Dal conflitto fra guerra e media al conflitto fra guerra e diritto
(Vedi il volume “Se dici guerra umanitaria. Guerra e informazione (e guerra all’informazione)” a cura di Corrado Veneziano e Domenico Gallo)
1. Quando le bombe spengono le voci.
Ksenija Bankovic aveva 28 anni il 23 aprile del 1999 e svolgeva con grande passione il suo lavoro di assistente al montaggio, anche Jelika Munitlak aveva 28 anni ed era molto soddisfatta del suo lavoro di truccatrice.
Oggi, dopo cinque anni e mezzo, Ksenija e Jelika hanno ancora 28 anni.
Infatti sono state spogliate della vita alle ore 2,06 del 23 aprile 1999, assieme ad altre quattordici persone, come loro addette al lavoro presso gli studi della Rts (Radio Televisione Serba) di Belgrado. Un missile «intelligente» della NATO aveva deciso di impadronirsi della loro vita e c’è riuscito, centrando, con precisione millimetrica, l’ala centrale dell’edificio della televisione, dove ferveva il lavoro dell’équipe tecnica.
I vertici dell’Alleanza sono così riusciti a spegnere per sempre il sorriso di Ksenija e di Jelika e a derubarle dei loro sogni di ragazze.Cinque anni fa l’opinione pubblica non era ancora abituata a considerare le equipe televisive ed i giornalisti addetti al loro lavoro come obiettivi militari, come bocche e come occhi da chiudere per sempre, con l’argomento indiscutibile del tritolo. Per questo, all’epoca si levò un fremito di indignazione che raggiunse i vertici politici coinvolti in quella sciagurata impresa.
Il ministro italiano degli Esteri dell’epoca, l’on. Dini, da Washington, dove si era riunito il Summit dell’Alleanza per celebrare i 50 anni della Nato, dichiarò ai giornalisti italiani: «è terribile, disapprovo, non credo che fosse neppure nei piani». Ma fu immediatamente sconfessato dal suo Presidente del Consiglio, l’on. Massimo D’Alema, che dichiarò: «Non si può commentare ogni giorno dov’è caduta una bomba», precisando che la sua reazione alla notizia risultava «attenuata dal fatto che in Jugoslavia non esiste una stampa libera» (Corriere della Sera, 24 aprile 1999).
Così il 23 aprile del 1999, nel processo della modernizzazione che incombe sul nostro tempo, è entrato una preziosa acquisizione giuridica fondata sulla lezione dei fatti: il diritto alla vita dei giornalisti (e di tutti coloro che lavorano nel mondo dei media) è un diritto affievolito, dipende dal grado di libertà di stampa esistente in un determinato contesto. Quando la televisione costituisce uno strumento di propaganda di un regime politico autoritario, o comunque da fastidio a chi conduce un conflitto, allora può essere silenziata con la giusta dose di tritolo.
L’esempio della Rts ha fatto scuola. Così dopo la TV di Belgrado, una giusta dose di bombe è stata rovesciata, nel corso della guerra dell’Afganistan sulla sede della TV Al Jazeera, che trasmetteva da Kabul delle fastidiose immagini, che sporcavano di sangue lo splendore della guerra al terrorismo, mentre a Ramallah, nel marzo del 2002, un carro armato israeliano, chiudeva per sempre l’obiettivo del fotografo italiano, Raffaele Cerciello, che si ostinava a documentare con i suoi click, quegli aspetti della guerra che non devono essere mostrati in pubblico.
Anche in Iraq, come tutti sanno, non esisteva una stampa libera, per questo le forze dell’Alleanza del bene, il giorno prima della capitolazione di Baghdad (avvenuta il 9 aprile 2003) hanno distrutto il terrazzo da cui trasmetteva la Tv Al Jazeera, uccidendone l’inviato, hanno distrutto l’ufficio di Abu Dhabi TV ed hanno bombardato l’Hotel Palestine, uccidendo altri due giornalisti, che non avevano capito bene che il regime di Saddam non garantisce la libertà di stampa.
In séguito altri operatori dell’informazione hanno pagato con la vita l’ostinazione di continuare ad occuparsi della guerra.
Tuttavia Il conflitto fra guerra ed informazione, esploso così drammaticamente il 23 aprile 1999, è un epifenomeno di un altro conflitto, più simbolico, ma altrettanto duro, quello fra guerra e diritto.
