DI MAURO BOTTARELLI
rischiocalcolato.it
Era l’8 febbraio di quest’anno quando il New York Times rilanciava la notizia in base alla quale il caso Regeni sarebbe stato al centro degli incontri di alto livello, a Washington e a Il Cairo, tra esponenti dell’amministrazione Usa e del governo egiziano. “I colloqui diplomatici a Il Cairo e Washington questa settimana probabilmente contribuiranno a concentrare l’attenzione internazionale sulla morte del dottorando italiano il cui corpo, con segni di pesanti percosse, è stato trovato la settimana scorsa a Il Cairo”, scriveva l’influente quotidiano americano
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Di più, il giornale newyorchese faceva notare come l’occasione per unirsi al pressing italiano sarebbero state una visita del ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, a Washington e il viaggio a Il Cairo di Sarah B. Sewall, la più alta in grado al Dipartimento di Stato per i diritti umani. Durante questi incontri, stando al New York Times, “probabilmente sarà dicusso anche il caso Regeni, visto da alcuni in Egitto e all’estero come un nuovo, allarmente segnale degli abusi da parte delle forze di sicurezza in un Paese, dove è sempre più comune la detenzione arbitraria, come indicano gli osservatori dei diritti umani”. Nella capitale Usa, Shoukry aveva in agenda appuntamenti con il segretari di Stato John Kerry, la consigliera presidenziale per la sicurezza nazionale Susan E. Rice e vari esponenti di punta del Congresso. Mentre a Il Cairo, Sewall avrebbe incontrato vari funzionari di governo.
Sewall, che in precedenza è stata a capo del Carr Center for Human Rights Policy alla scuola di governo Kennedy di Harvard, ha dichiarato di avere l’intenzione di “apprendere di più sulle sfide che l’Egitto deve affrontare e i progressi che il Paese ha fatto in questa direzione”. Immediata fu la reazione del Dipartimento di Stato Usa alle indiscrezioni del quotidiano: dopo aver offerto le più profonde condoglianze alla famiglia e agli amici del ricercatore friulano, si limitò a dire che “osserviamo che le indagini ufficiali sull’omicidio di Regeni sono in corso con la partecipazione degli investigatori italiani”.
Come mai tutto questo interesse per un dottorando italiano, seppur ucciso brutalmente in Egitto? Come mai scomodare il Dipartimento di Stato? E se le indiscrezioni del New York Times erano vere, cosa è emerso da quegli incontri? Il nostro governo, l’intelligence e gli inquirenti sono stati informati di qualche cosa dagli americani? Domande lecite, penso, dopo la straziante conferenza stampa di martedì dei genitori di Giulio Regeni in Senato insieme al presidente della Commissione per i diritti umani, Luigi Manconi, in cui si è chiesto al governo di prendere posizione netta verso Il Cairo se dall’incontro tra gli inquirenti atteso per il 5 aprile non arriveranno novità serie sul caso, dopo la ridda di bufale e depistaggi propinati finora dalle autorità e dalla polizia egiziana.
Come mai Manconi, che è politico di lungo corso, non ha chiesto che il governo riferisca su quell’interessamento americano così repentino – il corpo era stato trovato da una settimana – e che mobilitava i piani all’altissimi dell’amministrazione Usa? Forse perché è più facile attaccare Al-Sisi, i metodi brutali dei suoi servizi segreti e del suo esercito (come se quelli delle altre nazioni ci andassero per il sottile, quando serve) che fare domande serie. E, forse, scomode.
Non è che l’interessamento Usa e la pressione diplomatica erano per conto terzi, ovvero per il potente alleato degli americani nel Golfo, quel Qatar che non disdegna il supporto all’estremismo sunnita ma che ospita la più grande base aerea Usa fuori dagli Stati Uniti? Proprio il segretario di Stato, John Kerry, ha creato in tre anni un rapporto molto stretto con i diplomatici del Qatar, usati come messaggeri nelle relazioni con Hamas nei territori palestinesi, con i talebani in Afghanistan e con i gruppi ribelli in Siria e Libia. Washington, ad esempio, ha ringraziato il Qatar per aver mediato, nell’estate del 2014, tra Israele e Hamas dopo l’offensiva dello Stato ebraico, oltre che per il suo ruolo nella liberazione di alcuni ostaggi occidentali, tra cui il sergente dell’esercito Bowe Bergdahl, scambiato con cinque comandanti talebani.
I funzionari Usa che ritengono fondamentale l’alleanza con il Qatar considerano l’emirato indispensabile nella lotta contro lo Stato islamico visto che, per esempio, i raid statunitensi contro gli estremisti partono da una base del Qatar e che la forza aerea dell’emirato fornisce sostegno logistico e sorveglianza. Il Qatar, però, fornisce anche sostegno diplomatico e finanziario ai gruppi ribelli in Medio Oriente, compresi quelli che hanno legami con al Qaida, stando molte fonti arabe e statunitensi citate dal Wall Street Journal. Il Qatar, inoltre, si trasforma in un rifugio sicuro per i leader di Hamas e dei Fratelli musulmani, guarda caso chi era al potere prima di Al-Sisi in Egitto e che avevano un rapporto privilegiato con il Qatar, tanto da portare Doha verso l’isolamento tra gli stessi Paesi del Golfo. Il precedente emiro, Hamad bin Khalifa al Thani, aveva infatti promesso entro il 2018 investimenti per circa 21 miliardi di dollari in favore dell’ex leader egiziano Mohamed Morsi, attualmente in carcere e dei Fratelli Musulmani, bollati ora come organizzazione terroristica.
