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La Redazione

 

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UN PENSIERO DIVORANTE

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A cura di Davide
Il 12 Gennaio 2005
42 Views

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Ha ucciso 25 milioni di persone in un secolo, inquina l’atmosfera e favorisce lo sviluppo delle malattie cardiache e respiratorie, insudicia città e campagne, costa caro, fa rumore e ha un cattivo odore… ma allora perché questa infatuazione di massa per l’automobile? Anche se è innegabile, la pressione di certe lobbies industriali – e della mobilità imposta dal mercato del lavoro – non spiega tutto. L’automobile corrisponde perfettamente a un immaginario moderno che vezzeggia la “libertà” degli individui autonomi. Nella sua cabina di pilotaggio meccanica, il signor Tutti quanti è finalmente solo…

DI ALAIN DE BENOIST

Per spiegare l’invasione della macchina sono state spesso chiamate in causa le lobbies automobilistiche, stradali e petrolifere, i lavori pubblici e l’industria edile, le compagnie di assicurazione e certi gruppi finanziari direttamente interessati agli investimenti in questo campo. Queste lobbies esercitano in effetti un’influenza diretta su ministeri e collettività territoriali.
La scomparsa delle tramvie che un tempo erano presenti in molte città viene spesso citata come esempio del loro intervento. Il modo in cui in Francia, nel 1996, il progetto di legge contro l’inquinamento dell’aria è stato progressivamente svuotato di sostanza (con l’abbandono del principio secondo cui chi inquina deve pagare e il mantenimento dei privilegi fiscali di cui nel paese beneficiano i veicoli diesel) costituisce un altro esempio della maniera in cui questi gruppi di pressione possono far valere tutto il loro peso sugli uomini politici.“La lobby automobilistica”, spiegano i Verdi, “è potente e vicina ai poteri pubblici: gli imprenditori di grandi opere hanno fame di grandi contratti; gli autotrasportatori prosperano grazie alle condizioni favorevoli delle quali godono; i costruttori di automobili approfittano della crescente dipendenza dall’automobile; gli eletti chiedono con grande strepito investimenti autostradali… Le imprese di lavori pubblici finanziano i grossi partiti politici […] Insomma, tutto questo piccolo mondo ha interesse a moltiplicare i cantieri”.

L’ammontare complessivo delle somme in gioco ovviamente non è estraneo a questa asprezza delle lobbies. La costruzione di un posto di parcheggio sotterraneo pubblico nel centro di Parigi costa oltre 400.000 franchi, 120 milioni di lire: si capisce perché se ne sono costruiti più di trecentomila in sei anni! Anche le autostrade sono un ottimo affare per coloro che ne costruiscono, anche se tali costruzioni pesano sul risparmio collettivo e aggravano l’indebitamento dello Stato. Un chilometro di autostrada costa in Francia, in pianura e in campagna, una cifra oscillante fra i 6 e i 9 miliardi in lire italiane, ma arriva ai 24 miliardi in montagna e ai 240 negli agglomerati. Il prezzo di costo, pagato con fondi pubblici, degli ultimi tronconi dell’autostrada periferica A86, destinata a creare una cintura attorno a Parigi, è stato di oltre un miliardo di franchi (300 miliardi di lire) al chilometro!

Sbaglierebbe, tuttavia, chi volesse spiegare ogni cosa con l’intervento delle lobbies industriali. A partire dagli anni Settanta, infatti, tutte le condizioni sembravano spingere in direzione di una pausa nella crescita dell’automobile. Il tasso di motorizzazione bastava a trasportare l’insieme della popolazione, che si concentrava inoltre sempre più nelle città. Il prezzo dei carburanti e quello delle autovetture continuavano a salire, la disoccupazione cominciava ad estendersi, la mortalità stradale si aggravava, le macchine circolavano sempre meno e gli imbottigliamenti provocavano già l’asfissia di un buon numero di agglomerati. Ebbene: si è verificato esattamente il fenomeno opposto: la motorizzazione non solo non ha segnato il passo ma è esplosa, non soltanto in Francia ma in tutti i paesi europei. E da allora in poi, “tutti gli studi che cercano di spiegare le scelte in materia di modalità di trasporto, e in particolare l’arbitrato automobile-trasporto in comune, sono costretti a far intervenire, oltre ai fattori “classici” […], un fattore residuale a favore dell’automobile, battezzato assai opportunamente “preferenza automobilistica”.