2. Guerra e diritto: un conflitto antico
La vita della Comunità internazionale ha sempre oscillato fra i due poli della “forza” e del “diritto.” Se, nelle teorie contrattualistiche moderne, lo Stato rappresenta il “Patto” che consente agli uomini di uscire dallo stato di natura, in cui ogni uomo è “lupo” per l’altro uomo (homo hominis lupus), e di stabilire la pace all’interno della comunità degli associati, nella Comunità internazionale, tutti gli Stati, sono dei lupi artificiali e si trovano nello stato di natura. Vale a dire in uno stato di guerra potenziale in cui le relazioni ed i rapporti internazionali sono, in ultima istanza regolati dalla “forza”.
Per uscire da questa condizione di guerra permanente sono state tentate diverse strade. Con il trattato di Westfalia (1648) che ha posto fine alla guerra dei trent’anni, la pace è stata fondata sull’equilibrio delle forze. Tuttavia questo equilibrio, per le vicende storiche, si è dimostrato particolarmente instabile e la pace fondata su di esso sempre più precaria.
Nel secolo scorso, dopo la tragedia della I e della II guerra mondiale, la comunità internazionale si è preoccupata di trovare un fondamento più solido alla convivenza pacifica fra i popoli e le nazioni ed ha fatto appello al diritto per stabilire la pace. Con la Carta delle Nazioni Unite la pace è stata istituita come bene supremo della Comunità internazionale ed al diritto è stato affidato il compito di tenere a freno la spada. Le “leggi” internazionali non solo hanno abrogato una prerogativa, che fino al 1945 si riteneva indissolubilmente connessa alla sovranità, qual è il diritto di ricorrere alla guerra (ius ad bellum), ma si sono anche sforzate di imbrigliare qualunque forma di violenza, sia nel contesto bellico, rafforzando le regole e le sanzioni del c.d. diritto umanitario (ius in bello), sia in ogni altro contesto di crisi interna ed internazionale, mettendo fuori legge il genocidio, le gravi e massicce violazioni dei diritti umani, la tortura.
Questo conflitto fra la violenza ed il diritto è stato raffigurato da Albert Camus come un conflitto fra le “parole” ed i “proiettili”.
(Et désormais le seul honneur sera de tenir obstinément ce formidabile pari qui decidera enfin si les paroles sojnt plus fortes que les balles)1
In questo conflitto simbolico la violenza cerca di prevalere sulla parola.
Le parole sono importanti. Le parole non sono solo quelle del diritto, sono anche, forse soprattutto, quelle dell’informazione. E’ l’informazione, infatti, quello strumento che “arma” l’opinione pubblica internazionale, l’unica potenza che può arrestare la corsa verso la guerra perpetua intrapresa dalla Superpotenza politico-militare sopravvissuta alla guerra fredda.
E d’altro canto il diritto internazionale, trova fondamento e sanzione, in ultima istanza nell’orientamento dell’opinione pubblica internazionale.
Se il diritto non riesce più ad adempiere la propria funzione di tenere a freno la spada, se i vincoli del diritto, si sono allentati o addirittura sono stati stracciati, non dobbiamo aspettarci che da qualche parte emerga una dose contraria di forza, che ripristini l’equilibrio (della forza appunto) e ci restituisca qualche nuova forma di pace precaria.
In realtà le parole del diritto possono essere debolissime, sottili, quasi silenziose, ma possono anche diventare tenaci, imperiose, irresistibili. Questo dipende dalla forza di altre parole: delle parole dell’informazione. Per questo il conflitto intorno al tema dell’informazione è divenuto di
importanza fondamentale, tanto a spingere i generali (ed i politici) a ricorrere ai proiettili, quando altre forme di controllo o di censura sono impossibili per fermare quelle parole che non devono essere dette o che non devono essere comunicate attraverso i mezzi di diffusione di massa.
Quindi nel conflitto fra guerra e diritto un posto centrale spetta al conflitto intorno al controllo, la repressione o l’intimidazione dei mezzi di informazione.
Ciò rende, tanto più significativa ed importante la lotta per la giustizia, perché sia resa giustizia, alla vittime innocenti della prima strage mediatica del dopo 89.
