UNA LETTERA SU MIO PADRE E SUL COMUNISMO ITALIANO

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DI MARINO BADIALE

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Caro Costanzo (Preve),

La sofferenza di mio padre è finita. Se n’è andato. L’ho abbracciato per l’ultima volta e gli ho detto grazie di tutto il bene che mi ha voluto, prima che lo chiudessero per sempre. Ora che il più acuto del dolore è finito, mi resta il dovere di pensare. Di riflettere su di lui e sulla sua generazione. Di capirne il senso. E non per gusto intellettuale, ma perché ci riguarda. Se davvero riteniamo che ridare un senso accettabile alla parola “comunismo” sia il nostro impegno, abbiamo bisogno di ricavare un senso da queste vite, un senso che sia possibile portare con noi, nella strada che faremo. Dovrei spiegarti qualcosa di mio padre, perché tu possa inquadrare quello che ti dirò. Capisci che non è facile per me.

Potrei cominciare dal suo funerale, con l’intero paese presente (almeno le “sue” generazioni, diciamo dai cinquant’anni in su) a manifestargli la stima e l’affetto che si era guadagnato. Ma è un ricordo troppo vicino. Preferisco darti qualche notizia: mio padre era del 1921, veniva da una famiglia di contadini poveri, era entrato in politica subito sopo la guerra, prima (se non mi sbaglio) nell’organizzazione sindacale dei braccianti, poi nel partito. Era legato nel profondo a Cavarzere e alla sua gente. Consigliere comunale ininterrottamente dal 1951 alla morte, sindaco per vent’anni, era un amministratore che ascoltava tutti e cercava di aiutare tutti. Per tutta la vita si è sforzato di essere vicino ai problemi della sua gente: se da giovane si occupava dei braccianti come lui, da vecchio lavorava al sindacato pensionati della CGIL, contento di poter aiutare i suoi coetanei con le pratiche delle pensioni. Non vorrei aggiungere altro sull’onestà, lo spirito di sacrificio: sono tutte cose che conosci. Ti faccio solo un esempio: era stato più volte messo in lista per le politiche, ma una volta gli venne proposto dal partito di essere uno dei candidati “veri”, quelli su cui erano concentrati gli sforzi per le elezioni (doveva essere il 1972, credo). Mio padre si rifiutò, perché si sentiva impreparato alla “grande” politica, impotente a superare i propri limiti culturali di contadino con la quinta elementare, incapace di fare qualcosa di buono a Roma, mentre si sentiva utile a Cavarzere. Te lo vedi oggi un politico di paese che rifiuta di “andare a Roma” perché non si sente preparato e teme di non poter essere utile? Queste erano moralità e serietà dei comunisti di quella generazione.

A farla breve, credo che mio padre fosse un esemplare quasi perfetto del “comunista italiano”, quel tipo di comunista che, come sappiamo, non aveva nulla a che fare con Marx e pochissimo con Lenin, ed era invece espressione di un’idea di partito comunista e di politica comunista che possiamo riassumere nel nome di Togliatti.

E allora Costanzo, siamo al problema iniziale, che forse almeno comprendiamo più chiaramente: che fare di questa vita? Quale significato dobbiamo portare con noi? Diciamolo tutto e chiaramente, il problema: un simile modello di vita e di azione politica è inestricabilmente legato a quella complessa realtà politica, storica, ideologica e perfino antropologica che tu hai denominato “comunismo storico del Novecento”. Si tratta di realtà non separabili. La vita di mio padre porta con sé il marchio di questo comunismo e del suo fallimento. E non si può giocare con le parole, in queste cose, e tentare facili elusioni delle responsabilità: mio padre ha sinceramente creduto a tutto quello che gli hanno detto, ha creduto che l’organizzazione politica ed economica dei paesi dell’Est rappresentasse un modello valido e funzionante, magari non applicabile in Italia ma senz’altro buono per Polonia e Cecoslovacchia, per non parlare naturalmente dell’URSS; ha creduto che i rivoltosi dell’Ungheria del 1956 fossero pericolosi controrivoluzionari o agenti dell’imperialismo, ha creduto che tutto quanto di negativo poteva succedere “là” era dovuto a errori e limiti umani e accidentali, che il sistema al fondo era buono e che i lati positivi compensavano in abbondanza quelli negativi. E soprattutto: la critica e il distacco da quelle idee si sono sempre svolte nelle forme, nei modi e nei tempi dettati dal partito. Per farla breve mio padre ha sempre creduto tranquillamente a quello che leggeva su l’Unità.