Tale preferenza, beninteso, viene incoraggiata da scelte politiche e istituzionali deliberate – non vi è dubbio che l’interesse delle lobbies sia quello di impedire ai poteri pubblici di ridefinire la loro politica dei trasporti in un senso che frenerebbe il primato accordato sino ad oggi all’auto –, ma non ci si deve nascondere che essa contiene in sé anche una forte componente volontaria. Le lobbies agiscono quindi soprattutto “come una cassa di risonanza o come un amplificatore” (Gabriel Dupuy), ovverosia non fanno altro che conferire maggiore visibilità e maggior peso a una preferenza automobilistica che da molto tempo non ha più bisogno di loro per pesare sulla società globale.

I costi dimenticati del progresso

“Da tutti i punti di vista”, scrive Paul Yonnet, “l’attaccamento manifestato nei confronti dell’automobile dalle masse occidentali dopo il 1973 reca i segni di una passione apparentemente cieca e che conduce all’abisso, mossa da un’oscura economia del desiderio, che evolve di continuo tenendosi al di fuori delle realtà ed essendo dunque minata da una crescente inadeguatezza al reale”.

Questa “inadeguatezza al reale” appare già chiaramente quando si constata l’ampiezza del numero delle vittime della strada. Dall’inizio del secolo sino alla metà degli anni Novanta, circa venticinque milioni di persone hanno perso la vita in incidenti stradali, cioè tanti quante sono state le vittime militari della Prima (otto milioni e mezzo) e della Seconda (diciassette milioni e mezzo) guerra mondiale messe insieme. Negli Stati Uniti, il numero dei morti sulle strade fra il 1913 e il 1976 è tre volte maggiore di quello degli americani uccisi nell’insieme delle guerre alle quali hanno preso parte.

In Francia, il numero delle vittime è costantemente salito fra il 1960 e il 1972, raggiungendo i 17.000 morti nel 1972 (contro i 7.000 della Gran Bretagna). Nel 1991, la Francia aveva ancora uno dei tassi di mortalità stradale più alti del mondo: 439 uccisi ogni milione di veicoli, contro i 236 dell’Olanda. Da allora in poi, una serie di misure di controllo e di sicurezza più rigorose (limitazioni di velocità, test alcolico, cinture di sicurezza, patente a punti, casco obbligatorio per i motociclisti), unite a taluni miglioramenti infrastrutturali4, hanno comportato una relativa decrescita: circa 9.000 morti all’anno dal 193, ai quali si aggiungono oltre 180.000 feriti. Si tratta comunque di cifre sottostimate, perché il calcolo del numero dei decessi è limitato, in Francia, ai sei giorni che seguono l’incidente, il che fa scomparire dalle statistiche fra il 10 e il 15% del numero dei morti.

Complessivamente, l’auto “ha ucciso, dal 1945 in poi, un numero tre volte maggiore di francesi rispetto a quelli uccisi da Hitler, e ne ha feriti quattro volte di più della guerra del 1914″5. Attualmente continua a uccidere un francese all’ora, “facendo tanti morti e invalidi quanti ne provocano tutte le malattie messe assieme”6. Qualcosa come 9.000 morti all’anno, precisiamolo, significa l’equivalente di una grossa catastrofe aerea alla settimana – o della popolazione di una cittadina. I pedoni rappresentano il 15% delle vittime, i guidatori di due ruote il 19%, i giovani fra i 18 e i 24 anni il 33%. Un guidatore medio ha una “probabilità” su quattro di essere implicato, nel corso della vita, in un incidente, una su venti di rimanervi ucciso o gravemente ferito.

A questi danni si aggiungono quelli causati dall’inquinamento. Ogni anno un’auto espelle in media nell’atmosfera 20 kg di idrocarburi incombusti, 35 kg di ossido di azoto, 400 kg di ossido di carbonio, 4 tonnellate di gas carbonico, nonché piombo, benzene, formaldeide, polveri e fuliggine. Da soli, i trasporti stradali rappresentano in Francia un terzo delle emissioni di gas carbonico, il 35% delle emissioni di composti organici volatili, il 62% degli ossidi di azoto, l’87% degli ossidi di carbonio. In città, le automobili sono responsabili del 94% delle emissioni di piombo, del 75% di quelle di monossido di carbonio, del 60% degli ossidi di azoto, del 74% degli idrocarburi, del 17% del gas carbonico. In media l’autovettura, rispetto all’autobus, emette il 60% in più di diossido di carbonio, una quantità di ossido di azoto tredici volte superiore e una di idrocarburi incombusti cinque volte maggiore.

