VECCHI TRUCCHI

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DI GIANLUCA FREDA

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Vorrei che dedicaste una certa attenzione all’immagine e ai titoli qui sopra, tratti dal sito di “Repubblica” di qualche giorno fa. Si tratta della perfetta esemplificazione di ciò che intendo quando parlo di “magia delle parole”. La magia, che gli antichi ben conoscevano (e che i moderni, ahimé, disconoscono, prestando ancora fede a dogmi illuministi ormai obsoleti), ridotta al suo nucleo essenziale, non è altro che questo: la capacità di manipolare i simboli – parole e immagini – per ottenere trasformazioni nella coscienza. E poiché, come anche la fisica e la biologia si sono ormai accorte da diversi decenni, la realtà materiale è qualcosa che possiede legami assai stretti con la coscienza, ogni trasformazione della coscienza equivale ad una trasformazione parziale o radicale della realtà.

Ad un “mago” esperto o anche solo dilettante (cioè a chi si interessa di lingua, arte, comunicazione e in generale di tutti quei settori che non si curano di fregiarsi di titoli “scientifici”) non ci sarà alcun bisogno di spiegare il funzionamento dell’incantesimo qui sopra riprodotto. Per la verità il termine “incantesimo” è probabilmente fuori luogo e oltremodo magnanimo verso chi ha architettato questo rozzo agglomerato segnico. Più che di un incantesimo, si tratta di un rustico trucchetto prestidigitatorio da fiera di paese, che può far sorridere chi è aduso a resistere ad assalti di sortilegio ben più sofisticati e complessi. Il guaio è che questa malìa non mira a catturare i “maghi” (che sono una ristrettissima minoranza e per i quali occorrerebbero occultismi assai più elaborati), bensì la gran massa del pubblico dei fruitori dell’informazione mainstream: un pubblico indifeso, perché totalmente dealfabetizzato. Un pubblico che, in realtà, non legge i giornali, ma osserva i titoli esposti sulle locandine o si limita a lanciare un’occhiata distratta agli occhielli dei siti (cosiddetti) d’informazione. Un pubblico il cui lessico è composto da un paio di centinaia di parole, e il cui universo mentale è ridotto, per conseguenza, a una ventina di concetti essenziali.

Tra questi concetti spiccano, per frequenza d’uso, quelli richiamati nella sovrastante congerie verbo-iconica: i “neonazisti” (con il loro istintivo opposto che è, nel mondo mentale massarile, il buon cittadino “democratico”); il “killer” (opposto: il cittadino timorato di Dio e amante della non-violenza); i “migranti” (termine con cui si è progressivamente sostituito il più spiccio “stranieri”, poiché evoca immagini positive di comunità itineranti, ardenti di desiderio di conoscenza e calde relazioni umane, temprate dalla dura fatica del cammino; e soprattutto destinate prima o poi a “migrare” altrove, quindi a levarsi dagli zebedei, cosa che nella realtà non sempre accade); l’idea di “femminicidio” (termine di recente conio, che ha integrato il più generico “omicidio”, estendendo così al campo semantico dell’azione penale una basilare demarcazione biologica e connotando l’ammazzamento d’una femmina della specie con tonalità di più ampia riprovevolezza). Ad essi si aggiungono altri concetti-stereotipo, ormai subliminalmente ben incisi nella percezione standardizzata delle masse: la “minaccia” continuata e sacrilega ad una sublime creatura di sesso femminile (anche denominata “stalking”), per di più “laburista”; la “veglia”, uno dei pochissimi riti di protesta suggeriti come accettabili dall’informazione mainstream (si sottintende che sparare a un assalitore, accoltellarlo alla gola o fare lo stesso con i miserandi cascami del giornalismo che scrivono simili fregnacce rappresenti una reazione eccessiva e censurabile); la “Torre Eiffel che s’illumina”, altro rito di protesta legittimato dagli stregoni della parola: il bardamento di monumenti nazionali con iridescenti apparati di luminarie, certifica che si è compiuto qualcosa d’ignominioso contro cui la popolaglia è ufficialmente invitata ad abbaiare; l’”entusiasmo contagioso”, che nell’immaginario teleindotto dell’omarino della strada è contrassegno dell’individuo commendevole (si sa da tempo, ad esempio, che gli insegnanti di valore non sono coloro che possiedono una conoscenza approfondita della loro materia, o che, Dio non voglia, esigono dagli allievi dedizione e impegno nello studio, bensì qualunque soggetto, anche analfabeta, in grado di trasmettere agli studenti un “entusiasmo contagioso”). Straordinario poi il concetto, elaborato da un fantomatico tenutario di blog, di “bel Paese”, di cui si esige la restituzione: cliccando sul link, si scopre che il “bel Paese” rimpianto a lacrime amare dal blogger, non è l’Inghilterra elisabettiana in espansione o quella feroce ma geopoliticamente dominante dell’età coloniale ottocentesca, bensì quello di qualche giorno prima, devastato dall’immigrazione selvaggia e dalla conseguente criminalità, impoverito dalla crisi, svuotato di valori, sguattero delle imposizioni statunitensi. Un paese così orrendamente privato della sua specificità identitaria che il piatto nazionale è ormai il chicken tikka masala, ignobile intingolo speziato importato dall’India e dal Pakistan.

