DI ALESSIO MANNINO
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Interessante il botta e risposta sul Corriere della Sera fra il governatore leghista del Veneto, Luca Zaia, e il costituzionalista Michele Ainis. Nel suo ultimo fondo di domenica, quest’ultimo aveva sottoposto ad una serrata critica il nuovo Statuto della Regione guidata dall’alleanza Lega-Pdl, individuandone contraddizioni e incongruenze. Alcune osservazioni sono condivisibili, come aver definito «pilatesca» la norma capra&cavoli contenuta nell’articolo 5, che da una parte rivendica le radici cristiane e contemporaneamente l’ispirazione alla tradizione laica; o aver sottolineato il ridicolo dell’articolo 27, che autorizza referendum consultivi ma se a richiederlo è il Consiglio regionale.La sostanza dei rilievi di Ainis si concentra, però, sulla bestia nera dei centralisti di questo Paese: la diversità locale. Sempre all’articolo 5, si affaccia la traduzione giuridica dello slogan elettorale di Zaia “Prima i Veneti”, là dove dice che «la Regione opera in special modo a favore di tutti coloro che, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità, possiedono un particolare legame con il territorio, garantendo comunque ai minori i medesimi diritti».
Per l’editorialista del Corriere, questo comma vìola il principio di uguaglianza tutelato dalla Costituzione, «alla faccia dell’unità della Repubblica italiana». Inoltre, Ainis nega che l’affermazione statutaria secondo cui «il Veneto è costituito dal popolo veneto» abbia un qualsiasi fondamento: a suo avviso, non esiste nessun popolo veneto, perché un popolo è costituito dall’insieme dei cittadini di uno stesso Stato, e in Italia di Stato ce n’è uno: quello italiano con Roma capitale. La replica di Zaia, pubblicata sul quotidiano milanese ieri, è deboluccia, anzi sbagliata: il popolo veneto «esiste da molto prima dello Stato unitario e della istituzione Regione. Esso ha, da un migliaio di anni, lingua, culture, storia e dignità propri». I Veneti, ad eccezione delle tribù alleatesi coi Romani contro i Galli nei secoli prima di Cristo, effettivamente non sono mai apparsi sulla scena storica come popolo a sé stante, autocosciente di essere tale e con una propria fisionomia univoca e ben delineata.
La storia millenaria a cui fa riferimento il padano Zaia è la storia della Serenissima Repubblica di Venezia, che mai si concepì come uno Stato “veneto” ma, appunto, solo e soltanto veneziano. Non è una diatriba nominalistica o storiografica, perché la questione sta nell’avere le idee chiare su cosa sia un popolo. Apro il mio manuale di diritto pubblico e vi trovo scritto che è la nazione quell’insieme di elementi etnici, linguistici, culturali e sociali che, arguisco, ha in mente il governatore quando richiama la preesistenza dell’entità popolare su quella statuale. Se si vuole parlare di nazione veneta lo si può fare, ma non a partire da un passato pregresso che non c’è mai stato. Si deve invece affermare più onestamente – e coraggiosamente – che oggi, nell’attuale periodo storico, è presente l’esigenza di veder riconosciuto alla popolazione che parla in veneto (una lingua e non un dialetto, come ricorda il fondatore della Liga, Franco Rocchetta) e si identifica in un certo corpus di tradizioni e valori, lo status di popolo, cioè di nazione con un suo Stato. Il nodo sta tutto qui: l’Italia è uno Stato, il Veneto no. Cercare di infilare nella carta fondamentale di un ente regionale, un po’ di soppiatto, l’idea che il Veneto lo sia, è un nonsenso giuridico, e su questo Ainis ha ragione. Ma ha torto marcio quando preclude la possibilità che l’indipendenza veneta possa essere coltivata e, chissà, un giorno realizzata.
La Storia non si ferma davanti agli articoli di una Costituzione. Se fosse così, la stessa unità italiana non sarebbe avvenuta, e Mazzini non avrebbe potuto combattere per tutta la vita in nome di un popolo italiano che prima del 1861 non c’era mai stato. Personalmente ammiro la Venezia dei Dogi e penso che l’Europa dovrebbe ripensarsi come confederazione di regioni (lasciando agli Stati nazionali una funzione di cornice intermedia, culturale più che politica), ma non mi piace che un partito romanizzato e opportunista come la Lega, pur di salvare la facciata di forza identitaria, giochi al piccolo eversore col sedere in poltrona. Qui, e nei palazzi romani. Questa è la vera critica da muovere ai leghisti, non che tocchino il sacro verbo dell’unità, che si è rivelata un fallimento storico.