Il motore diesel, inventato nel 1896 dall’ingegnere tedesco Rudolf Diesel, ha in questo campo una porzione di responsabilità particolarmente pesante. Consuma sì il 25% di meno rispetto al motore a benzina e produce tre volte meno gas carbonico, ma in compenso emette da cinque a sei volte di più ossido di azoto e sprigiona una quantità che può essere venti volte maggiore di particelle carboniche finissime e di fumi neri, dovuti allo zolfo contenuto nel gasolio. In totale, i veicoli diesel emanano ogni anno in Europa oltre 250.000 tonnellate di polveri di carbonio. E la vendita dei veicoli di questo tipo è stimolata dal fatto che essi viaggiano in media il doppio delle vetture alimentate dagli altri carburanti e che il gasolio costa meno della benzina.

Gli innumerevoli effetti perversi

Gli effetti di questo inquinamento atmosferico sulla salute sono ben noti. A contatto con l’aria, l’ossido di azoto si trasforma in diossido di azoto e poi in ozono, prodotto pericoloso per gli occhi e i polmoni. Il monossido di carbonio blocca l’ossigenazione dei tessuti, lo zolfo attacca i polmoni, il piombo causa ipertensione e provoca turbe neurologiche. Le polveri carboniche e certi idrocarburi come il benzene sono fortemente cancerogeni. L’insieme provoca bronchiti, mal di testa, malattie degli occhi e malesseri cardiaci.

Nel 1990 la sezione europea dell’Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato un rapporto nel quale si stabilisce l’esistenza di un rapporto diretto tra l’intensità dell’inquinamento e la frequenza degli attacchi cardiaci. Uno studio pubblicato nel dicembre 1993 nel “New England Journal of Medicine” precisa che gli abitanti delle grandi città inquinate hanno, nell’arco di dieci o quindici anni, un rischio di mortalità dal 17% al 26% superiore a quello in cui incorrono gli abitanti delle altre agglomerazioni. Anche un altro studio, pubblicato nel novembre 1994 dalla rete Epurs (Valutazione dei rischi di inquinamento urbano per la salute), nonché un’inchiesta realizzata nel febbraio 1996 nel quadro del progetto europeo Aepha, hanno messo in evidenza che gli agenti di inquinamento atmosferico dovuti all’automobile costituiscono dei “fattori sovraggiuntivi di rischio”, che aggravano fortemente la morbosità e la mortalità nei malati cronici, soprattutto nei bambini e nelle persone anziane.

Il rapporto su “L’inquinamento di origine atmosferica e la salute pubblica” pubblicato nel giugno 1996 dalla Société française de santé publique indica che “il numero [annuale] dei decessi prematuri attribuibili all’inquinamento automobilistico può essere stimato attorno a 870 per la mortalità respiratoria e cardiovascolare associata alle particelle nelle grandi città, e attorno a 215 per il diossido di zolfo”. Lo stesso documento rivela che “qualcosa come 5.700 ricoveri annuali per affezioni respiratorie [sono] attribuibili alle particelle di origine automobilistica” e che, nelle grandi città, un decesso ogni 20.000 abitanti può essere attribuito all’inquinamento. Ai morti sulle strade è dunque opportuno aggiungere ancora un migliaio di decessi imputabili ogni anno all’inquinamento automobilistico.

Questo inquinamento non prende una piega drammatica soltanto in città come Atene o Città del Messico, che soffrono di una particolare situazione geografica (caldo e localizzazione in una conca per quanto riguarda Atene, aria rarefatta dall’altitudine nel caso di Città del Messico). Nel dicembre 1952 un “picco di inquinamento” ha provocato a Londra la morte di 4.000 persone in quattro giorni. Un altro record di inquinamento, nel dicembre 1991, ha causato di nuovo la morte di 155 londinesi. Nel 1992 i tassi di diossido di azoto registrati in Francia hanno oltrepassato i limiti stabiliti dalle norme europee in dieci città. Tali limiti sono stati superati anche nel 1994 a Parigi, sedici volte.