Faccio notare che i concetti sopra evidenziati sono quelli che compongono, e nei casi più gravi esauriscono, il mondo mentale (dunque: il mondo tout court) di molti miei studenti delle superiori. Mi è capitato, nel corso di quest’anno scolastico, di dover spiegare a ragazzi di quasi vent’anni il significato di termini come “teatro” e “ciliegia”; ma termini come “neonazismo”, “femminicidio”, “migranti”, “veglia” e naturalmente “entusiasmo contagioso” sono noti anche agli esseri intellettualmente più provati e definiscono il limitato habitat linguistico – che è poi anche habitat biologico – in cui essi sono in grado di muoversi; le mura del cortile della loro prigione.

Faccio altresì notare la peculiare struttura dell’apparato prestidigitatorio: esso esordisce con un’immagine che mescola insieme segni iconici e simbolici (immagini e parole scritte) che servono a predisporre il ricevente, ponendolo sulla corretta frequenza emotiva. C’è una bambina (evoca l’infanzia, l’innocenza, ciò che è puro e giusto per definizione), della quale non vediamo il volto (ella dunque si identifica col lettore, il quale è chiamato così a incarnare un’archetipica idea di purezza e giustizia), che scrive un messaggio su un enorme cartellone ingombro di altre frasi. Tali frasi sono una fiera del luogo comune, un tripudio di ovvietà da sagra del tortello, una pirotecnìa di fregnacce dinanzi alle quali una mente abituata al pensiero si ritrae con un moto istintivo di orrore. “We carry the banner of love for Jo”, “You can’t end democracy” (speriamo che non sia vero), “Thank you for your courage” arricchito da un cuoricino in stile whatsapp e poi cose, cose, cose. Il messaggio iconico è: “Politissimo vtente, ti chiediamo ancora una volta di spegnere le facoltà intellettive superiori – ammesso che frequentando il sito internet del nostro preg.mo periodico te ne sia rimasta qualcuna – e di azzerare ogni capacità di riflessione razionale. Ascolta invece quanto segue col cuore, con gli intestini e/o su una frequenza di ricezione mentale allocata ai margini della banda hertziana: potrai in tal modo provare un caldo sentimento di pace col mondo, sentire nel tuo pugno la spada fiammeggiante della giustizia puerile, quella che sfolgorava nel tuo intelletto quando da piccolo forgiavi il tuo pensiero sull’Almanacco Topolino e il mondo scintillava di chiarezza vinilica, delineata con robusti tratti di pennarello indelebile”.

Seguono una serie di termini negativi e positivi, disposti in struttura chiastica, sui quali il lettore assuefatto ha già costruito il suo universo mentale e che conosce nei minimi dettagli, come screpolature sui muri di una cella:

killer, neonazisti, minacciata – veglia | famiglia, migranti – Brexit

Il chiasmo è costruito in modo da porre al centro i termini sentiti come “positivi”, in modo da creare a livello grafico una condizione d’assedio: tutto ciò che c’è di buono e di umano nell’Inghilterra è circondato dal Brexit e dalle orride idee di violenza che da esso scaturiscono, rischia di essere spazzato via.

La soluzione al problema, oltre ad essere indicata in grassetto, è stata addirittura sottolineata per essere resa a prova d’idiota: “Stop a campagna referendaria”: solo così l’odio e la barbarie, annunciati dalla prospettiva di un’uscita della Gran Bretagna dall’UE, cesseranno di cingere d’assedio i buoni valori teleindotti dell’omarino lavoratore.

L’ultima parte, scritta in caratteri più piccoli (ad indicare eventualità, incertezza), riporta il lettore all’idillio filmico del suo immaginario hollywoodiano: se il mostruoso Brexit riuscirà ad essere sbaragliato, grazie anche al blocco della campagna referendaria, il lieto fine giungerà diligente e mellifluo, sotto forma di ritorno alla dolcezza del passato (il “bel Paese” che risorge), di giubilo interiore (l’”entusiasmo contagioso”), di apoteosi iridescente (la Tour Eiffel che risplende di lampadine policrome).