3. La strage della RTS: i precorsi tormentati della giustizia nazionale ed internazionale.
3.1. Il Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia
ll Tribunale Penale Internazionale è stato creato dal Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione n. 827 del 25 maggio 1993 con il compito di svolgere una azione di contrasto alle gravissime violazioni dei diritti umani e delle leggi internazionali che regolano i conflitti armati commesse dai belligeranti nel corso del conflitto nato dalla dissoluzione della ex Yugoslavia, a partire dal 1991. Lo Statuto del Tribunale prevede la sua competenza a giudicare quattro categorie di crimini internazionali: le gravi violazioni delle previsioni contenute nelle Convenzioni di Ginevra del 1949, la violazione delle leggi e dei costumi di guerra, i crimini contro l’umanità ed il genocidio.
Fin dalla sua creazione è stata molto dibattuta la legittimità di un tale Tribunale, trattandosi di un giudice non precostituito, ma creato ad “hoc”. In realtà se l’istituzione del Tribunale aveva un significato, questo consisteva nell’attivare un rimedio all’onnipotenza dei signori della guerra che agivano nello scenario della dissoluzione della ex Yugoslavia, attività che il Tribunale avrebbe dovuto svolgere in modo assolutamente imparziale.
Con la campagna di bombardamenti aerei avviata dalla NATO contro la Jugoslavia il 24 marzo 1999, una delle cose che sono state distrutte è stata proprio la possibilità che il Tribunale Penale per la ex Jugoslavia potesse continuare a svolgere il proprio lavoro in modo imparziale.
Infatti la NATO ha cambiato ruolo e da ambiguo strumento di garanzia della legalità internazionale in Bosnia, si è trasformata in una delle parti in conflitto, venendo così ad essere – astrattamente – assoggettata al controllo del TPY.
Poiché non si può assoggettare una istituzione più forte ad una più debole, il risultato è stato
che il Tribunale Penale Internazionale è divenuto un organo gregario della NATO, smarrendo così la sua funzione di giustizia.
I crimini commessi dalla NATO nel corso della guerra aerea contro la Jugoslavia, del quale il bombardamento contro la RTS, con la conseguente strage di tecnici e giornalisti, rappresenta l’episodio più grave, naturalmente sono stati denunziati e portati all’esame dell’organo dell’accusa, il Procuratore del TPY, personificato, all’epoca dei fatti dalla canadese Luoise Arbour, a cui è succeduta la svizzera Carla Del Ponte.
Il 2 giugno 2000 la Del Ponte, ha comunicato al consiglio di Sicurezza che il suo Ufficio non intendeva procedere in ordine alle numerose denunzie presentate contro la NATO per i crimini commessi dall’Alleanza durante il conflitto. Ha aggiunto di essere “molto soddisfatta” poiché, dopo aver attentamente esaminato la documentazione relativa ai presunti crimini della NATO, ha scoperto che, sebbene la NATO abbia compiuto alcuni “errori”, non vi è stata alcuna deliberata volontà di colpire obiettivi civili o di ricorrere a metodi illegittimi di guerra. Questo è bastato perché i giornali italiani, all’epoca, titolassero con enfasi che la NATO è stata assolta dal Tribunale Internazionale per non aver commesso crimini. In realtà la NATO non è stata assolta per la semplice ragione che non è mai stata tratta a giudizio, in quanto il suo Procuratore ha deciso – bontà sua – di graziare la NATO, evitandogli il disdoro ed il fastidio di dar corso alle numerose e documentate denunzie che pure il suo Ufficio aveva ricevuto. Per giustificare questa decisione la Del Ponte si è trincerata dietro il giudizio di una pretesa commissione di esperti (composta da militari e da altre persone di oscura competenza), da lei stessa istituita, che le ha “suggerito” di archiviare il dossier sulla NATO. Insomma gli “esperti” hanno consigliato alla donna Del Ponte di dire no.