Alcuni indiscutibili passi avanti sono stati comunque compiuti da qualche anno a questa parte nella lotta contro l’inquinamento, soprattutto per quanto concerne il riscaldamento urbano e l’industria. La marmitta catalitica ha per altri versi fortemente contribuito a ridurre le emissioni di piombo, e le autovetture fabbricate oggi sono meno inquinanti di quelle di ieri; ma si tratta di miglioramenti che vengono regolarmente annullati dall’aumento della motorizzazione e del volume della circolazione. È infatti evidente che, se si dimezza l’inquinamento prodotto dai veicoli ma nel contempo il loro numero raddoppia, la situazione rimane identica. Ciò è spiegato dal fatto che, sebbene le emissioni di gas carbonico siano diminuiti del 25% fra il 1980 e il 1993, i residui di diossido di carbone e di zolfo sono aumentati del 30% e i residui di polveri del 90%. Nell’insieme, in Europa il volume di scorie immesse dai mezzi di trasporto nell’atmosfera è passato, durante quel periodo, da 26 a 36 milioni di tonnellate. I provvedimenti adottati non sono dunque sufficienti a compensare l’accrescimento del parco.

L’inquinamento si intensificherà ulteriormente a causa della climatizzazione, che nel 1996 già figurava fra gli accessori del 16% delle nuove vetture e nel 2000 dovrebbe equipaggiarne il 60%. La climatizzazione aumenta infatti del 15% il consumo di benzina. Nel 2000, secondo l’Agenzia per l’ambiente e per il controllo dell’energia, essa dovrebbe provocare in Francia l’emissione di 4,86 milioni di tonnellate supplementari di gas carbonico.

A questo quadro poco confortante si aggiungono infine i danni sonori. Circa cinquantacinque milioni di cittadini europei sono esposti quotidianamente a livelli di rumore superiori alla norma-limite di 90 decibel fissata dall’Organizzazione mondiale della sanità. Sei milioni di francesi vivono in immobili esposti a un rumore di facciata superiore ai 65 decibel e il 35% dei parigini dichiarano di soffrire per il rumore della circolazione, in particolare la notte. La cifra d’affari dei laboratori Quiès, che fabbricano annualmente oltre quaranta milioni di paia di tappi antirumore per le orecchie, aumenta attualmente del 10% all’anno.

La crescita della circolazione automobilistica, riflesso fedele dello sviluppo dell’habitat periurbano, si traduce inoltre in innumerevoli ingorghi. Ancora una volta l’esempio francese aiuta a prendere cognizione dell’ampiezza del fenomeno, ormai diffuso ovunque. Mentre il tasso di motorizzazione dei nuclei familiari nella Parigi intra muros è solo del 52%, in periferia sale al 75% e supera l’85% nella regione parigina, dove il numero delle autovetture è passato da 500.000 nel 1950 a 2.300.000 nel 1970 e a 3.400.000 nel 1980. Attualmente, tre milioni e duecentomila veicoli entrano ed escono ogni giorno da Parigi. I quartieri del centro sono saturati praticamente in permanenza, dal momento che i 1280 ettari di carreggiate esistenti non possono accogliere più di 120.000 automobili nello stesso tempo.

Siamo evidentemente di fronte, in questo caso, ad un eccellente esempio della non-economicità dell’autovettura: più grande è la mobilità e più si accresce la capienza, più il riempimento è denso e la mobilità si indebolisce! “La vettura individuale, concepita per la mobilità, si è trasformata nel principale ostacolo ad essa!”, osserva Jean-Paul Besset. “Fenomeno che fa nascere un concetto tanto nuovo quanto sorprendente: quello di “mobilità paralizzante”. Perché stiamo effettivamente assistendo ad un calo generale della mobilità in città. La velocità, finalità stessa dell’auto, cala di continuo. Siamo arrivati a una media di 15 chilometri all’ora nelle agglomerazioni francesi”.

È anche una perfetta illustrazione dei limiti del modo di ragionare liberale. In un imbottigliamento, la “libertà” di ciascun automobilista ha infatti come ostacolo principale la volontà di milioni di altri automobilisti di far uso di quella medesima libertà. La macchina è dunque fonte di libertà individuale solo a condizione… che gli altri automobilisti si astengano dal guidare. Vediamo, grazie a questo esempio, che le “libere” scelte individuali non portano necessariamente all’optimum collettivo: negli ingorghi urbani, la “mano invisibile” è in panne!

L’auto fa guadagnare tempo?

