DI MASSIMO FINI
ilfattoquotidiano.it
Sono contrario allo sciopero dei giornalisti indetto dalla Federazione nazionale della Stampa contro la legge sulle intercettazioni, anche se, naturalmente, mi adeguerò alle decisioni del nostro sindacato. Sono contrario però per ragioni diverse da quella sostenuta da Marco Travaglio su questo giornale e cioè che volendo lottare per la libertà di stampa noi, con lo sciopero, finiamo per imbavagliarci da soli. Non si tratta di questo. Lo sciopero dei giornalisti è, per sua natura e con tutta evidenza, un’azione corporativa diretta contro le pesanti sanzioni che la legge prevede per cronisti ed editori che divulghino il contenuto di intercettazioni, telefoniche o ambientali, nella fase delle indagini preliminari, che, a mio parere, sono sacrosante, e non contro le limitazioni imposte all’Autorità giudiziaria nelle sue attività di indagine, che sono invece totalmente inaccettabili (uno sciopero dei giornalisti contro questa parte della legge sarebbe di per sé incomprensibile, se i giornalisti ritengono che una norma, che non li riguarda direttamente, è ingiusta non fanno sciopero, danno battaglia attraverso i media che hanno a disposizione, così come non scioperano, poniamo, contro la manovra finanziaria). In questa vicenda si scontrano tre interessi diversi e contrapposti:
L’interesse della collettività a reprimere, attraverso l’azione della Magistratura, i reati e a punire i rei.
L’interesse del singolo cittadino, coinvolto a qualsiasi titolo in un’inchiesta penale, a veder rispettata la propria riservatezza e la propria onorabilità.
L’interesse della collettività a conoscere, anche attraverso i media, fatti penalmente rilevanti. L’interesse alla repressione dei reati è primario in ogni fase di un procedimento penale. La magistratura non ha il diritto ma il dovere di fare, motivandole, tutte le intercettazioni che ritiene opportune, senza limiti di spazio e di tempo (ricordiamo che si tratta della magistratura e non, come fa finta di equivocare Berlusconi quando straparla di “Stato di polizia”, della Digos o dei servizi segreti).
Cosa diversa è la divulgazione di queste intercettazioni. Nella fase delicata e per sua natura incerta delle indagini preliminari possono essere coinvolte persone che risulteranno totalmente estranee ai fatti sotto inchiesta e raccolti elementi ininfluenti ai ?fini del giudizio. In questa fase l’interesse individuale al rispetto della propria onorabilità prevale su quello collettivo alla conoscenza (in ragione di questo interesse, oltre che del buon andamento delle indagini, il Codice Rocco, prima della sgangherata riforma Pisapia del 1989, imponeva il segreto per tutti gli atti istruttori, la sua debolezza stava nel fatto che le pene previste per i giornalisti e gli editori che violavano il segreto erano risibili, ammende pecuniarie di modestissima entità che i quotidiani e i settimanali erano ben lieti di pagare in cambio di uno “scoop” molto più remunerativo sul piano delle vendite e dell’immagine). Al dibattimento la situazione si capovolge. Perché in questa fase non arrivano più persone genericamente indagate, ma imputati sul cui conto la magistratura, rinviandoli a giudizio, ritiene di aver raccolto indizi consistenti, inoltre la Pubblica accusa porterà al processo solo quei fatti che sono realmente utili al giudizio. Qui l’interesse pubblico alla conoscenza prevale su quello privato alla riservatezza. C’è inoltre da sottolineare che la pubblicità del dibattimento è a tutela dello stesso imputato perché è qui che l’opinione pubblica, oltre, naturalmente, ai giudici giudicanti e alle difese, può controllare che nella fase istruttoria non ci siano stati abusi e distorsioni (infatti negli Stati democratici l’istruttoria è segreta e il dibattimento pubblico, in quelli totalitari anche il dibattimento si svolge a porte chiuse).
Questo È l’impianto concettuale, piuttosto chiaro. C’è però un “ma” grande come una casa. In Gran Bretagna, se c’è un indagato detenuto, le istruttorie durano, mediamente, dai 28 ai 32 giorni a seconda della diversa composizione del Giurì e quindi della diversa gravità del reato, per cui è ragionevole pretendere dai media la massima cautela, tanto che anche chi è preso con le mani nel sacco non può essere indicato altrimenti che come “persona informata dei fatti”. In Italia le istruttorie, ci siano detenuti o no, possono durare degli anni. Ed è quindi ovvio che un divieto di pubblicazione protratto per un così lungo tempo si risolve in una inammissibile mordacchia alla libertà di stampa. Ma è su questo chiodo fondamentale, l’abnorme lunghezza del processo all’italiana, che si trascina dietro tutte le altre storture, che i giornali e i giornalisti avrebbero dovuto battere da tempo. Invece non l’hanno fatto. Perché, tutto sommato, la situazione stava comoda anche a loro, la lunghezza delle istruttorie gli permetteva di invocare il “sacro diritto-dovere di informare”, che non è assoluto, come nessun diritto è assoluto ma incontra dei limiti in altri diritti ugualmente meritevoli di tutela come, in questo caso, il diritto alla privacy.
I giornalisti si accorgono improvvisamente delle storture del processo penale italiano solo perché adesso una legge, giusta per una parte, inaccettabile per un’altra, li colpisce direttamente. Ora, noi non siamo così sprovveduti da non sapere che questa legge berlusconiana non ha affatto lo scopo di tutelare l’onorabilità degli innocenti, ma quello di mettere al riparo dalle indagini i mascalzoni e soprattutto i grandi mascalzoni. Ma i giornalisti in sciopero sarebbero più credibili se, a tempo debito, fossero scesi in campo, con convinzione e con forza, per ottenere una ragionevole durata dei processi che tutelerebbe, insieme, tre diritti fondamentali: il diritto della magistratura a svolgere, nell’interesse della collettività, le indagini senza limiti pretestuosi; il diritto del cittadino indagato e spesso anche non indagato, aspesso anche non indagato, a non essere sputtanato anzitempo; il diritto della stampa a dare le notizie di interesse pubblico.
Massimo Fini
Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/
8.07.2010