Naturalmente gli “esperti” si sono occupati anche del bombardamento della RTS, ed hanno osservato che se l’attacco alla RTS fosse stato giustificato soltanto con riferimento all’attività di propaganda svolta dalla Televisione di Milosevic, allora la sua legalità avrebbe potuto essere messa in discussione (if the attack on the RTS was justified by reference to its propaganda purpose alone, its legality might well be questioned..), ma – hanno osservato gli esperti – “appare chiaro che l’attacco contro l’edificio della RTS per l’attività di propaganda (svolta attraverso la televisione), è stato uno scopo secondario, inserito nello scopo principale dell’azione, quello di disabilitare il sistema serbo di comando controllo e comunicazioni.”2
Cosa c’entra un sistema militare di comando controllo e comunicazione con una stazione televisiva civile e con una equipe di tecnici e giornalisti che organizza trasmissioni televisive destinate al pubblico?
Naturalmente non c’entra un bel niente, ma questa è la fantasiosa tesi difensiva che la NATO ha presentato agli esperti della donna Del Ponte, i quali l’hanno presa per oro colato. E del resto non si può mica mettere in discussione quello che dice la NATO.
Peccato che la versione degli esperti, appena resa pubblica, è stata immediatamente sbugiardata.
Nello stesso mese di giugno del 2000, infatti, è stato reso pubblico un dettagliato rapporto di Amnesty International sulle violazioni delle leggi internazionali commesse dalla NATO nel corso della campagna aerea contro la Yugoslavia (NATO/FEDERAL REPUBLIC OF YUGOSLAVIA, COLLATERAL DAMAGE” OR UNLAWFUL KILLINGS? ) che tratta, con maggiore profondità ed attenzione l’episodio del bombardamento della RTS e delle motivazioni che lo hanno determinato.
In proposito Amnesty osserva che:
“ Alla conferenza stampa che si è svolta più tardi quello stesso giorno (il 23 aprile 1999) il colonnello Konrad Freytag ha piazzato questo attacco nel contesto della politica della NATO volta a “distruggere la rete di comando nazionale e a smantellare l’apparato di propaganda.” Egli ha spiegato: “le nostre forze hanno colpito la capacità delle leadership di regime di trasmettere la sua versione dei fatti e di trasmettere le sue istruzioni alle truppe in campo…” Oltre ad ospitare i principali studi della radio e della televisione di Belgrado, la NATO ha detto che “l’edificio ospitava anche una antenna parabolica di comunicazione satellitare polifunzionale.”
Lo stesso giorno dell’attacco Amnesty International ha pubblicamente espresso grave preoccupazione, dicendo che essa non poteva vedere come l’attacco potesse essere giustificato sulla base delle informazioni disponibili che mettevano in evidenza il ruolo di propaganda della stazione [televisiva]. L’Organizzazione ha scritto al Segretario generale della NATO, Xavier Solana, richiedendo “una urgente spiegazione delle ragioni che avevano portato a tale attacco.” In una risposta datata 17 maggio la NATO ha detto che essa ha fatto ogni possibile sforzo per evitare perdite civili e danni collaterali colpendo esclusivamente ed accuratamente l’infrastruttura militare del Presidente Milosevic. Essa ha aggiunto che le strutture della Radio Televisione Serba ”venivano usate come ripetitori radio e trasmettitori di supporto all’attività delle Forze
Armate della Repubblica Federale Jugoslava e delle forze speciali di polizia e per questo esse rappresentavano un legittimo obiettivo militare.”
All’incontro di Bruxelles con Amnesty International, gli Ufficiali della NATO hanno chiarito che questo riferimento ai ripetitori radio e ai trasmettitori riguardava gli altri attacchi alle infrastrutture della Radio Televisione Serba e non questo particolare attacco al Quartiere generale RTS. Essi hanno insistito che l’attacco è stato realizzato perché la Radio Televisione Serba era un organo di propaganda e la propaganda costituisce un supporto diretto all’azione militare. Il fatto che la NATO spiega la sua decisione di attaccare la Radio Televisione Serba soltanto sulla base che si trattava di una fonte di propaganda è stato ripetuto nel riesame che il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha fatto della campagna aerea, che ha giustificato il bombardamento dipingendo gli studi della Radio Televisione Serba come “una struttura usata per scopi di propaganda.” Nessuna menzione è stata fatta circa la presenza di qualche ripetitore.3
In una intervista per un documentario della BBC, il Primo ministro inglese Tony Blair, ha fatto delle riflessioni sul bombardamento della Radio Televisione Serba ed ha fatto capire che una delle ragioni per cui la stazione radio Tv è stata scelta come obiettivo era che i suoi reportage video sui costi umani degli errori della NATO, quali il bombardamento del convoglio dei civili a Djakovica, venivano ritrasmessi all’estero dai media occidentali e ciò stava facendo venir meno il supporto alla guerra all’interno dell’Alleanza. “Questo è uno dei problemi che riguardano la conduzione di un conflitto in un mondo moderno basato sulle telecomunicazioni e sull’informazione… Noi eravamo consapevoli che quelle immagini avrebbero avuto un ritorno e ci sarebbe stata una istintiva simpatia per le vittime della campagna.”4