Si pone allora il problema di capire se, globalmente, l’auto fa veramente guadagnare tempo. Si sa che, per gli economisti, il “costo generalizzato” di un tragitto si calcola sommando le spese monetarie legate al mezzo di trasporto utilizzato per tale tragitto alla durata del tragitto, convertita in unità monetarie attraverso un “valore di tempo” equivalente al reddito orario del viaggiatore. Prendendo questo metodo come modello, Jean-Pierre Dupuy e Jean Robert hanno proposto di dedicarsi al calcolo inverso, cioè di convertire in tempo tutte le spese connesse all’automobile (ammortizzamento delle spese di acquisto del veicolo e di acquisizione della patente, dell’assicurazione, del bollo di circolazione, del garage, spese di utilizzo, mantenimento e riparazione, costi di stazionamento e pedaggio, multe, ecc.), sempre sulla basa di un tasso di conversione basato sul reddito orario. Questo metodo permette di calcolare il tempo passato per ottenere le risorse necessarie all’uso di un’automobile, tempo che si aggiunge a quello che le si dedica direttamente, in particolare il tempo di spostamento. Si ottiene in tal modo un “tempo generalizzato”, che va messo poi in relazione con il chilometraggio annuale per poterne trarre una “velocità media”.

I risultati ottenuti sono sconvolgenti. Per un alto dirigente o funzionario, proprietario di un’autovettura di notevole potenza, la velocità media ottenuta è di 12 km/h, contro i 14 km/h di una bicicletta! Il tempo sociale investito nell’ottenimento delle risorse necessarie agli spostamento, poi, rappresenta una durata di tre-quattro ore al giorno. “Lungi dall’essere uno strumento per guadagnare tempo, l’automobile appare, in questa luce, come un mostro cronofago”9. “Il dirigente medio di una città media che circola per 16.000 chilometri all’anno”, scrive in un altro contesto Jean-Pierre Dupuy, “dedica alla sua vettura in media più di 4 ore al giorno; sia che si proietti qua e là assieme a lei, sia che si occupi della sua manutenzione, sia che lavori per pagarla. Ogni ora di questo tempo gli consente quindi di percorrere dieci chilometri. Se facesse tutti i suoi spostamenti, intendo proprio gli stessi, con la bicicletta, ci metterebbe meno tempo”.

Ovviamente, un calcolo di questo genere è del tutto teorico, giacché il tempo di trasferimento, il tempo di lavoro e il tempo libero non sono tempi omogenei, il che significa che non sono neanche intercambiabili. Nondimeno è rivelatore, poiché mostra che un guadagno di tempo reale, ma puntuale, può perfettamente inserirsi all’interno di uno schema generale di perdita di tempo complessiva.

Se ci si sforza di valutare il costo dei vari effetti negativi dell’automobile, i risultati sono altrettanto stupefacenti. Da soli, gli ottanta milioni di ore che vanno perdute ogni anno negli ingorghi costano l’equivalente di 2.250 miliardi di lire alla collettività in Francia. Gli incidenti rappresentano un peso di 30.000 miliardi, ovverosia circa 600.000 lire ad abitante. A ciò si aggiungono 11.400 miliardi per l’inquinamento, 9.000 per il rumore e 12.000 di energia consumata. Ovvero un totale di 66.650 miliardi di lire (215,5 miliardi di franchi) – quasi l’equivalente dell’imposta sul reddito, che a sua volta rappresenta un quinto del bilancio nazionale. Le tasse e i proventi fiscali legate all’automobile procurano attualmente allo Stato francese 259 miliardi di franchi, fra cui 181 per i soli carburanti. Se le spese e gli incassi sono pressoché equivalenti, dove sta il guadagno?

Anche i danni si pagano

Basandosi su cifre simili, Gérard Petitjan scrive: “Fra gli incidenti materiali e corporali, le malattie causate dall’inquinamento, il tempo perso dai non-automobilisti (i passeggeri degli autobus, ad esempio) a causa della congestione del traffico – una via bloccata per dieci minuti da una macchina che sta effettuando delle consegne crea un tappo di 2.800 autovetture! –, la macchina costa ogni anno 250 miliardi [di franchi] alla collettività. E ciò senza tener conto dei danni all’ecosistema, delle degradazioni del paesaggio, dello stress prodotto, ecc. In compenso, essa genera fra i 200 e i 220 miliardi di proventi. È un così buon affare?”11. È lecito chiederselo.

