UOMO DELLA PROVVIDENZA O CAVALLO DI TROIA ?

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DI CARLO BERTANI

Scorrendo sul monitor le immagini di Barak Obama, viene da chiedersi cosa cerchino gli americani in questo giovane avvocato dell’Illinois. Oppure, cosa intravedano in lui i grandi potentati internazionali, palesi ed occulti: forse, quasi le stesse cose. Il che, non significa che domani gli statunitensi saranno felici d’esser governati da Obama. Sempre che vinca, ovviamente. Anche se non vincerà, vale la pena ugualmente di soffermarsi sulla vicenda di questo astro nascente della politica USA che non è, d’altro canto, una scoperta dell’ultima ora.

Che gli Stati Uniti siano oramai giunti al redde rationem con se stessi, lo indicano un’infinità di fattori: la crisi di una moneta che è stata per mezzo secolo sicuro ancoraggio per qualsiasi operazione finanziaria, oppure la perdita di gran parte dell’apparato industriale a favore dei paesi orientali. Ancora: lo sberleffo d’osservare il nemico di un tempo – ieri l’URSS, oggi la Russia – risollevarsi dalla polvere e camminare diritta, ed il grande fallimento delle operazioni militari in Medio Oriente.
C’è sempre la “spina nel fianco” dell’Iraq, ma nella campagna elettorale pare ci sia stato quasi un gentleman agreement per non trascinarlo nella mischia. Le notizie che giungono dall’Oriente sono abilmente “anestetizzate” dai media: pare quasi che, l’interesse delle varie fazioni irachene, sia più puntato sulla campagna elettorale americana che sul contrasto interno alle forze d’occupazione. D’altro canto, nessuno spreca cartucce se sa che potrebbero essere – appena dopodomani – risparmiate.
L’aria di smobilitazione s’avverte oramai ovunque, dalla Baghdad angosciata dopo anni d’inferno, fino alla Virginia, dove la depressione ha un diverso codice: quello dell’inevitabile sconfitta, di un secondo dopo-Vietnam da gestire.

Curioso che, molti cittadini statunitensi, vorrebbero affidare questa eredità da brivido proprio ad un giovane nero, che fa di nome Barak, Hussein, Obama. Il nome dell’ultimo negoziatore israeliano, quello dell’uomo che impiccarono un anno or sono nella prigione di Baghdad e, per una sola consonante di differenza, il nome del famoso “sceicco del terrore”: che strani scherzi fa la Storia!
Pur appartenente ad una chiesa cristiana, il giovane Obama è cresciuto in Indonesia e, pare, abbia addirittura frequentato una scuola coranica. Ottima preparazione per fare, oggi, il Presidente USA!
Se le vicende internazionali sono più avvertite all’estero, negli USA ha un considerevole peso (com’è ovvio che sia) la politica interna: a ben vedere, s’incontrano parecchie difficoltà nel trovare differenze fra i programmi dei candidati democratici e, con appena qualche “limatina” di unghie, anche con quelli di Mc Cain e di Giuliani. Mormoni e predicatori vari eccettuati, ovviamente.
La battaglia è dunque un confronto d’immagine e nulla più: nessuno crede veramente nelle promesse sulla sanità per tutti e su un nuovo gold rush, oppure che lo strapotere tecnologico ed economico cinese svanisca come una Fata Morgana. Gli americani avvertono, sentono il momento di pericolo e cercano – probabilmente – di fare una cosa che ritengono sensata: non affidarsi più alla vecchia via, cambiare radicalmente, a new way. E’ nello spirito della “frontiera”.
In altre parole, sembrano quasi coscienti che il nuovo Cesare non sarà più un Cesare (l’ultimo che hanno provato, non ha dato gran prova di sé): è tardi anche per le alchimie dei Churchill – o forse no – ma di certo non del Churchill del 1940. Quello del ’45, forse.
Serve pazienza, tanta pazienza per cercare almeno un atterraggio “morbido”, in un paese che ha giocato troppo con il Monopoli, creando bolle finanziarie e speculative che sono passate da un’amministrazione ad un’altra, che ha visto i salari minimi sindacali (6,5 $ l’ora circa) dilagare ovunque, un paese dove il lavoro lo trovi, ma a fare il lavapiatti o la cameriera in un fast-food.
Un decennio infernale ha visto gli statunitensi pagare l’energia dieci volte tanto (per noi europei, circa sei volte tanto), perdere talvolta la possibilità di pagare l’assicurazione sanitaria e, ciliegina sulla torta, essere infinocchiati con la speculazione dei subprime.

