NOURIEL ROUBINI
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Gli squilibri macroeconomici internazionali sono al centro di tutti i dibattiti di questi mesi, peraltro senza che vengano prese iniziative forti per arrivare a una soluzione. Ben prima dell’inizio della crisi i dirigenti mondiali si erano ripromessi di mettere fine a questo paradosso. Rappresentanti europei e americani si erano accordati, durante una conferenza del Fmi nel 2007, per incoraggiare il risparmio domestico e limitare le spese, mentre i loro omologhi cinesi, tedeschi e giapponesi avevano promesso di aumentare i consumi nazionali. Questi progetti però sono rimasti illusioni: quando l’economia mondiale si è ammalata, i disequilibri non hanno aiutato.
Questa riflessione non è così evidente guardando le cifre attuali, perché la crisi finanziaria fa diminuire gli squilibri. I consumatori dei Paesi in deficit come Usa, Regno Unito, Spagna o i Paesi dell’Est hanno iniziato a risparmiare appena la crisi ha messo in evidenza i pericoli del loro livello di indebitamento. Al contrario, lo stimolo fiscale dei Paesi esportatori come la Cina ha contribuito a rinforzare un consumo domestico fino ad allora esitante.
Il ristabilimento dei conti correnti negli Stati Uniti è particolarmente importante. Da quando è aumentato il tasso di risparmio, il deficit americano è solo più il 2,8% del prodotto interno lordo, il livello più basso dal 2001. Questo abbassamento spettacolare in confronto al record del 6,6% del 2005 riflette principalmente la netta riduzione delle importazioni. La stessa logica si applica a economie meno solide nell’Europa dell’Est e soprattutto nei Paesi baltici: le fonti di finanziamento esterno su cui riposava la generosa copertura dei deficit negli anni fortunati si sono seccate e hanno messo questi Paesi nella condizione di stringere la cintura. Nei casi più drammatici di Ucraina e Kazakistan la crisi è all’origine delle svalutazioni monetarie che hanno fortemente rincarato il costo delle importazioni. D’altra parte chi vuole entrare nell’euro, come la Lettonia, ha cercato di mantenere bene o male stabile la propria moneta. L’aggiustamento necessario non si può effettuare, in questi casi, che abbassando drasticamente i consumi. Viste queste cose è grande la tentazione di concludere che il riequilibrio sarà automatico. Sarebbe un errore. Tutto sembra al contrario indicare che le correzioni sono temporanee e non sono che una traduzione di politiche pubbliche reattive nei Paesi esportatori e di un consumo più moderato nei Paesi più spendaccioni.
L’esempio dei Paesi esportatori di petrolio è, da questo punto di vista, esemplare: dopo aver largamente beneficiato della crescita dei prezzi del barile, hanno contribuito negli ultimi anni al processo di riequilibrio macroeconomico finanziando il loro consumo con un continuo aumento del ricorso al credito, come è successo in Russia, negli Emirati Arabi e in Kazakistan. Queste economie hanno a lungo prodotto dei tassi di investimento deboli in confronto a quelli di altri Paesi emergenti: oggi il loro pesante bisogno di infrastrutture è causa di una rivalutazione di questi tassi a livello domestico. I surplus di budget e gli investimenti che ne sono derivati hanno raggiunto il loro massimo nel 2007 e 2008. Senza un nuovo cambio dei prezzi del petrolio – che avrebbe verosimilmente come conseguenza quella di spegnere la domanda e quindi compromettere la ripresa – gli eccessi di bilancia corrente saranno magri nel 2010. Con un barile a 75 dollari nel 2010 le nuove dotazioni in capitale dei fondi del Golfo e delle banche centrali saranno minori che nel 2007 quando i prezzi erano in media 72 dollari al barile. In altri termini, il tempo delle spese pazze è terminato e, data l’instabilità attuale dei cambi, questi Paesi saranno tentati di costituire forti riserve interne per proteggere la moneta.
La Cina, il più dinamico Paese al mondo, da una decina d’anni è un caso di scuola. La mia collega Rachel Ziemba prevede una riduzione della bilancia corrente cinese che si stabilirà tra 350 e 370 miliardi di dollari in funzione dell’evoluzione delle importazioni, contro i 420 miliardi del 2008. Nel primo semestre il suo saldo positivo era minore di cento miliardi. Un saldo commerciale di circa 30 miliardi di dollari si attende per il terzo trimestre. Un aumento delle spese domestiche a svantaggio del risparmio potrebbe ridurre ancora questo eccesso.
Nonostante siano in difficoltà per la crisi, molti Paesi persistono a promuovere un modello di crescita costruito sull’esportazione. Il ristoccaggio e la costruzione di nuovi inventari hanno potentemente aiutato la ripresa in Asia. La stabilità artificiale dei cambi non farà che esacerbare questa tendenza, accentuando l’accumulo di riserve e le distorsioni che ne derivano. Le previsioni più recenti del Fmi suggeriscono che gli squilibri potrebbero di nuovo aggravarsi, pur restando più bassi che nel 2006. Il loro volume in dollari peraltro potrebbe restare notevole.
Quale fattore si sostituirà dunque, nel gioco degli scambi, al deficit degli Stati Uniti? Il Fmi vede una possibile diffusione degli squilibri: gli eccessi giapponesi e tedeschi continueranno a diminuire, mentre Canada e Brasile compenseranno con i loro deficit gli eccessi cinesi. In termini aggregati, comunque, le stime a cinque anni dell’istituto di Washington anticipano una crescita degli eccessi a livello mondiale, il che potrà significare che i livelli previsti delle esportazioni sono incompatibili con le ipotesi di crescita.
La questione degli squilibri macroeconomici è stata rimessa all’ordine del giorno quando il G20 ha deciso di istituire un esame delle politiche pubbliche condotte dai suoi membri per evitare una nuova crisi. Il piano non è ancora definito che nelle grandi linee, ma insiste sul carattere imperativo di un abbassamento del consumo (a vantaggio del risparmio) negli Usa e sulla riallocazione degli investimenti consacrati all’esportazione in Cina, Giappone e Germania.
Questi obiettivi sono perfettamente legittimi. Ma c’è da temere che un comunicato emesso da un’organizzazione internazionale nascente non sia il trattamento miracoloso di cui l’economia mondiale ha bisogno. E’ l’estensione dei poteri del Fmi che permetterà di raggiungere questi difficili obiettivi politici ed economici. Gli squilibri vanno di pari passo con una cattiva collocazione del capitale all’interno delle economie il che, su scala planetaria, aumenta considerevolmente il rischio di future crisi finanziarie e la creazione di bolle speculative. Se non sono la prima causa della crisi attuale vi hanno certamente contribuito. Il denaro facile e la debolezza dei tassi di interesse hanno incitato gli investitori a comprare azioni apparentemente sicure e redditizie. La riduzione degli squilibri rischia di pesare sulla ripresa mondiale: ma resta fondamentale per ristabilire nel mondo un regime di crescita durevole.
Nouriel Roubini
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31.10.2009
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