Se fino a questo momento l’intero dispositivo semantico è stato progettato per parlare all’inconscio del fruitore e non al suo cervello, l’ultimo link, in un estremo omaggio a quello che resta pur sempre un organo di una certa rilevanza nell’anatomia animale, fornisce una serie di vagellanti argomentazioni (tratte nientemeno che da Limes, la rivista di geopolitica de “L’Espresso” per la casalinga moderna) sui motivi per cui l’accomiatamento britannico dall’UE aprirebbe ai sudditi di sua maestà le cateratte di un dissesto nazionale irreparabile.

Non vi annoierò con tali citrullerie. Voglio solo chiarire quanto segue: il cosiddetto “Brexit” mi appassiona assai poco. Penso che si tratti di un volgarissimo bluff, reso ancor più scontato dal senso di déjà-vu. Il fatto stesso che l’esito di una decisione in apparenza così rilevante per la nazione britannica venga fatto dipendere da un referendum popolare, dimostra che non vi sono intenzioni serie. Se la decisione fosse davvero importante per gli interessi dell’élite dominante, essa verrebbe presa senza troppe concertazioni e senza troppo menare il can per l’aia con queste confettose leziosità “democratiche”. Se devo essere sincero, io non vedo nessuna “élite dominante” rimasta in Albione. Cerco di guardare oltre l’evanescenza di Cameron e ciò che scorgo sono le rive del Potomac. Questa pantomima del Brexit ha tutta l’aria di avere due sole finalità: restituire visibilità ad un partito laburista ormai incorporeo (in questo senso, Cameron si è messo in una posizione win-win, presentandosi come promulgatore del referendum, ma schierandosi allo stesso tempo in posizione “remain”) e contrattare con la Germania condizioni di permanenza nell’Unione più vantaggiose. Già la Grecia aveva tentato questo bluff, con gli esiti che conosciamo. Ora ci riprova la Gran Bretagna, che ha forse le gambe un po’ più solide, ma non così solide da sfidare la vera cerchia di potere che presiede ai destini d’Europa e che manovra la situazione da Washington. Chissà, forse i britannici, a differenza dei greci, riusciranno ad ottenere qualcosa di più che un pugno di mosche. Ma mi pare abbastanza certo che, se pure al referendum vincessero i “leave”, nessuno vorrebbe né potrebbe rispettare tale decisione; la quale, per essere attuata, richiederebbe da parte dei gruppi sub-dirigenti britannici la volontà e la capacità di sfidare il volere statunitense, cioè di tramutarsi per magia da sub-dirigenti in dirigenti. Ipotesi un po’ troppo harrypotteriana, anche per la patria della Rowling. E’ probabile che gli stessi Stati Uniti abbiano permesso a Cameron di portare avanti questa recita, allo scopo di intimorire la Germania, raffreddare le sue velleità autonomistiche e rimetterla in riga. Ora però, tramite gli sguatteri di “Repubblica” e degli altri giornali europei a doppio velo da essi controllati, fanno sapere ai sottoposti che lo spettacolino è finito e che l’esito che ci si attende da questo ennesimo parto della montagna è il consueto topolino spelacchiato.

Dico quanto sopra con lo sconforto scaramantico di chi spererà fino all’ultimo di essere smentito dagli sviluppi, ma punterebbe ogni centesimo che possiede sull’ipotesi che non sarà così.

Ho scritto questo articolo al solo scopo di dare un’idea di quale sia il funzionamento della macchina della propaganda, che modella tanto la coscienza collettiva quanto la nostra realtà, di cui è la coscienza a definire i parametri; nonché per dare un’idea di quali siano le finalità perseguite dai manovratori di tale macchina.

Perdonatemi se, anche in questa occasione non tirerò fuori dal cassetto le bandierine da sventolare per una squadra o per l’altra. Attenderò chetamente, per sottrarle alla naftalina, di avere di fronte una partita vera, in cui i nomi degli atleti delle due squadre in competizione non si trovino scritti, disperantemente, sullo stesso libro paga. E soprattutto, attenderò che i pochi “maghi” in circolazione, capaci di resistere e reagire alla stregoneria della manipolazione linguistica, divengano più consapevoli, più forti e più solidali nei loro obiettivi. Dai referendum dei “babbani”, mi duole dirlo, ma credo sia del tutto illusorio aspettarsi aiuto.

Gianluca Freda

Fonte: www.comedonchisciotte.org

20.06.2016

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