Ora, è chiaro che tutto ciò in pratica contava poco: figuriamoci che peso potevano avere, sulle sorti dei rivoltosi nella Budapest del 1956 o dei dissidenti sovietici le opinioni del sindaco di Cavarzere, Polesine. Ma questo non dice nulla sul nostro problema, che è: che senso dare a questo modello umano, a queste vite che diventano sempre più lontane. Una risposta c’è già, facile e pronta: invocare dottamente l’astuzia della ragione o l’eterogenesi dei fini, e fare, entro la storia di queste vite, una separazione netta, un taglio chirurgico: da una parte il buono, le azioni politiche concrete nelle realtà locali, in Italia, sempre piene di moderazione e buon senso, sempre rivolte a difendere gli interessi dei più deboli; dall’altra il cattivo, le ideologie su realtà lontane e sconosciute e su utopie indefinite, ideologie piene di chiusure e di ottusità. E’ una risposta possibile, e non intendo dire che sia completamente sbagliata. E si potrebbe anche articolarla di più, e dire che una vita quasi da “santo laico” come quella di mio padre è possibile proprio in virtù di convinzioni forti, radicate, e magari non troppo aperte alla critica sulle cose di fondo. Al venire meno di queste idee-forza si è più aperti, tolleranti, ma anche molto meno disposti al sacrificio, molto più egoisti. Con una formula, una grande carità, come quella che mio padre ha sempre avuto per gli altri, è possibile solo in presenza di una grande fede e di una grande speranza. Al venir meno di queste viene meno anche quella. E basta vedere cos’è adesso il ceto dirigente medio della sinistra per capirlo. Tutto questo ha della verità, lo ripeto: ma non mi basta. Non so spiegarlo bene […]. Ho una diffidenza “istintiva” per questo tipo di spiegazioni; mi sento di affermare, senza riuscire a spiegarmi meglio, che questa separazione, questo “taglio” fra la vita reale e l’”ideologia” sia portatore di menzogne e tradisca qualcosa di essenziale della storia di queste vite. Su questo, ripeto, per il momento non so dire di più, preferisco proseguire ed entrare finalmente nel vivo di quello che volevo dirrti, delle domande che mi sono posto e delle risposte che ho cercato di dare.

Ripeto qual è la sostanza del problema: si si guarda ai fini profondi che la generazione di mio padre si poneva, sembra che la loro storia si concluda in un fallimento, che la “pratica” debba essere archiviata con la sigla “errore” e che non ci sia nulla da aggiungere: loro volevano il “socialismo”, volevano una trasformazione profonda del modo in cui gli esseri umani regolano le loro relazioni, volevano un mondo in cui al centro ci fossero le persone e i loro diritti, invece che le cose e il profitto. Nulla di questo è stato ottenuto, il mondo di oggi è violento, selvaggio, inumano e assassino come quello che loro volevano cambiare. E se da qualche parte (nel mondo occidentale per esempio) la miseria è stata largamente sconfitta, questo è avvenuto spingendo al massimo sul pedale dello sviluppo capitalistico e non, come loro volevano, iniziando almeno il suo superamento. E le idee e le parole che quegli uomini e quelle donne collegavano al loro desiderio di cambiamento solo oggi svilite, vituperate, infangate. E’ da qui che bisogna partire, da questo fallimento. E allora incominciamo.

