Intervista a Mike Davis*
Alcuni apostoli della globalizzazione inneggiano alla nascita di un ceto medio globale prodotto dalla deregulation, il libero scambio e la tecnologia. Lei invece vede profilarsi un pianeta tutto di bidonville. Come si possono riconciliare queste visioni parallele della realtà?
«In moltissimi casi questi ceti medi che spuntano in giro per il mondo sono prodotti non dall’allargamento e dalla crescita della ricchezza sociale complessiva, bensì da trasferimenti ai danni dei poveri del Terzo mondo operati attraverso, ad esempio, i tagli alla spesa sociale e le privatizzazioni di beni pubblici. C’è un legame dinamico fra questi nuovi ricchi e l’allargamento dell’esclusione e della povertà. «Naturalmente non mancano le eccezioni. Una è la Corea del Sud, dove il ceto medio è cresciuto insieme con la massa salariale e alla domanda interna esattamente come avvenne negli Stati Uniti negli anni 50, fra le altre cose perché la forza del movimento sindacale è riuscita a tradurre gli aumenti di produttività in migliori guadagni. Anche le Tigri asiatiche di maggiore successo hanno seguito l’esempio del Giappone e hanno utilizzando l’avanzo della bilancia commerciale per sviluppare sul mercato interno economie di consumo più o meno ugualitarie. Ma altrove è andata diversamente. La Cina può attribuirsi con ragione la fetta più consistente di riduzione netta della povertà assoluta su scala globale negli anni 90. Ma nessuno mette in discussione sono cresciute le disuguaglianze. La questione è se dobbiamo vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Io vedo una tendenza al mezzo vuoto. «È anche vero che su scala planetaria è sceso il livello di povertà assoluta, cioè il numero di persone che guadagnano meno di un dollaro al giorno. Ma contestualmente si è allargata quella parte della popolazione urbana che ha entrate non superiori ai due dollari al giorno. Nel mondo meno sviluppato le periferie delle megalopoli proliferano, addensandosi su colline instabili che possono crollare da un momento all’altro, su golene minacciate dalle alluvioni, lungo le rive dei fiumi avvelenati dalle industrie».
Che dimensioni hanno raggiunto queste baraccopoli? Dove sono cresciute di più e più in fretta?
«Se prendiamo la stima prudente di un organismo internazionale quale U. N. Habitat, oggi nel mondo circa un miliardo di persone vivono in agglomerati caratterizzati dalla precarietà abitativa e dalla mancanza di uno o più servizi urbani fondamentali: fognature, condotte, acqua pulita, elettricità, strade asfaltate. Mentre nei paesi sviluppati la fascia di popolazione urbana residente in questo tipo di quartieri è di circa il 6%, nei paesi poveri si arriva al 78,2%. Più o meno un terzo della popolazione urbana di tutto il mondo, quindi. «Le città del futuro non sono quelle distese di acciaio e vetro sognate da generazioni di urbanisti, bensì ammassi di mattoni crudi, paglia, plastica riciclata, blocchi di cemento e legno di recupero. Buona parte delle concentrazioni urbane in tutto il mondo sono soffocate dall’inquinamento, gli escrementi, il degrado. «La differenza fondamentale fra queste baracche e i quartieri poveri di Londra che Dickens descrisse nell’800 è il loro carattere periferico. La maggior parte degli insediamenti precari comincia a 30-40 chilometri dal centro di quello che chiamiamo città, in una cintura ibrida che non è né città né campagna. Le distese di catapecchie che accerchiano le grandi metropoli della Cina, dell’Indonesia e di tutti i paesi dell’America Latina sono abitate da contadini inurbati, ma anche da persone impoverite, sfrattate o espulse dall’aumento degli affitti in città. «Ma le baracche odierne sono più densamente