3.2. La Corte Europea dei Diritti dell’uomo.
I genitori di Ksenija Bankovic ed altri parenti delle vittime della strage alla RTS, il 28 ottbre del 1999 hanno proposto un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogallo, Spagna, Turchia e Regno Unito per violazione degli articoli 2 (diritto alla vita), 10 (diritto alla libertà di espressione) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Questo ricorso si presentava particolarmente problematico, sia perché rivolto contro ben 17 Stati, sia perché proposto da cittadini di un paese non membro della Convenzione ed in assenza di ogni ricorso interno.
Il ricorso veniva assegnato alla “Grande Chambre” che il 12 dicembre del 2001 emetteva una sentenza con la quale si pronunziava sulla questione preliminare delle ricevibilità, dichiarando il ricorso “irricevibile”.
E’ importante sottolineare, tuttavia che, con questa, pur deludente pronunzia, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – a differenza del ridicolo verdetto degli esperti della donna Del Ponte – non ha pronunziato una sola parola che potesse legittimare l’attacco della NATO contro la RTS, né ha contestato la vincolatività delle norme del diritto bellico calpestate dalla NATO.
La Corte, in sostanza, trovandosi innanzi ad un antecedente assolutamente inusitato nella pratica giurisprudenziale, ha operato una sorta di “self restraint” delle sue competenze, stabilendo che gli Stati membri della Convenzione non possono essere giudicati per le azioni extraterritoriali, salvo che non acquisiscano di fatto il controllo del territorio al di fuori della loro giurisdizione. Nella fattispecie la Corte ha ritenuto che gli Stati chiamati in giudizio non avessero il controllo di fatto dell’area di Belgrado dove si è verificata la strage.
In questo modo la Corte non ha concesso giustizia alle vittime della Televisione, ma non l’ha neppure negata, lasciando impregiudicato il problema e lasciando la porta aperta ad una azione di giustizia impostata secondo altri criteri.
3.3. La giurisdizione italiana e lo “scippo” del processo.
Com’è noto l’Italia ha svolto un ruolo determinante negli eventi che hanno portato alla strage della RTS, sia perché i bombardamenti sono partiti, in massima parte da basi italiane, sia perché le forze armate italiane hanno partecipato attivamente alla campagna aerea della NATO, sia perché le autorità politiche hanno posto in essere le precondizioni indispensabili per poter compiere incursioni aeree sulla città di Belgrado. Infatti, nella fase iniziale della campagna aerea, non sono stati eseguiti bombardamenti su Belgrado in quanto il rappresentante italiano in seno al Consiglio Atlantico aveva posto un veto. Tale veto fu rimosso dal Presidente del Consiglio dell’epoca, on. Massimo D’Alema, a seguito di una telefonata del Presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, come ci ha rivelato il Ministro della Difesa dell’epoca, on. Carlo Scognamiglio in un suo libro di memorie.5
Per questo, nel giugno del 2000, alcuni parenti delle vittime si sono rivolti al Tribunale di Roma, chiedendo che un giudice si pronunziasse per dichiarare se l’uccisione dei loro congiunti fosse da considerarsi un atto lecito di guerra ovvero un crimine di guerra, un atto illecito, fonte dell’obbligo di risarcire il danno.
Azione sconsiderata ed inopportuna che rischiava di limitare fortemente la “libertà di bombardamento” del Governo italiano.
Così l’Avvocatura dello Stato, utilizzando in modo abusivo uno strumento della procedura civile (il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione) è riuscita a “scippare” il processo dalle mani del suo giudice naturale ed a trasferirlo in Cassazione, opponendo che le azioni militari compiute all’estero non possono (e, soprattutto, non devono) essere giudicate.