Ce n’è abbastanza per avere poca fiducia nel futuro, ed in questi casi non si cercano più le soluzioni “ragionevoli” dei Clinton o dei Giuliani, bensì maghi, taumaturghi e predicatori – oppure, senza sbilanciarsi troppo – giovani avvocati neri dell’Illinois.
Ci sono, inoltre, altri fattori interni che sembrano convogliare consensi su Obama, che a noi europei sembrano meno importanti, ma che negli USA sono – stelle o stalle che siano – di prima grandezza.
Leggevo recentemente un articolo di Carpentier de Gourdon dove – con grande sagacia ed approfondita conoscenza storica – narra l’eterno abbraccio/contrasto fra le due Americhe, quella a Nord del Rio Grande e quella a Sud, che pare interminabile, fino al lontanissimo Capo Horn.
Eppure, entrambe sono Americhe, anche se quando la citiamo al singolare intendiamo – quasi sempre – gli Stati Uniti.
L’ultimo decennio ha visto grandi rivolgimenti a Sud del Rio Grande: una piccola isola dimenticata, nello sprofondare del socialismo reale, ha gettato un pollone che ha attecchito in terraferma e, paradossalmente, in uno dei luoghi più ricchi di petrolio della terra. La pipeline fra Caracas e La Habana è, forse, la più importante arteria per Chavez.
Non basta: le alchimie finanziarie di un ministro economico argentino – un tal Cavallo: ma, la finiamo di non prestar attenzione ai nomi? Voi, pronipoti di Caligola, affidereste le vostre fortune a un cavallo? – che sognava di far volare il dollaro fra la Pampa ed il Chaco, portò l’Argentina al collasso economico. L’unica soluzione che a Buenos Aires ritennero sensata, quando si presentarono gli ispettori del Fondo Monetario Internazionale, fu quella d’accoglierli con un caloroso “vaffa”, affermando che palanche per ottemperare ai debiti non ce n’erano. Se avevano già il biglietto per il ritorno, bene: altrimenti, si facessero venire a prendere.
E poi, Evo Morales, Lula da Silva…la Bachelet…insomma, a parte la Colombia, non c’è più nessuno che ci dia ascolto a Sud del Rio Grande, nessuno che voglia più sentir parlare dei gringo. C’è toccato pure di “ritoccare” un poco le elezioni messicane, altrimenti vinceva quel maledetto castrista di Obrador, e la partita finiva ancor prima di cominciare.

Per osservare il mutamento dell’America Latina, possiamo fare una semplice constatazione: l’11 settembre 1973, quando fu ucciso Allende, l’unico paese che non aveva un governo pienamente supino ai desideri statunitensi (a parte la solita Cuba…) era il Cile. Con la mentalità e gli schemi della guerra fredda, il legittimo governo cileno fu liquidato in un amen, bombardato – ironia della sorte – proprio da quei Mig-21 che l’URSS aveva prontamente fornito alle forze aeree cilene, per renderle indipendenti dalle forniture USA.
Trentacinque anni dopo, solo Bogotá continua ad inviare i suoi ufficiali ad addestrarsi nei campus militari statunitensi, e la presenza militare di Washington è praticamente sparita a Sud del Rio Grande.
Così, al NAFTA (l’accordo di cooperazione economica guidato dagli USA) s’è sostituito il MERCOSUR, gestito direttamente dai paesi centro e sudamericani. Anche qui, notiamo che la scelta del nome fu infelice: quale auspicio trarre da un simile acronimo, con i prezzi odierni del gasolio?