popolate oltre che più estese di quelle ottocentesche. Le abitazioni hanno quasi sempre un solo piano, ma in pochi metri quadri si ammassano molte persone. Vengono costruite alla meno peggio formando un dedalo di viottoli, senza una rete stradale degna di questo nome. In meno di mezz’ora un piccolo incendio può distruggere mille di queste unità abitative, fra le quali le malattie infettive viaggiano con grande rapidità. «Le baraccopoli più estese si trovano in America Latina. La più grande in assoluto è a Sud-Est di Città del Messico. Anche nella periferia di Bogotá e di Lima si osservano insediamenti simili. Bombay vanta la più distesa concentrazione di catapecchie dell’Asia meridionale, abitata da circa mezzo milione di persone. Ma in questo subcontinente è più frequente la configurazione a macchia di leopardo, più frammentaria, come quella che vediamo vedere a Dhaka, nel Bangladesh, dove un mare di povertà circonda le isole del ceto medio. In Africa ci sono vere e proprie megabaraccopoli a Lagos, in Nigeria, e Gaza, in Palestina è sicuramente una delle più grosse bidonville al mondo. Quella di Sadr, nella capitale irachena, una delle più recenti e più grosse della Terra, è sorta per accogliere i contadini sciiti espulsi dalle campagne meridionali quando Saddam Hussein decise di prosciugare le terre basse. Port-au-Prince, la capitale di Haiti, è una città relativamente piccola avvolta da zone di degrado sterminate quali Bel Air e Cité Soleil».
A proposito di Gaza, in un suo libro lei ha sostenuto che «i kamikaze sono la risposta delle baracche». Adesso Hamas è arrivato al potere in Gaza.
«Molti di questi movimenti, come i narcos colombiani o gli islamisti mediorientali, costituiscono vere e proprie economie di sussistenza per i giovani esclusi dall’economia ufficiale. Con la scarsità di posti di lavoro determinata dalla contrazione del settore formale, la competizione per un lavoro è diventata feroce. Costretti a prendere quello che trovano, i giovani entrano nelle bande criminali o nelle milizie».
Questa spinta si accompagna alla radicalizzazione politica? Ci sono diversi esempi: in America Latina, gli abitanti delle zone povere di Caracas che sostengono Hugo Chavez, Evo Morales in Bolivia. I poveri delle città iraniane sono la base elettorale di Mahmoud Ahmadinejad. Moqtada al-Sadr, il capo sciita iracheno, viene proprio dalla baraccopoli di cui prende il nome.
«Sì, ma non è così semplice. La classe lavoratrice informale si presta male alla generalizzazione. Una stessa città può offrire diverse percorsi di sopravvivenza. A Gaza molti guardano verso Hamas, ma nelle bidonville di Nairobi si diventa pentecostali, specialmente le donne. A Caracas alcuni diventano delinquenti, altri seguono Hugo Chavez. Quello che voglio dire è che buona parte degli esclusi esperimenta diverse strategie di sopravvivenza. E questo in un momento in cui si è ridotta l’efficacia non soltanto delle strategie di sviluppo formali, compreso il microcredito, ma anche di percorsi tipici delle popolazioni emarginate, come le occupazioni abusive di alloggi o di suolo pubblico. La tendenza a estendere i titoli di proprietà anche alle abitazioni informali ha esacerbato la concorrenza e i più poveri dei poveri non ce la fanno a pagare l’affitto. La conclusione allarmante è che il settore pubblico se l’è svignata, il mercato non ce la fa a soddisfare la domanda, e questa volta nemmeno i cittadini poveri sono in grado di inventarsi delle soluzioni con le poche risorse di cui dispongono».
Ogni volta che accendiamo la tv una zona povera del mondo, dal Venezuela alle Filippine al Pakistan, è vittima di una catastrofe naturale: fiumi di fango, terremoti. Cosa sta succedendo?