“Fallimento”: si fallisce sempre rispetto a qualche fine, a qualche obbiettivo che ci si era proposto. Cosa si proponevano, cosa volevano le persone di quella generazione? Potremmo dire, per sintetizzare in una parola, che volevano il “socialismo”. Uso questa parola, piuttosto che quella di “comunismo”, per motivi che tu comprendi bene: mio padre, fedele anche in questo alla vulgata di partito, usava la terminologia delle “due fasi”, per cui “socialismo” era lo stadio immediatamente successivo nel tempo al capitalismo, mentre “comunismo” era una vaga utopia destinata ad un lontano futuro, della quale nessuno in pratica sapeva dire nulla. Allora diciamo “socialismo” come una realtà che mio padre sentiva ragionevolmente raggiungibile in tempi “umani”. Lottare per il socialismo era per lui qualcosa di piuttosto concreto, come piantare un albero: magari sarebbero stati i figli o i nipoti a goderne i frutti, ma che importa? L’importante è vederlo crescere e sapere che darà frutti. Ma cos’era questo socialismo, per mio padre? E’ questo il punto cruciale. Non so bene cosa avrebbe risposto lui. E qui è chiaro che devo mettere in bocca a mio padre parole non sue; devo cercare di sintetizzare in formule “filosofiche” il senso di ciò che lui pensava. Indubbiamente per lui “socialismo” era il miglioramento delle condizioni di vita materiale dei ceti più deboli, erano le scuole e gli ospedali, era il diritto al lavoro, era la difesa dei diritti dei lavoratori, era anche magari la nazionalizzazione dell’economia. Ma come si può sintetizzare tutto questo? Quale ne è il senso profondo?

Io credo che tutti questi aspetti diversi e magari contraddittori (se presi isolatamente) fossero solo articolazioni di un’idea fondamentale. L’idea di demcraazia. Di una democrazia piena, sostanziale. Di una democrazia intesa letteralmente come potere del popolo o, per usare una delle tue citazioni preferite, come “governo dei più, che sono anche i più poveri” (cito a memoria la tua citazione di Aristotele). Una democrazia intesa come capacità sempre crescente, da parte di tutti, di capire, giudicare, intervenire e pesare nelle scelte. E visto che, non per volontà nostra, il mondo è diviso in classi, sviluppare la capacità di decisione di tutti significa in primo luogo sviluppare la capacità di decisione dei più deboli, di coloro che sono sempre stati esclusi dalla possibilità di governo di sé. Tutto si lega a questa idea profonda, l’idea della libertà di tutti come capacità di autogoverno: lo sviluppo economico, il benessere, gli ospedali sono necessari perché chi è preso dal bisogno materiale non è mai realmente libero; la scuola è indispensabile perché per esercitare la libertà occorre il sapere; i diritti dei lavoratori vanno difesi perché la democrazia non può arrestarsi ai cancelli delle fabbriche. E così via. Democrazia e libertà, intese in questo senso, sono solo un altro modo di dire crescita di cultura e coscienza critica dei ceti inferiori. E’ solo attraverso questa crescita che “il popolo” può contare, può governare. Perché a cosa servono i diritti se non si ha l’organizzazione intellettuale necessaria per esercitarli? E allora, per arrivare finalmente ad una sintesi, credo che il “socialismo” per il quale mio padre ha speso l’intera sua vita adulta fosse da intendersi come l’idea di una continua crescita di conoscenza, cultura e coscienza da parte dei ceti inferiori, assieme alla crescita della loro capacità di governo di sé, sia nelle piccole realtà dei paesi sia nelle grandi scelte dello Stato.

E’ vero quello che sto dicendo? Sono riuscito a cogliere qualcosa di essenziale, o sto piegando queste vicende a interpretazioni arbitrarie? Anche su questo vorrei il tuo parere e il tuo aiuto. Per il momento […] accettiamo che quanto ho detto sia corretto e che io sia riuscito a sintetizzare il senso del socialismo che quegli uomini e quelle donne volevano. E’ chiaro allora che l’azione dei tanti che come mio padre hanno fatto il PCI è stata, per molti versi, adeguata a quei fini. Anche su questo la sua storia privata è esemplare: la vicenda di un bracciante con la quinta elementare che diventa dirigente sindacale e politico, che fa il sindaco per vent’anni guadagnandosi il rispetto e la stima di tutti, è appunto un esempio di quella crescita di coscienza e di cultura che ho faticosamente tentato di dire prima. Di vicende come quella di mio padre ce ne sono infinite, nella storia del PCI. Se le integriamo e ci sforziamo di vederle assieme, cogliamo qualcosa di essenziale nella storia di questo paese: il fatto che l’azione del PCI, di queste centinaia di migliaia di persone come mio padre, è stato un elemento essenziale nella crescita democratica dell’Italia. Siamo (ancora) un paese passabilmente democratico grazie anche al fatto che queste centinaia di migliaia di militanti hanno speso buona parte delle loro vite a organizzare, a discutere, a lottare, a far capire a tutti i propri diritti, a insegnare il senso di responsabilità di fronte alle decisioni liberamente prese. A far entrare “dentro lo Stato” coloro che ne erano sempre stati esclusi. In una parola, a creare la nazione italiana e la democrazia italiana […].