Un sostegno totale, tanto che il ministro di Stato per gli Affari Esteri degli Emirati Arabi Uniti, Anwar Gargash, chiese ufficialmente a Doha di prendere le distanze dalle dichiarazioni di Yusuf al-Qaradawi, teologo casualmente egiziano ma naturalizzato qatarino e presidente dell’Unione internazionale degli studiosi musulmani, che proprio dal Qatar invitava gli egiziani alla rivolta contro i militari, criticando aspramente sia l’Arabia Saudita sia gli Emirati Arabi Uniti. La replica ufficiale del Qatar non ha incluso alcuna presa di distanza dalle dichiarazioni di al-Qaradawi, né garanzie sul fatto che, in futuro, le esortazioni del teologo saranno più contenute. Non è un caso che l’Egitto di Al-Sisi sia sempre più nel mirino (benevolo, per ora) dell’Arabia Saudita, la quale lo scorso dicembre ha stanziato un piano di aiuti da 8 miliardi di dollari per Il Cairo.
Di più, Re Salman ha recentemente definito Egitto, Arabia Saudita e Turchia come i tre Paesi più importanti della regione, vedendo il ricompattamento del fronte sunnita in chiave anti-iraniana come una priorità assoluta. Guarda caso, tra pochi giorni il presidente egiziano sarà a Istanbul, su invito ufficiale del governo, per il summit annuale dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, mentre nei giorni scorsi alcuni quotidiani turchi hanno reso noto che il presidente Erdogan sarebbe intenzionato a coinvolgere il Cairo in un working-group sulla questione libica.
Forse Washington agiva davvero come proxy ma resta il fatto: le nostre istituzioni hanno chiesto conto o ricevuto informazioni dagli Usa rispetto all’esito di quei colloqui, ammesso che si siano tenuti veramente? Da martedì Matteo Renzi è proprio in visita negli Stati Uniti, chiederà lumi? Magari domani e direttamente a Obama, che vedrà a Washington per il summit sulla sicurezza nucleare? Ed è vero che il governo italiano sta subendo pressioni da quello statunitense affinché rompa le relazioni con l’Egitto sul caso Regeni? E qui comincio a chiedermi anche altro: perché mai i servizi o la polizia di Al-Sisi avrebbero dovuto ritenere Giulio Regeni una minaccia, tanto da torturarlo e ucciderlo? Il suo lavoro di ricerca, soprattutto sui sindacati? Ho letto l’articolo che ha pubblicato “Il Manifesto” dopo la sua morte (delicatezza infinita) e francamente dentro non mi pare ci fossero rivelazioni tali da giustificare un omicidio di Stato, soprattutto di questa efferatezza. Una sola cosa è certa, poi: se fossero stati loro, se fosse stato il governo egiziano, il corpo non si sarebbe mai trovato, perché l’Egitto non può inimicarsi l’Italia.
E, soprattutto, l’Eni, dopo che sul finire di agosto dello scorso anno è stato scoperto il più grande giacimento a gas del Mediterraneo, il quale si trova nell’offshore egiziano presso il prospetto esplorativo denominato Zohr. Il giacimento supergiant presenta un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi (bcm) di gas in posto (5,5 miliardi di barili di olio equivalente) e un’estensione di circa 100 chilometri quadrati. Si tratterebbe, quindi, di un giacimento anche più grande di Leviathan, il giacimento al largo delle coste di Israele, stimato intorno ai 620 bcm e ritenuto, finora, il maggiore del Mediterraneo. Eni, attraverso la controllata Ieoc Production BV, detiene nella licenza di Shorouk la quota del 100% e ne è l’operatore.
Nel marzo del 2015 ha siglato un accordo che prevede investimenti totali per un valore stimato di circa 5 miliardi di dollari al 100% ma l’investimento complessivo dovrebbe raggiungere addirittura i 7 miliardi di dollari, stando al responsabile della compagnia petrolifera di stato egiziana, Egyptian Natural Gas Holding Company (Egas), Khaled Abdel Badie, per il quale il solo investimento iniziale per il giacimento di gas di Zohr ammonta a circa 3,5 miliardi di dollari. Una crisi diplomatica Italia-Egitto sarebbe benedetta da molti nostri concorrenti, gli stessi che non si fecero tanti scrupoli in Libia nel 2011. O che stanno esplorando anch’essi l’offshore egiziano, avendo vinto insieme ad Eni la gara d’appalto.