«Una volta era possibile emigrare dalla campagna a Città del Messico e costruirsi una casa abusiva dove s’iniziava la pianura. Nel giro di 10 o 15 anni il governo finiva col riconoscere la proprietà dell’abitazione e portarvi i servizi. Oggi la competizione esacerbata per lo spazio ha determinato una sorta di “sviluppo urbano pirata”. Anche l’abusivismo è stato privatizzato. Per vivere in una bidonville bisogna avere i soldi per comprare il terreno. Chi ha meno soldi si adatta a stare in quel poco di terra di nessuno rimasto. Per definizione quel suolo privo di valore di mercato che nessuno vuole può trovarsi soltanto nei punti più pericolosi: una collina che frana, la riva di un fiume inquinato, una pianura a rischio di alluvioni. Prima o poi la catastrofe arriva. Nel 1999 oltre trentamila abitanti delle zone miserabili di Caracas rimasero sepolti sotto il fango. Tuttavia, i sopravvissuti sono andati a costruire le nuove case sulle stesse colline franate, ma ancora più in alto».
Questa situazione pone anche dei rischi sanitari? I quartieri sovraffollati senza acqua potabile né fognature possono essere il terreno di coltura dell’influenza aviaria e altre pandemie.
«Quindici anni fa scienziati come David Baltimore, ex preside del California Institute of Technology, hanno preso atto che la globalizzazione stava modificando l’ecologia delle malattie infettive. Nella bidonville le risorse alimentari sono presenti in quantità e densità maggiori che in ogni altro periodo della storia umana in condizioni sanitarie terribili. In un tessuto abitativo in cui l’acqua pulita e le poche latrine esistenti sono condivise da migliaia di persone, i servizi igienici sono la madre di tutti i problemi. Il 90% delle acque nere in America Latina si riversa sui fiumi e sulle coste senza il minimo controllo. «La questione acquista spesso risvolti di genere. A Bombay le donne vanno nei bagni pubblici in gruppi dalle 2 alle 5 di mattino per evitare di essere assalite sessualmente. Nairobi è un vero incubo sanitario. A Kinshasa l’unico modo in cui gli abitanti sono riusciti a sopravvivere al collasso dello Stato e dell’economia è stato quello di portare l’agricoltura in città: i polli e altri animali domestici vengono allevati ovunque. In queste condizioni l’ecologia della malattia è mutata, determinando rapporti e catene causali che prima non esistevano. La trasmissione di un virus fra diverse specie animali è più veloce e il salto verso gli esseri umani diventa più probabile».
Quale può essere la risposta alla sfida che arriva dalle bidonville?
«Il fallimento delle strategie di sviluppo classiche ha un risvolto positivo: il riconoscimento del fatto che lo sviluppo dal basso è preferibile perché le persone coinvolte in maniera diretta sono più efficienti nell’amministrazione delle risorse. Il problema semmai è che le risorse sono di gran lunga insufficienti per affrontare sfide di questa grandezza. «La risposta sta tutta nella redistribuzione della ricchezza, specialmente quando il paese dispone di petrolio o di un settore esportatore forte. Personalmente non trovo Hugo Chavez troppo simpatico, ma l’esperimento che egli sta tentando in Venezuela è molto interessante: incoraggiare i poveri a fare da soli, ma dirottare verso di loro una parte consistente della rendita petrolifera che prima veniva accaparrata da una minoranza. È una redistribuzione “morbida”, il ceto medio non subisce espropri, ma i soldi della principale risorsa naturale del paese, il petrolio, vengono deviati verso i poveri. «Alla fina le sfida è fondamentalmente creare lavoro, lavoro, lavoro. Fino a quando non si creeranno posti di lavoro “di qualità” nella città, sarà impossibile gestire le baraccopoli. Soltanto lo Stato può mobilitare risorse in una scala significativa. Non ho dubbi. Fra le grandi sfide che abbiamo davanti a noi, la mancanza di lavoro nelle città ha la stessa portata del cambiamento climatico».
Fonte: www.lastampa.it
14.03.06
*Mike Davis docente di teoria urbana, è uno degli studiosi di urbanistica più famosi al mondo. Scrive regolarmente sul settimanale della sinistra “radical” americana “The Nation”, su “L.A. Weekly” e “Los Angeles Times”.
© 2006, Nobel Laureates Plus Distributed by Tribune Media Services, Inc. (March 1, 2006)
Traduzione del Gruppo Logos