L’automobilista, però, non è consapevole di queste cifre. Da un lato, sottovaluta ampiamente l’ammontare effettivo delle spese che gli sono causate dal possesso dell’auto, guardandosi bene – in particolare – dall’incorporarvi il valore monetario del tempo che le dedica. Dall’altro, trascura quello che gli costano, nella veste di contribuente, le notevoli spese sostenute dalla collettività per effetto dell’automobile, si tratti dei costi umani (morti e feriti, spese mediche, impatto sulle condizioni di lavoro, perdita di produttività) o dei costi esterni riguardanti l’ambiente (vari tipi di inquinamento, distruzioni di paesaggi, desertificazione rurale)12. Il fatto di non prendere in considerazione tali costi induce un’evidente distorsione nella considerazione della concorrenza fra i diversi mezzi di trasporto, distorsione che gioca automaticamente a favore della vettura individuale e del trasporto su gomma delle merci.

“Il francese medio che fila a centocinquanta sull’autostrada”, ha scritto Jean-Pierre Dupuy, “non si rende conto di quanto gli sono costati, in ore di ufficio o di officina, l’acquisto e la manutenzione di quel suo spazio privato che viene chiamato automobile”13. “L’automobilista”, aggiunge Gabriel Dupuy, “è abituato a ragionare sulla base di un costo marginale, e spesso addirittura prende in considerazione soltanto il costo del carburante. In questo modo si finisce in un paradosso. Infatti, in termini economici, senza nemmeno parlare degli effetti esterni, costa assai meno caro al cittadino andare a lavorare con un mezzo di trasporto comune che in macchina. Tuttabia, l’opinione corrente considera la differenza di costo trascurabile e basa la propria scelta, a favore dell’automobile, sul servizio offerto”.

Il risultato è che la parte del bilancio familiare destinata alla macchina non ha fatto altro che crescere di anno in anno. Nel 1960, i francesi dedicavano in media il 5,4% del loro bilancio all’auto. Questa cifra è passata all’11,5% nel 1986, poi al 16,6% nel 1992 (contro il 14,5% degli Stati Uniti). Le spese legate all’automobile rappresentano attualmente un ammontare globale di 509 miliardi di franchi (circa 152.500 miliardi di lire), cioè quasi quanto le spese alimentari (19,2% del bilancio delle famiglie). In media, ogni europeo lavora un’ora su sette – più di una giornata di lavoro a settimana – per finanziare la propria autovettura.

E queste cifre prendono in considerazione solo i costi sostenuti direttamente dagli automobilisti. Nel 1993, un rapporto redatto su richiesta della Commissione europea, sotto la direzione dell’ingegnere italiano Fabio Maria Ciuffini, ha fatto vedere che quando si tiene conto di tutti i parametri e si “monetarizza” il tempo dedicato agli spostamenti, il costo reale di un veicolo rappresenta fra il 25% e il 30% del reddito totale del suo conducente!

L’irrazionalità finanziaria dell’auto non è comunque altro che il riflesso del comportamento, anch’esso irrazionale, degli acquirenti e degli utilizzatori. L’automobile, infatti, non è mai stata solo un mezzo di trasporto. La passione che suscita poggia su una serie di miti moderni (accessibilità, mobilità, autonomia, ubiquità, accelerazione), e l’attaccamento di cui è oggetto passa attraverso una moltitudine di canali affettivi, simbolici e psicologici. Certo, alcuni osservatori ritengono che essa abbia oggi perso una parte del suo prestigio, perché è meno di un tempo un segno di posizione sociale; tuttavia si tratta di un calo di prestigio piuttosto relativo. Se la macchina fosse davvero desacralizzata, non si vedrebbero tante famiglie di modesta condizione economica accettare di indebitarsi fortemente per acquistare i modelli pregiati della gamma che le affascinano. Oggi come ieri le motivazioni di acquisto, così come la scelta dei modelli, rimangono in realtà in larga misura irrazionali.