Adesso mi preme continuare, perché devo arrivare al “lato d’ombra”. Questa grande impresa di democrazia e libertà era legata assieme, era cresciuta assieme a qualcosa che la rendeva incompleta, che la bloccava in maniera essenziale. L’intera immagine del mondo che la generazione di mio padre s’era fatta aveva con sé il principio della propria dissoluzione. Mi riferisco a quel rapporto di fiducia cieca, impermeabile alla critica e al dubbio, che questi militanti avevano con i propri dirigenti, e che li rendeva disponibili ad accettare, per esempio a proposito del “socialismo reale”, montagne di falsità; che, soprattutto, rendeva dure, sprezzanti, intolleranti, impietose nei confronti delle vittime, persone che erano in realtà profondamente buone, partecipi della sofferenza altrui e pronte al dialogo. Qui non si tratta solo di “errori” di giudizio storico o politico sul socialismo reale (continuo a parlare di questo come esempio dell’atteggiamento generale di questi militanti): è ovvio che gli individui possono sbagliare, e le organizzazioni politiche pure. Ciò che conta è che su questo non c’era possibilità di autentica discussione e quindi di correzione. Su questo punto la possibilità di crescita di cultura e coscienza era bloccata, e questo minava tutto il resto. Voglio essere chiaro, con la necessaria durezza […]: nessuno è innocente. Mio padre è stato ingannato, ma nelle grandi scelte politiche è sempre possibile sottrarsi all’inganno, magari con molta fatica. Mio padre nel 1956 aveva 35 anni, era un uomo maturo e cosciente. C’era anche per lui la possibilità, magari piccola, di capire quello che stava realmente succedendo in Ungheria. Se mio padre è stato ingannato è perché ha scelto di farsi ingannare. Nessuno è innocente.

Ma ci sono gradi e livelli diversi di responsabilità. Minore è la responsabilità del militante di base, del piccolo dirigente di paese, di persone cioè che avevano pochi strumenti culturali e, soprattutto, quei pochi li avevano trovati nel partito e grazie al partito. Credo che questo sia un punto essenziale […]. Non si tratta solo del fatto banale che il partito si sforzava di dare un minimo di preparazione tecnica ai dirigenti e agli amministratori (scuole di partito, corsi, seminari); si trattava del fatto che era dentro il partito e la sua azione che queste persone avevano la possibilità di discutere, di confrontarsi, di porsi dei problemi e di cercare di risolverli, di confrontare esperienze diverse sforzandosi di arrivare ad una sintesi; di crescere, come ho detto tante volte, mantenendo la propria autonomia, la propria “diversità”. Mettersi fuori dal partito significava per mio padre non solo buttare via anni di lavoro, ma soprattutto perdere quello che aveva costruito di sé fino a quel momento, il senso di tanti sacrifici, quello che aveva conquistato di intelligenza, cultura, capacità di lettura degli eventi del mondo.

C’è qui, è fin troppo facile dirlo, una contraddizione tragica, perché è chiaro che scegliendo il partito e le sue menzogne mio padre ha subìto lo stesso una radicale perdita di intelligenza del reale: perché come poteva continuare a capire la realtà del mondo una volta che avesse scelto di credere seriamente che la rivolta ungherese fosse un complotto di controrivoluzionari fascisti, o magari un tragico incidente che non intaccava la validità del modello? Come potevano continuare a crescere intelligenza e coscienza, sue e della sua generazione? Avendo rinunciato a capire cosa fosse il socialismo reale, mio padre non poteva più capire cosa succedesse nel mondo. Il mondo prendeva ai suoi occhi un aspetto irrazionale; strani fatti, imprevisti e inspiegabili, succedevano ovunque (operai polacchi che scioperano contro un regime socialista, compagni russi e compagni cinesi che si prendono a cannonate…). Una comprensione razionale di questi fatti era per mio padre impossibile: bisognava comprendere la realtà che ci stava dietro, rinunciare alle visioni mitiche dei paesi dell’Est, e quindi cominciare a sgretolare la fiducia nella sostanza di ciò che dicevano i dirigenti del PCI. Trovandosi, anche per propria scelta, nell’impossibilità di arrivare ad una spiegazione razionale […], quegli uomini e quelle donne avevano bisogno di altre rassicuranti menzogne, che puntualmente trovavano su l’Unità. Avendo rinunciato a capire, non potevano che “farsi dire cosa credere” da quegli stessi che si sforzavano di impedire loro la comprensione della realtà. In un circolo vizioso, più ci si racconta menzogne e più se ne ha bisogno, per nascondere gli strappi che la realtà provoca continuamente. Non so se si poteva pretendere da mio padre e dalla sua generazione la capacità di uscirne (di farlo autonomamente, voglio dire, senza aspettare che il vertice del partito dcidesse finalmente che si era “esaurita la spinta propulsiva” o cose del genere). Non lo so e non mi interessa, perché […] non sto dando un giudizio morale: sto solo cercando di capire la realtà delle cose.