Per quanto possa sembrare incredibile, le Sezioni unite civili della Cassazione, con una ordinanza depositata nel giugno del 2002, hanno accolto il ricorso ed hanno dichiarato il difetto di giurisdizione, cioè hanno ordinato ai giudici italiani di tacere. I giudici non devono giudicare la guerra.
Del resto lo dicevano anche gli antichi romani: inter arma silent leges
Letteralmente le Sezioni Unite hanno statuito che: “la scelta di una modalità di conduzione delle ostilità rientra fra gli atti di Governo. Sono questi atti che costituiscono manifestazione di una funzione politica (..) funzione che per sua natura è tale da non potersi configurare, in rapporto ad essa, una situazione di interesse protetto a che gli atti in cui si manifesta assumano o non assumano un determinato contenuto”
Con questa gloriosa ordinanza le Sezioni Unite, contravvenendo tutta la precedente giurisprudenza della Cassazione in tema di tutela dei diritti dell’uomo, hanno liberalizzato la guerra, sciogliendola dai vincoli noiosi del diritto, fino al punto da sancire l’insindacabilità giudiziaria dei crimini di guerra.
Com’è noto, al di sopra delle Sezioni Unite, c’è solo il Tribunale di Dio. Quindi i sommi giudici credevano di mettere la parola fine all’eterno conflitto fra guerra e diritto, sancendo definitivamente la prevalenza della prima sul secondo, ma hanno commesso uno sbaglio.
Non soltanto perché la loro ordinanza ha dato origine ad un ricorso contro l’Italia, per denegata giustizia, che attualmente pende innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo, ma soprattutto perché hanno dimenticato che il capitolo dei crimini di guerra commessi dalle truppe naziste in Italia non è stato ancora chiuso.
Così è capitato che il sig. Luigi Ferrini, deportato in Germania, nel 1944, quale lavoratore forz
ato, nel 1998 si è ricordato di fare causa alla Germania, citandola innanzi al Tribunale di Arezzo per chiedere il risarcimento del danno conseguente alla deportazione. Il Tribunale e la Corte d’Appello di Firenze hanno respinto la domanda, dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice italiano nei confronti dello Stato straniero. La questione è finita innanzi alle Sezioni Unite Civili della Cassazione che, l’11 marzo 2004, hanno emesso una “storica” sentenza, con la quale hanno completamente ribaltato l’ordinanza del 2002, osservando che: “l’insindacabilità delle modalità di svolgimento delle attività di suprema direzione della cosa pubblica non è di ostacolo all’accertamento di eventuali reati commessi nel corso del loro esercizio e delle conseguenti responsabilità, sia sul piano penale che su quello civile.” Quindi i giudici hanno aggiunto che “le norme di diritto internazionale, “generalmente riconosciute” che tutelano la libertà e la dignità della persona umana come valori fondamentali e configurano come “crimini internazionali” i comportamenti che più gravemente attentano all’integrità di tali valori, sono divenute “automaticamente” parte integrante del nostro ordinamento e sono, pertanto, pienamente idonee ad assumere il ruolo di parametro dell’ingiustizia del danno causato da un “fatto” doloso o colposo altrui.”6
Insomma, il conflitto è ancora aperto, la forza non ha prevalso sul diritto e non deve prevalere.
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1 A. Camus, “La Pléiade”, Gallimard, Parsdi, 1965, pag. 352.
2 Tribunale Penale Internazionale per la ex Yugoslavia. Rapporto finale presentato al Procuratore dal comitato costituito per esaminare la campagna aerea della NATO contro la Repubblica Federale di Yugoslavia, in L’intervento in Kosovo, Aspetti internazionalistici ed interni, a cura di Elena Sciso, Giuffrè editore, Milano, 2001, pag. 426.
3 Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, Kosovo, Operazione Forza Alleata, Rapporto dopo l’Azione, sottoposto al Congresso il 31 gennaio 2000.
4 “Combattimento morale: la NATO alla guerra” documentario trasmesso dalla BBC il 12 marzo 2000
5 Carlo Scognamiglio Pasini, La Guerra del Kosovo, Rizzoli, maggio 2002, pag. 140.
6 Sezioni Unite Civili, Sentenza n. 5044, dep. In data 11 marzo 2004.
4 ottobre 2005
Domenico Gallo
fonte: http://www.altalex.com/index.php?idstr=24&idnot=4353