DI MARIO SEI
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da Tunisi
In Tunisia la rivoluzione non è mai stata festeggiata perché tutti sapevano che la fuga di Ben Ali non significava la fine del regime. Senza mai sfociare in grandi violenze e con momenti di maggiore calma, il movimento di rivolta è sempre continuato. Ancora una volta su pressione della folla e in particolare di una nuova occupazione della Kasba, la piazza dei ministeri a Tunisi, gli eventi sono nuovamente precipitati e in pochi giorni la rivoluzione è ritornata al punto di partenza. Domenica 27 febbraio, il primo ministro Mohamed Ghannouchi, a capo del governo per undici anni con Ben Ali e ancora a capo dei due governi provvisori seguiti alla fuga del rais, ha annunciato le sue dimissioni, a cui sono poi seguite quelle di diversi ministri. Il mattino seguente, il presidente della repubblica ad interim, Foued Mbazaa, ha nominato Béji Caïd Essebsi, 84 anni e uomo di governo ai tempi di Bourghiba, di cui era intimo amico. In un clima d’attesa e grande incertezza, mentre il primo ministro Essebsi incontrava il premier Zapatero, in visita ufficiale a Tunisi, e non parlava alla nazione, è stato il presidente della repubblica, dopo quattro giorni, ad apparire in televisione per annunciare le decisioni prese: le elezioni di un’assemblea costituente che si terranno il 24 luglio, la scrittura di una legge elettorale che sarà sottomessa al consenso di tutte le forze sociali e la dissoluzione del parlamento.
Queste decisioni accolgono gran parte delle richieste della gente della Kasba, in gran parte rappresentate dal Consiglio di Protezione della Rivoluzione, che riunisce importanti forze d’opposizione, molto diverse tra loro, come l’unione sindacale (UGTT), il Fronte 14 Gennaio che raggruppa diversi partiti politici, tra cui molti di sinistra, e Nadha, il partito islamico. Nonostante il percorso sia lungo e il conflitto possa rinascere sul problema della legge elettorale, non ancora del tutto chiarito, queste decisioni hanno momentaneamente placato una rivolta che si era riaccesa in diverse parti del paese, in particolare nella capitale dove, tra venerdì 25 e sabato 26 febbraio, la polizia ha di nuovo sparato e ucciso cinque ragazzi.
La situazione resta comunque tesa e in molti temono che il conflitto, che ormai sembra assumere le caratteristiche di un conflitto di classe, possa riesplodere di nuovo. Eppure questo non impedisce al paese, grazie soprattutto allo sforzo volontario dei suoi cittadini, oltre che dell’esercito e della Croce Rossa, di gestire in modo ammirevole un’enorme emergenza umanitaria alle frontiere con la Libia – 100.000 sono per ora i rifugiati – senza gli assurdi allarmismi del governo italiano e con scarsissimi aiuti internazionali.
Dalla fuga di Ben Ali, in realtà, la rivolta non si era mai spenta, anche perché i due governi provvisori di Ghannouchi non sono mai riusciti ad ottenere il pieno consenso della società. Le proteste erano continuate un po’ ovunque fin dall’inizio e l’occupazione della Kasba aveva costretto il primo ministro a formare un secondo governo, epurato dalle figure troppo implicate col regime. Anche il nuovo governo provvisorio però, ha agito con poca trasparenza, in alcuni casi ha anzi mostrato di voler mantenere inalterata la macchina del potere in cambio di misure economiche demagogiche e di lunga durata, in teoria incompatibili con un governo provvisorio, come concessioni salariali, sussidi di disoccupazione, numerose assunzioni nell’amministrazione pubblica o piani di sviluppo poco credibili per la regione mineraria di Gafsa. Dopo alcune settimane di relativa calma, dal 20 febbraio la kasba era stata di nuovo occupata, insieme alle piazze di altre città, e alla manifestazione di sostegno convocata nella capitale venerdì 25 febbraio, prima del weekend di morte, e chiamata “giornata della rabbia”, c’erano più di 100.000 persone.
Negli scontri cominciati il pomeriggio di venerdì 25 febbraio e costati la morte di altri giovani, come attestano moltissime testimonianze e come ha dichiarato lo stesso Ghannouchi prima di dimettersi, sono intervenuti agenti infiltrati e bande di giovani teppisti pagati per saccheggiare e distruggere. Dietro le sicure manipolazioni, quel che è certo è che i brutali metodi repressivi della polizia non sono cambiati, così come non è cambiato il silenzio della stampa, il silenzio del ministro degli interni, e l’indifferenza di parte della borghesia cittadina, che sostenuta dal Tajdid e dal PDP, i due partiti “governativi”, e definendosi “maggioranza silenziosa”, orribile espressione resa famosa da Nixon e rivolta a chi non protestava contro la guerra del Vietnam, non si è scandalizzata per gli spari sulla folla, ma al contrario si è radunata ogni giorno dalle 5 alle 7 del pomeriggio per chiedere stabilità, sicurezza e protestare contro le parti della società che causano il disordine, cioè l’unione sindacale e la folla che si raduna alla Kasba. Eppure la mobilitazione della kasba è sempre stata pacifica, composta da un mondo variegato: molti giovani, ma anche intellettuali, avvocati, medici, universitari, e pochi leader, nessuna connotazione religiosa e una comune richiesta di giustizia sociale. Il solo disordine di quella folla è un certo caos organizzativo, compensato dall’energia di migliaia di persone che usando la rete e continuamente collegate tra loro, danno vita a un senso collettivo. Nella piazza si parla continuamente di politica e l’atmosfera è di festa, con canti e musica, ma il giudizio di tutti è netto: finora nulla è cambiato e la macchina del potere è ancora la stessa. Con i molti venuti da diverse parti del paese, la Kasba è la voce di un profondo malessere sociale che nelle regioni del centro e del sud, da anni completamente dimenticate a se stesse e dove vive circa la metà della popolazione tunisina, è davvero esplosivo. Il confronto con quella realtà è durissimo, me ne sono accorto facendo un viaggio nei paesi e nelle città dove la rivoluzione è cominciata, pochi giorni prima che la rivolta scoppiasse di nuovo.