Resta quindi da identificare la motivazione fondamentale di questa insradicabile preferenza per l’autovettura. È quello che ha fatto il sociologo Paul Yonnet in un articolo piuttosto discusso, nel quale si proponeva di analizzare lo spostamento in automobile “come accesso privato alla mobilità nello spazio pubblico”, che prosegue da questo punto di vista “la precedente rivoluzione della mobilità alla quale aveva dato luogo la ferrovia, rompendo però con essa a causa dell’individualizzazione”,

“Il privato automobilistico”, spiega Yonnet, “implica, come il privato domestico, la libera disposizione originaria di uno spazio appropriato, spazio psicologico e sociale non meno che fisico. Ma mentre l’interno domestico aumenta le costrizioni (familiari, quelle della vita in comune, vicinato, visite impreviste) a causa della sua immobilità, l’interno automobilistico diminuisce notevolmente tutti i vincoli regolamentari e normativi, quella che si è soliti chiamare integrazione sociale. L’automobile, fattore che si può definire in una parola anomico, a causa della mobilità apparentemente illimitata che offre, dell’isolamento dalle costrizioni che offre e che consente di rivendicare, ed infine a causa delle variazioni di comportamento, di incontro e di uso che autorizza, sradica il privato – in ciò consiste la sua grande rivoluzione –, lo libera dalla staticità, dalla memoria delle pietre e delle posizioni immutabili […] Essa rende autonomi, “autonormizza” – saremmo tentati di scrivere esagerando la caratteristica –, è il bene portatore per eccellenza di un approfondimento della traiettoria individualizzante che è in atto da alcuni secoli nelle società occidentali, e quindi a maggior ragione quel vettore della modernità che è stato immediatamente scoperto dai contemporanei”.

Jean-Pierre Dupuy e Jean Robert giungono, dal canto loro, a una diagnosi analoga: “Di questa famosa “preferenza per l’automobile” noi vediamo l’origine nel fatto che, assai più ad esempio dei trasporti in comune, il veicolo individuale è in grado, sia per le caratteristiche fisiche sia per l’impatto sulla percezione simbolica dell’ambiente, di alimentare il mito del possibile annullamento degli spazi-tempi intermediari o in ogni caso di non entrare in contraddizione troppo flagrante con esso: il fatto di essere una piccola bolla che isola dall’esterno, uno spazio privato analogo all’alloggio, una immagine di mobilità, di libertà, di accessibilità, una sorta di cordone ombelicale che collega effettivamente, potenzialmente o simbolicamente con i luoghi valorizzati, ne fanno un mezzo particolarmente efficace su questo piano”.

L’autovettura non è quindi solamente una bolla che isola l’individuo dallo spazio pubblico, dando al suo conducente la sensazione di una libertà in ogni istante, mentre i trasporti in comune rappresentano uno spazio di costrizioni collettive subìte in un tempo determinato, identico per tutti. Essa è anche un mezzo per trasportare il privato all’interno stesso di questo spazio pubblico, e nel contempo un modo per l’automobilista di cercare di affermare la sua differenza individuale (il “modello”) nell’ambito dello stesso consumo di massa (la “serie”).

Sviluppandosi proporzionalmente all’individualizzazione delle relazioni sociali, cioè ai progressi dell’individualismo nella vita quotidiana, la motorizzazione trova così la propria giustificazione profonda nel fatto di essere in consonanza con i temi più essenziali della modernità: lo sradicamento e la parificazione delle condizioni (anche l’auto più lussuosa deve fermarsi al semaforo rosso per lasciarne passare una più modesta), fosse anche a prezzo della creazione di una nuova categoria di paria: il ciclista e il pedone.

Paul Yonnet conclude che la preferenza per l’automobile “presuppone la liquidazione di intere falde della vecchia società (principalmente attraverso l’esodo rurale, che non colpisce solo gli agricoltori bensì la società rurale nel suo insieme), un indebolimento delle riserve ideologiche secolari nei confronti del rapporto mercantile, l’indebolimento delle destre e delle sinistre sovversive […] Essa sostituisce l’individualismo di massa (così mal vissuto dagli intellettuali) con l’individualismo di élite (passaggio dalla mobilità di alcuni alla mobilità di tutti) – e addirittura metaforizza questo passaggio alla nozione di mobilità generalizzata”.

Jean-Pierre Dupuy non ha torto nell’affermare che “la sottomissione dell’uomo industriale ai veicoli rivela che egli non si sente a suo agio da nessuna parte, o quasi”19. Ivan Illich scriveva: “Gli utenti spezzeranno le catene del trasporto superpotente quando si rimetteranno ad amare come un territorio il loro isolato di circolazione, e a temere di allontanarsene troppo spesso”.

Alain de Benoist
Fonte:www.diorama.it/divorante232.html

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