DI TITO PULSINELLI
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La geopolitica culturale del Nobel
Lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa ha inaspettatamente ricevuto il premio Nobel per la letteratura. Il primo a stupirsi è stato proprio l’autore de “La città e i cani” (1963), “La casa verde” (1966), “La zia Julia e lo scribacchino” (1977). Credeva fosse uno scherzo di cattivo gusto. Infatti, è consapevole che le cose migliori che ha scritto, tradotte e conosciute in tutto il mondo, risalgono a 40 anni fa. Mario sa che il meglio –come scrittore- risale agli anni giovanili quando adorava Gabriel Garcia Marquez, a cui dedicó la sua tesi di dottorato.
L’illustre peruviano che vive all’estero da quando furono impietosamente stroncate le sue aspirazioni alla presidenza del suo Paese d’origine, ha tenuto a mettere in ciaro che –se a Stoccolma si sono tardivamente ricordati di lui- è per i suoi libri, non per la sua attività politica. Molte energie ha dedicato per stare alla testa della coalizione di destra del Fredemo. Milita come “penna engagé” per dar lustro al neoliberismo, sulle pagine del giornale spagnolo El País e dei maggiore quotidiani reazionari latinoamericani.
Nessuno può negare il talento narrativo di Vargas Llosa, solo il comitato d’affari di Stoccolma può averlo olimpicamente ignorato per quattro lunghi decenni. E’ lecito domandarsi, pertanto, che cosa abbia indotto oggi questi “saggi” a dare l’alloro al gran narratore peruviano di ieri, scaduto a panphletista neoliberista ortodosso.
Non ha molta credibilità la motivazione ufficiale di “grande innovatore dell’idioma spagnolo” in passato attribuita al poeta messicano Octavio Paz. Lascia perplessi anche che ritengono Vargas Llosa come “cartografo delle strutture di potere”. Visto che Vargas Llosa ha subito una curiosa metamorfosi: dall’adorazione di Fidel Castro ad apologeta della destra oligarchica latinoamericana. Incapace, questa, di emendarsi del golpismo latente e restauratore, venato di nostastalgie neocoloniali.
E’ un rilevante romanziere, ma non ha rinnovato il castigliano.
Dopo il Nobel della Pace attribuito a un uomo di Stato impegnato in due guerre d’invasione simultanee, non c’è da stupirsi più di nulla. Il premio Nobel, quando non soggiace alle logiche degli interessi geopolitici, si inchina a quelle più smaccate della politica spicciola. Ed evidenzia sempre più i tratti somatici di un Comitato per la Propaganda indiretta delle elites europee.
A Stoccolma agiscono per ingigantire la polarizzazione del mondo contemporaneo, come manifesto veicolo della cultura-spettacolo ridotta a puro spettacolo manicheo. Dopo Obama, è meritevole del premio il dissidente cinese Lu Xiaobo, non le argentine Nonne della Plaza de Mayo che –persino i lettori del Corriere della sera- votavano come loro favorite.
Il Nobel interpreta a meraviglia la melliflua ipocrisia occidentale. Trasferiscono in Cina le loro multinazionali per godere del miele dei bassi salari e dello sfruttamento dei cinesi, grazie alla legislazione e alle caratteristiche delle istituzioni di quel gran Paese. Poi si coprono con la foglia di fico di un Nobel o con i rituali sermoni sui “diritti umani”. Non quelli salariali, sindacali, previdenziali o sociali dei cinesi e degli europei.
Tito Pulsinelli
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8.10.2010