Tutto ciò parrebbe appartenere soltanto alla sfera della politica estera, e invece ha degli importanti risvolti interni, che toccano – in qualche modo – il candidato Barak Hussein Obama.
La tradizionale suddivisione, che è sempre stata proposta per gli USA, è quella dei paesi ad Est o ad Ovest delle Montagne Rocciose, oppure le “cinture” agricole del grano, del mais e del tabacco, seguendo i paralleli. Mai nessuno avrebbe pensato ad una suddivisione diagonale: eppure, se osserviamo la composizione sociologica degli USA, oggi potremmo suddividere il paese fra chi sta a Sud-Ovest di una immaginaria linea che collega la Florida all’Oregon (sopra San Francisco) e chi, invece, abita la parte a Nord-Est.
Man mano che ci si avvicina al vertice di San Diego, oppure ci si allontana, cresce o decresce la percentuale di popolazione d’origine ispanica che vive oramai stabilmente nel Paese. Si tratta di un fenomeno migratorio che ha caratteristiche assai diverse da quelli europei: emigranti che vanno a vivere in città “yankee”, le quali portano nomi come San Diego, Los Angeles, San Antonio, San Francisco, Corpus Christi, Mesa, Las Vegas…
Nell’ultimo secolo, la concomitanza fra la potenza economico/militare degli USA, ed una demografia in espansione, fermarono al Rio Grande la sempre presente pressione demografica che giunge dal Sud, causata dalla maggior prolificità latina.
Oggi, entrambi questi presupposti non esistono più: l’America WASP (White Anglo Saxon Protestant) è sempre meno reale. Certamente la si ritrova nel Massachusetts o nel Rhode Island, ma in California le due etnie sono oramai equipollenti, considerando anche una notevole immigrazione asiatica. E un governatore austriaco.
La politica di Bush si è dimostrata fallimentare anche in questo settore: inutile costruire muri lunghi migliaia di chilometri, che finiscono per “fare acqua” da tutte le parti. I grandi flussi migratori – la Storia insegna – sono inarrestabili ed incomprimibili, e questa è una lezione anche per la vecchia Europa. I maggiori network statunitensi – più pragmatici – hanno semplicemente creato molti canali espressamente dedicati alla popolazione ispanica.
Così, paradosso dei paradossi, città che portano nomi latini tornano ad essere colorate da lingue latine, proprio nei luoghi dove, la superiorità della cavalleria USA e degli obici Dahlgren, s’imposero sulle truppe del generale di Santa Ana.

Come intercettare i consensi della parte ispanica della popolazione statunitense, oramai stabilmente residente nel paese, che lentamente acquisisce la cittadinanza e che, domani, potrà diventare l’ago della bilancia negli equilibri interni?
Non esistono politici di prima grandezza d’origine ispanica, e forse sarebbe azzardato (e controproducente) presentare un simile candidato. D’altro canto, nel melting pot statunitense, non è assolutamente certo che gli italiani votino un italiano, i neri un nero, ecc.
La figura di Obama sembra incarnare una sorta di american dream “cucito” per i neri: senza ricorrere a penose operazioni di lifting – come Michel Jackson – il nerissimo avvocato dell’Illinois si presenta così com’è, con la sua strana vita trascorsa prevalentemente all’estero, ma anche con la sua laurea ad Harvard.
Ecco allora che la figura del giovane nero vincente può, nell’immaginario dei nuovi immigrati, rappresentare una sorta di possibile, futuro punto d’arrivo per tutti: la riedizione dell’american dream, nella versione per i diseredati. Siano essi neri, asiatici od ispanici.
Obama gioca poi, contemporaneamente, su due tavoli e li sa interpretare bene: se, da un lato, ha saputo raccogliere più fondi elettorali di Hillary (che gli consentono una “macchina elettorale” tradizionale), dall’altra è un candidato – se non proprio “tutto Web” – almeno “prevalentemente Web”. E, questo, è un dato che dovrebbe far riflettere anche in Italia.
Inoltre, Barak non appartiene alle grandi dinastie della politica USA – paradossalmente, la Clinton potrebbe pagare il legame troppo stretto con l’establishment, ed essere (ricordiamo che, là, stanno giocandosi quasi tutto sull’immagine) “accomunata” alla dinastia Bush – e questo apre ad Obama una serie di “porte” che altri non possono aprire. Ricordiamo quanto poco giovò, a “mollaccione” Kerry, gloriarsi di quelle iniziali – J.F.K. – quasi fossero un mantra da recitare per sconfiggere Bush. Di là dei brogli e del potere del Presidente in carica, quelle iniziali gli preclusero di contendere a Bush gli stati delle pianure centrali, quelli più tradizionalmente repubblicani.