Dicevo prima che diverse sono le responsabilità: è chiaro che molto maggiori sono quelle dei dirigenti che sapevano la verità, o almeno ne sapevano abbastanza e avevano gli strumenti culturali per elaborare quello che sapevano. Ma anche qui non mi interessa la morale: non mi importa che quei dirigenti siano stati forse uomini e donne moralmente ingiusti, che abbiano contravvenuto all’imperativo “non mentire”. Mi interessa molto di più che quello che hanno fatto sia stato un errore politico del quale pagheremo ancora a lungo le conseguenze: coloro che hanno diretto il PCI in quegli anni non hanno capito quale fosse la base della loro forza, non hanno capito che quello che contava non erano le divisioni corazzate di Stalin o le acciaierie sovietiche; la forza del PCI erano precisamente ed esclusivamente quei cento-duecentomila militanti come mio padre: erano il loro cervello, il loro entusiasmo, la loro capacità di discutere e convincere; era la loro crescita umana e culturale che il ceto dirigente del PCI avrebbe dovuto avere più cara delle pupille degli occhi. Questo è l’errore clamoroso: inducendo quei militanti a credere a menzogne se ne bloccava la capacità di autonoma crescita intellettuale, cioè si minava alla base esattamente ciò che faceva la forza del PCI. E se mio padre non avrebbe mai abbandonato il partito, il verme della menzogna indeboliva la sua capacità di convincere altri. Perché, per fare solo un esempio, come si può convincere un giovane quando alle cose giuste che si dicono sono inestricabilmente intrecciate montagne di menzogne sulle quali non si accetta di discutere? E’ un caso che quella generazione di militanti abbia avuto difficoltà sempre maggiori a trasmettere la sua esperienza alle generazioni successive?

Mi avvio alla fine di questo scritto e mi accorgo che non ho risposto alle domande che mi sono posto[…].

Solo una prima conclusione mi sento di tirarla: quella idea di democrazia sostanziale, di libertà come “potenza” di tutti e di ciascuno, che ritengo al fondo dell’azione di uomini e donne della generazione di mio padre, è qualcosa a cui non possiamo rinunciare. La storia di quella generazione ci dice che libertà e democrazia in quel senso coincidono con crescita di coscienza, di capacità critica, di intelligenza del reale. Ci dice soprattutto che l’unico modo per promuovere questa crescita è esercitare coscienza, capacità critica e intelligenza, e tutto ciò che la blocca è nostro nemico.

Finisco con dei versi di Brecht, dall’epilogo de L’anima buona del Sezuan.

Egregi spettatori, or non siate scontenti
Forse v’aspettavate che finisse altrimenti.

Una leggenda d’oro avevamo inventata,

ma poi, strada facendo, in male s’è cambiata.

E sgomenti vediamo, a sipario caduto,

che qualunque problema è rimasto insoluto

[…]

Deve cambiare l’uomo? O il mondo va rifatto?

Ci vogliono altri dei? O nessun dio affatto?

Siamo annientati, a terra, e non solo per burla!

Né v’è modo di uscir dalla distretta

Se non che voi pensiate fin da stasera stessa,

come a un’anima buona si possa dare aiuto

perché alla fine il giusto non sia sempre battuto.

Presto, pensate come ciò sia attuabile!

Ciao, ti abbraccio

Marino (Badiale)

Padova, 13 Marzo 1995

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