DI MASSIMO FINI
Il gazzettino
Si discute in Occidente se sia il caso di boicottare le Olimpiadi organizzate dalla Cina, responsabile della sanguinaria repressione in Tibet di cui si fa finta di accorgersi solo ora mentre la strage di Lhasa non è che l’ultima di una serie lunga mezzo secolo. Secondo me le Olimpiadi non si dovrebbero fare né in Cina né altrove. Non si dovrebbero fare più.
Le ultime a dimensione umana sono state quelle di Roma, nel 1960, con la leggendaria galoppata di Abebe Bikila a piedi nudi nella maratona. Dopo sono diventate un gigantesco Barnum, un baraccone grottesco, gonfiato fino all’inverosimile dagli enormi interessi economici, dagli affari, dalle sponsorizzazioni. Non c’è centimetro quadrato dell’Olimpiade che non sia business (in passato gli americani sono arrivati ad affittare agli sponsor anche la fiaccola olimpica portata dai tedofori vendendone il percorso a tremila dollari al chilometro). Inoltre, in totale contrasto con le intenzioni dell’ingenuo barone Pierre De Coubertin, che le reinventò nel 1893, concependole come un momento di fratellanza universale fra i popoli, da almeno quarant’anni le Olimpiadi Moderne, proprio per il gigantismo che hanno assunto e la cassa di risonanza mondiale che rappresentano, sono diventate terreno fertile per l’esplosione di tensioni (la rivolta degli studenti al Messico), di rancori (la contestazione dei neri a Montreal), per boicottaggi (quelli incrociati di americani e sovietici a Mosca e a Los Angeles), per discriminazioni grottesche (il Sudafrica no, l’Iraq nazista di Saddam sì), quando non addirittura teatro di stragi come accadde a Monaco nel 1972 ai danni degli atleti israeliani. Da allora le Olimpiadi sono protette da centinaia di migliaia di uomini armati, da agenti segreti di ogni nazionalità, gli atleti non possono uscire dalle loro «location» se non sotto scorta. Quasi sempre il Paese che le ospita se ne serve per legittimarsi e per mascherare, dietro la perfezione e la spettacolarità dell’organizzazione, le proprie magagne, sociali e politiche. E questo è sicuramente il caso della Cina che il presidente Bush, con la tempestività che lo contraddistingue, ha depennato dai dieci Paesi che, a parer suo, violano i «diritti umani» proprio quattro giorni prima della strage di Lhasa.
Ma tutti gli Stati partecipanti hanno intenti politici e fanno di ogni vittoria una questione di prestigio nazionale. Così per prendere una medaglia alle Olimpiadi si inventano sport inverosimili e comici che non hanno in tutto il mondo che qualche centinaio di adepti o si mascherano come dilettanti professionisti pagati centinaia di migliaia di dollari. Ma gli effetti più inquinanti di questa corsa a un malinteso prestigio politico e nazionalistico si hanno sugli atleti. Per una medaglia, soprattutto nelle specialità «regine» delle Olimpiadi, atletica, nuoto, ginnastica, si allevano in batteria, come fossero polli, bambini e bambine di sei, sette anni costringendoli ad allenamenti quotidiani, pesantissimi. Per una medaglia gli atleti vengono, a seconda della specialità, ingrassati o denutriti, omogeneizzati, anabolizzati, spesso drogati. Ai nuotatori vengono rasi i capelli e i peli delle braccia, del petto, delle gambe, ai saltatori vengono stimolate le piante dei piedi con scariche elettriche, ad altri viene cambiato il sangue, alcune atlete, in passato, per rinforzarsi si sono fatte ingravidare per poi abortire a risultato avvenuto, ad altre vengono iniettati ormoni maschili fino a che perdono ogni forma femminile. Una buona parte dei Giochi Olimpici è fatta ormai di questi fenomeni da baraccone verso i quali si prova, invece che ammirazione, un senso di pena o la curiosità umiliante che ispirano la donna cannone e il nano Bagonghie.
E allora prendiamo il coraggio a due mani e facciamola finita una volta per tutte con questo circo indecoroso e impudico. E chissà che, oltre a evitarci lo spettacolo avvilente ed inquietante di città messe in stato d’assedio per quella che viene ancora ipocritamente chiamata «la festa della gioventù» (dove invece «si fa la festa alla gioventù), non si possa, in futuro, tornare a giocare a chi corre più veloce senza doverci trasformare in tanti Frankenstein .
Massimo Fini
Fonte: www.massimofini.it
Uscito su “Il gazzettino” il 28/03/2008