Purtroppo, il profilo professionale del povero Giulio era perfetto per creare una falsa pista o, quantomeno, un falso mandante. Perché si sa, se muore un italiano in Egitto per una rapina, nessuno invoca la rottura delle relazioni diplomatiche in caso non si trovi l’assassino ma se a venire sequestrato e torturato a morte è un giovane ricercatore, sul destino del quale la polizia egiziana gioca al depistaggio (sicuri che non ci siano settori ancora fedeli ai Fratelli Musulmani?) con i nostri inquirenti, allora sì che monta l’indignazione dell’opinione pubblica e certe ipotesi emergono e, magari, vengono anche prese in esame. Che fosse l’agenda nascosta di qualcuno farci arrivare ai ferri corti con Al-Sisi? Il quotidiano “La Stampa” ha dedicato un articolo alla Oxford Analytica, l’agenzia di intelligence inglese con cui Regeni collaborava. E di cosa si occupa questo gruppo? “Analizza tendenze politiche ed economiche su scala globale per enti privati, agenzie e ben cinquanta governi, una specie di privatizzazione di altissimo livello della raccolta di intelligence. Ha uffici, oltre che a Oxford, a New York, Washington e Parigi, e vanta una rete di 1,400 collaboratori.
Promette “actionable intelligence”, informazioni su cui si possa agire, senza ideologie o inclinazioni politiche”. Non esattamente un ambiente di lavoro noioso. E cosa faceva Regeni per quel gruppo? Non le fotocopie, a quanto pare: “Dal settembre 2013 al settembre 2014, Giulio ha lavorato alla produzione del Daily Brief, una decina di articoli pubblicati ogni giorno sugli eventi principali e mandata a una lista di clienti d’elite. E’ uno dei prodotti di punta del gruppo, modellato sui briefing che Kissinger preparava per Nixon”. Già, perché il fondatore di Oxford Analytica, David Young, era tra i dirigenti dei cosiddetti “idraulici”, il gruppo che doveva “tappare” le fughe di notizie e di cui facevano parte anche G. Gordon Liddy e Howard Hunt, entrambi finiti dietro le sbarre per il Watergate.
“Dopo lo scandalo, Young lasciò l’America per completare un dottorato di ricerca in relazioni internazionali ad Oxford (leggenda vuole che la sua tesi fosse tenuta sotto chiave perché conteneva informazioni riservate), e nel 1975 fondò la Oxford Analytica. Nel cui board figurano anche John Negroponte, ex direttore della United States Intelligence Community e Sir Colin McColl, ex capo dell’MI6, il servizio segreto inglese”. Insomma, diciamo che non è la redazione del Gazzettino Padano.
E Giulio sarebbe dovuto tornare in Inghilterra, lo ha confermato il professore Glen Rangwala, con cui il dottorando avrebbe dovuto infatti collaborare per un corso non appena rientrato dall’Egitto. Rangwala smentì l’ipotesi che dall’Università qualcuno possa aver passato i report del ragazzo agli 007: “Per nessun motivo al mondo gli accademici di Cambridge diffondono le ricerche degli studenti ai servizi segreti”. Perché non ne hanno bisogno, visto che Oxford e Cambridge sono storicamente bacini di reclutamento per MI5, servizio segreto interno e MI6, quello per l’estero di Sua Maestà.
E non lo dico io, lo dice la storia e lo conferma, paradossalmente, un articolo pubblicato sul sito oxfordstudent.com a firma di Catherine Edwards e dall’eloquente titolo “Oxford, spie e il servizio segreto”. In quel pezzo si fa notare, ad esempio, che quasi tutti i capi dell’MI6 provenissero da Oxford o Cambridge, che i due atenei furono usati come campi di reclutamento durante la Guerra Fredda per evitare la diffusione del comunismo in Inghilterra, che David Cornwell – più noto come John Le Carrè – aveva studiato a Cambridge e lavorò sia per l’MI5 che l’MI6, che Sir David Spedding, oxfordiano, fu responsabile per molte azioni sotto copertura in Medio Oriente e che il famoso “agente Scott”, al secolo Arthur Wynn, faceva il doppio gioco reclutando studenti per farli diventare spie del Cremlino.
Giulio Regeni non era una spia ma lavorava per un’agenzia di intelligence di alto livello che intrattiene rapporti professionali con aziende e governi, quindi con servizi segreti: forse, era una spia a sua insaputa. Forse, è stato usato. Certamente, è stato tradito. Magari qualche domanda in più a Washington e Londra andrebbe fatta, se davvero si vuole la verità e si pensa di poterne sopportare il peso, prima di richiamare in fretta e furia l’ambasciatore italiano dall’Egitto come vorrebbe l’ex di Lotta Continua, Luigi Manconi. O, peggio, applicare sanzioni economiche che appaiono suicida. Ho sterminato rispetto per il dignitoso dolore dei genitori di Giulio Regeni e per la loro voglia di giustizia ma proprio per questo non intendo accodarmi al treno di ipocrisia che è partito non appena ritrovato quel corpo straziato. Giulio era finito in un guazzabuglio di interessi troppo più grande di lui, probabilmente e ne ha pagato il prezzo. Evitiamo di trasformare questa tragedia nell’ennesima farsa all’italiana, per favore. Sarebbe già questo un modo di onorare la memoria di Giulio.
Mauro Bottarelli
Fonte: www.rischiocalcolato.it
31.03.2016