Sappiamo, però, che il sistema elettorale statunitense è facilmente “permeabile” alle intrusioni esterne: sin dalle primarie, dove contano soprattutto soldi, appoggi ed alleanze, fino allo scontro finale, dove entrano in gioco le infernali macchinette della Diebold.
E’ però altrettanto vero che gli Stati Uniti non possono essere paragonati all’Ucraina o alla Georgia: un risultato elettorale può essere abilmente pilotato, anche ribaltato, ma quando la situazione è abbastanza vicina all’equilibrio. Inoltre, questa volta hanno poche possibilità di rientrare in gioco le grandi “dinastie”: in un certo senso, anche i poteri forti (e, talvolta, occulti) devono fare i conti con quel che passa il convento.

Sul potere dei grandi gruppi economici, sui vari think tank statunitensi, si è parlato molto: dalle abili regie del vecchio Kissinger – il cosiddetto “gruppo” di Havard – fino agli agrarians del Sud.
E’ indubbio che importanti personaggi del sistema abbiano appoggiato i neocon – pensiamo a Samuel Huntington – ma non confondiamo quei gruppi con i neocon stessi.
New American Century – la “madre” dei neocon – era ed è un gruppo di pressione politica, ma non è perfettamente sovrapponibile agli interessi dei Nashville Agrarians o della lobby delle armi.
Possiamo, risalendo la storia dei neocon, giungere fino a Leo Strass ed ai legami con i residui del Terzo Reich (la nota vicenda Thyssen-Bush…), ma, proprio la spregiudicatezza di fare affari con il nemico in guerra, ci dovrebbe far riflettere che – a quella gente – assai poco importa di nomi, gruppi o sigle. In altre parole, se i neocon sono un cavallo perdente, chi se ne frega dei neocon.
Il che, sembrerebbe confermato dalla strana “defenestrazione” di Wolfowitz dalla Banca Mondiale: quando mai, un potente, viene accusato di una misera questione di raccomandazioni per una collaboratrice (o amante che fosse), fino a cadere nella polvere?
Ancora: le pressioni dei militari, al Pentagono, furono così potenti da “disarcionare” Rumsfeld? Oppure, qualcuno assicurò quei militari – che non volevano finire dalla padella nella brace con una guerra all’Iran – che sarebbero stati in ogni modo garantiti?
Una sotterranea guerra è andata in scena, almeno dal 2004 in poi, fra la Casa Bianca ed il Pentagono: non si contano quasi i generali deposti (con succose pensioni e posti sicuri in altrettanto redditizie organizzazioni), il tourbillon di cariche ai vertici delle Forze Armate, i frequenti “cambi della guardia” in Iraq, fino alle dimissioni di Rumsfeld, ufficialmente “dovute” per la sconfitta nelle elezioni di mezzo termine del 2006.
L’ultima “cambiale” concessa ai neocon fu la sostituzione di Powell con Condoleeza Rice agli Esteri: dopo, il silenzio dei grandi gruppi di pressione è diventato assordante.
Non si poteva far nulla, per un’anatra zoppa che non era riuscita a volare nemmeno quando aveva avuto il controllo d’entrambe le ali ed il vento in poppa: non c’era niente da fare perché non ci si improvvisa grandi statisti, nemmeno se hai alle spalle tutto l’apparato di Nixon/Reagan/Bush Primo Il Vecchio.

