritirare a fine mese tutti i relativi emolumenti. Ad esempio, se sono anche deputati del parlamento nazionale, «percepiscono in più altri 22.113 euro mensili, dei quali 10.323 di rimborso spese, arrivando così in totale a 31.748 euro mensili, pari a circa 62 milioni di lire al mese, più altri privilegi».


Capito? Un duro monito era arrivato dalla stessa Unione Europea, che aveva chiesto di estendere almeno a deputati nazionali e ministri il divieto del doppio incarico, anche per le numerose e ripetute assenze degli italiani in occasione di votazioni strategiche. Risultato: mentre nazioni come Germania, Finlandia, Gran Bretagna e Francia hanno recepito fin dal 2002 queste disposizioni, il nostro Paese continua a fare orecchie da mercante. E così anche il “taglio” da 1.500 euro mensili che dovrebbe scattare dal 2006 per adeguare le retribuzioni dei nostri rappresentanti europei a quelli degli altri Stati membri, sembra ancora molto di là da venire. Di questa situazione si era lamentato più volte, ai tempi della presidenza europea, il leader dell’Unione Romano Prodi.
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«Meno male – sferza Roselli – che la sua tristezza è stata mitigata dai 360 milioni di lire all’anno che ha percepito come presidente della Commissione europea, e dai nove milioni e passa mensili che gli restano dopo la fine del mandato». Stiamo parlando, comunque, di retribuzioni al netto delle laute indennità: si va dai 2000 e passa euro mensili per l’abitazione ai 1.400 per spese di rappresentanza, senza contare gli assegni familiari (oltre 600 euro, sempre su base mensile, per il coniuge e circa 210 per ogni figlio) e benefit come auto con autista, due mensilità anticipate, spese di trasloco.


Non è ancora finita. Roselli nel tratteggiare la figura dei “pascià europei” ricorda ad esempio i tanti italiani che svolgono mandati non elettivi presso le istituzioni europee, con stipendi netti annui che superano i 150 mila euro: fra gli altri, «il banchiere Tommaso Paolo Schioppa, consigliere della Banca Centrale Europea, Massimo Ponzellini, uno dei sette vicepresidenti della Banca Europea degli Investimenti, i magistrati Antonio La Pergola, Antonio Saggio e Paolo Mengozzi in servizio presso la Corte Europea di Giustizia, fino ad un certo Aldo Ajello, ex deputato socialista, che è stato nominato inviato speciale nella regione africana dei Grandi Laghi».

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Torniamo in Italia con il tam tam del web, che in queste settimane risuona della mail in cui vengono riportati per filo e per segno gli aumenti di stipendio (più 1.135 euro mensili), indennità e benefit varati alla chetichella nei mesi scorsi dai parlamentari italiani all’unanimità e senza astenuti, in un abbraccio corale che ha saputo superare qualsiasi divergenza ideologica fra maggioranza e opposizione. Proprio mentre agli italiani si chiedono ancora lacrime e sangue per far quadrare i conti. Intitolata non a caso “Mandiamoli a lavorare”, la mail prende spunto da un breve articolo pubblicato qualche settimana fa dall’Espresso. Ecco come si raggiunge l’attuale retribuzione, pari mediamente a 19.150 euro al mese: circa 10 mila sono di “stipendio base”, quattromila e passa riguardano l’appannaggio per il portaborse, duemila il rimborso spese d’affitto, mentre la differenza se ne va per le indennità di carica, che in molti casi fanno lievitare alle stelle il totale. Gratuiti restano, ovviamente, cellulari, cinema e teatri, aerei, bus, metro, autostrade e treni, oltre a cliniche, ristoranti, auto blu ed assicurazioni. «La sola camera dei deputati costa al cittadino Euro 2.215,00 al minuto», è la sconsolata conclusione.


Unica voce “contro”, fra i parlamentari, resta quella di Alfonso Pecoraro Scanio. «Per affrontare la crisi – dichiara il leader dei Verdi – dobbiamo cominciare dalle entrate di deputati e senatori, per le quali propongo un taglio iniziale pari almeno al 10 per cento, non senza, naturalmente, aver prima deciso la destinazione di queste entrate attraverso provvedimenti in favore delle categorie che si avviano verso nuove forme di povertà».


CHI SCOPPIA DI SALUTE


Imbracciato il manuale Cancelli, i presidenti di Regione eletti ad aprile scorso si sono dati un gran da fare e quasi tutti hanno già provveduto ad attribuire assessorati, presidenze di commissione, posti al vertice nelle partecipate. Ma il bello viene ora. Perché proprio in questi mesi il vento delle poltrone soffia forte sulle Aziende sanitarie locali, con la schiera di aspiranti direttori generali (ciascuno con la propria casacca politica) che fa già tremare i portoni del Palazzo. Uno scenario che vede il suo epicentro in Campania dove, agli undici vertici da rinnovare entro fine anno per le Asl dell’intera regione, si aggiunge la patata bollente delle due principali Aziende ospedaliere che richiedono nomine immediate: la Napoli 1 lasciata dall’irpino Angelo Montemarano, neo assessore regionale alla Sanità in quota De Mita, e l’Azienda ospedaliera Monadi, dove il 17 luglio prossimo scade il mandato del diessino Tullio Cusano. Ma gli appetiti convergono anche sulle precise richieste in materia di retribuzioni avanzate nelle scorse settimane dalla Fiaso (Federazione italiana aziende ospedaliere e sanitarie) al ministro della Salute Francesco Storace e a quello della Funzione pubblica Mario Baccini. Chiedono aumenti certi rispetto al compenso minimo previsto attualmente per un direttore generale: 150 mila euro l’anno più il 20 per cento se si raggiungono gli obiettivi indicati dal contratto. «Il contratto – spiega Marco Bonamico, presidente della Fiaso ed ex manager del San Camillo Forlanini – si differenzia moltissimo in ogni regione, la retribuzione dipende dalla complessità delle Asl e dal numero di abitanti». La cifra sembra elevata ma nella realtà è spesso inferiore agli stipendi di tanti medici che lavorano alle dipendenze di una Asl. «Un esempio? Lo stipendio del manager delle Molinette di Torino – dice ancora Bonamico – arriva dopo quello di 33 dipendenti. In molti ospedali romani il direttore generale guadagna meno di decine di primari».


Arriviamo così all’estremo vertice della galassia milionaria in cui navigano i paperoni della spesa pubblica, tracciata prescindendo dalle ulteriori ricchezze accumulate esercitando attività private. Siamo entrati nell’orbita dei camici d’oro, in questi giorni alle prese non con bisturi e pinze, ma con le piattaforme per il contratto 2006-2009. Secondo la pre-intesa raggiunta a metà maggio, da subito medici ospedalieri e dirigenti non medici del servizio sanitario nazionale incassano buste paga più ricche grazie agli arretrati del biennio economico 2002-2003: oltre 5.400 euro per i primari e poco più di 3.200 per medici e dirigenti “semplici”. E poi, a regime, il salto del tabellare per le qualifiche minime, portato dagli attuali 24 mila euro a 38 mila annui di retribuzione base.


In compenso, i camici d’oro dovranno sborsare una cinquantina di euro a testa per le polizze assicurative nuove di zecca. Più astuti ancora dei magistrati, i medici nostrani difendono la tasca con le unghie e coi denti. Per i loro errori pagherà (se paga) l’assicurazione.

Rita Pennarola
Fonte:www.lavocedellacampania.it
Link: http://www.lavocedellacampania.it/detteditoriale.asp?tipo=inchiesta1&id=40
20.08.05

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