Oggi, stranamente, emerge un giovane avvocato democratico – che, però, ha studiato ad Harvard – e che raccoglie più fondi elettorali della “patentata” Clinton. Potenza del Web o dei grandi gruppi?
Si può credere che gli USA vogliano voltar pagina – e lo dovranno fare in ogni modo, vista la disperata situazione economica nella quale si trovano – e, probabilmente, anche i grandi gruppi di pressione si sono accorti che è necessaria una sferzata.
Ovviamente, questo non migliora le condizioni economiche e strategiche degli USA nel mondo: la guerra in Iraq è sempre una ferita aperta, l’indebitamento – pubblico e delle famiglie – rimane una voragine alla quale è difficile trovare soluzioni. Il dollaro è in picchiata da anni, e la FED non sa più quali pesci pigliare.
In una prospettiva di graduale ritiro dai grandi scenari internazionali – che sono costati, in questi anni, una montagna di soldi all’amministrazione USA – lo scenario di un “atterraggio morbido” si può, per lo meno, intravedere.

Tutto ciò costerà, e parecchio: dalla redistribuzione dei contratti petroliferi in Iraq – lo strano “riavvicinamento” di Parigi di qualche mese fa? – alla cessazione degli appoggi “arancione” alle repubbliche ex-sovietiche, fino alle velleità degli Scudi Stellari e dei viaggi su Marte.
In altre parole, il ritorno ad una fase isolazionista potrebbe essere necessario per distrarre risorse – finora dedicate ai ruoli internazionali – al fine d’irrobustire gli interventi interni: senza i quali, gran parte degli americani rischieranno, nel prossimo decennio, la povertà vera, quella delle grandi recessioni economiche.

La figura di Barak Hussein Obama potrebbe essere proprio quel necessario compromesso d’immagine, fra la continuità dell’establishment e le esigenze, pragmatiche ed oramai non eludibili, di un ritorno al sostegno della domanda interna. Dopo un trentennio di politiche liberiste, una nuova fase rooseveltiana.
Una re-interpretazione di Roosevelt, non una riedizione, giacché qui si tratta di gestire (con ben minori risorse!) una fase di contrazione della politica estera, e non un’espansione, come avvenne dopo la Grande Depressione: insomma, finita la fase imperiale, si tenterebbe di “scendere” ad un più credibile Commonwealth di marca statunitense. Cosa, peraltro, che non è assolutamente facile da gestire e, per alcuni aspetti, è persino difficile immaginare.
Ma, tant’è, altre vie – per il gigante statunitense – non sembrano essercene: se un vecchio Churchill non è presente nella politica USA, un giovane promettente, abile oratore, preparato ed in grado di coalizzare fra di loro etnie apparentemente lontane e dagli interessi stridenti, può essere l’unica soluzione praticabile.
Forse non è l’optimum al quale aspiravano generazioni di statunitensi, ma è ciò che passa il convento: dovendo proprio trovare, fra i vari candidati, quello che meglio potrebbe ricoprire questo ruolo, egli corrisponde proprio al ritratto di Barak Hussein Obama. Sia per l’immaginario popolare, sia per i poteri forti, abbacchiati e delusi dagli sproloqui di New American Century: fare di necessità virtù è, nei periodi bui, il massimo che ci si può concedere.

Ricordo una frase del primo San Francesco della Cavani. Quando Francesco riuscì finalmente a farsi ricevere dal Pontefice, gli spiattellò tutte le sue rimostranze per la corruzione del clero dell’epoca. Un cardinale, chiese allora al Papa se lo dovesse imprigionare, ma il Pontefice rispose, tranquillo: «No, lasciatelo andare fra la gente: riporterà i poveri a noi.»

Carlo Bertani
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7.01.08

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