Proiettili usati dalla polizia venerdì 25 e sabato 26 febbraio
Nei luoghi dove la rivoluzione è cominciata
Mi sono fermato in luoghi fuori da ogni percorso turistico, che ho attraversato molte altre volte, ma che hanno sempre significato solo il numero di chilometri mancante per la sosta successiva. Parto dalla capitale con l’amica Olfa Lamloum, tunisina ma da anni residente in Francia, saggista e ricercatrice in scienze politiche, e il suo compagno, Jim Mure, scozzese e corrispondente della BBC, che di ritorno dal Cairo e dagli eventi di piazza Tahrir, vuole documentare l’evolversi della situazione in Tunisia. Olfa è emozionata: ritrova amici da sempre all’opposizione e repressi dal regime, riscopre un paese in cui si è liberata la parola e tutti parlano di politica. Jim è ovviamente più distaccato, ma si lascia trasportare dal nostro entusiasmo e da un paese diventato un’immensa agorà politica e con pochissima, secondo Jim, violenza collettiva.
Prima tappa del viaggio Sidi Bouzid, 200 km a sud di Tunisi, 45.000 abitanti e luogo ormai famoso per l’immolazione di Mohamed Bouazizi. Abbiamo appuntamento con l’avvocato Dhai Jilani, un uomo sulla cinquantina che dopo anni di magistratura nella capitale, disgustato dalla corruzione, ha deciso di tornare a fare l’avvocato nella propria città. Dopo una ripresa all’aperto di Jim, accerchiati da molte persone che vogliono testimoniare la propria storia alla stampa straniera, andiamo nello studio dell’avvocato, proprio di fronte al Municipio dove Bouazizi si è immolato. Jilani emana onestà e franchezza, ci racconta che insieme ad alcuni colleghi ha cominciato a coordinare la protesta per necessità, perché nessuno era in grado di farlo e perché le storie di ingiustizia e sopruso erano così tante che bisognava trattarle insieme. Mohamed Bouazizi non è stato il primo a immolarsi, ci ricorda, ma per non far dimenticare il fatto com’era avvenuto negli altri casi, in città ci siamo organizzati e ogni giorno, dopo il 17 dicembre, ci davamo appuntamento alle 17, dopo il lavoro, per manifestare davanti al municipio. Alcuni pensavano agli slogan e ai manifesti, altri si dedicavano a filmare le proteste e a trasmetterle in rete. Le immagini hanno cominciato a circolare, insieme alla repressione poliziesca arrivata quasi subito, con 5000 poliziotti venuti a presidiare la città, e in questo modo la protesta si è poi estesa ad altre città.
Il problema della zona, ci dice, e di quelle attorno a Kasserine o al Kef, è la disoccupazione cronica e l’assenza di prospettive, in regioni senza infrastrutture e basate unicamente sull’agricoltura intensiva di cereali. In queste zone il 60% dei giovani, tra cui moltissimi laureati, è senza lavoro e senza futuro. Tutti sappiamo che nessun governo, in poco tempo, può creare occupazione per migliaia di persone, ma dopo la rivoluzione, la gente si aspettava dei segnali di cambiamento che non sono arrivati. Anzi, tutti hanno perso ogni fiducia quando hanno saputo che dei nuovi 24 governatori nominati dal secondo governo Ghannouchi, 19 erano esponenti dell’RCD, il partito-stato di Ben Ali. Attraverso il racconto di casi che ha seguito e delle storie familiari che conosce, Jilani ci fa capire quanto sia radicata ed estesa la rabbia collettiva. Torniamo alla macchina e per strada siamo nuovamente accerchiati da molte persone, che ci dicono d’aver poca fiducia nella stampa nazionale e sono contente di vedere che la stampa straniera s’interessa ancora della Tunisia. Salutandoci, Jilani ci dice con dolore che organizzare, e in alcuni casi contenere, la rabbia della gente è un lavoro immenso e che si sente incapace di farlo. La dittatura ci ha impedito d’imparare a far politica e ora è difficile. Spesso, confessa, avrei bisogno d’aiuto, di consigli, e non so a chi rivolgermi.
E’ già buio quando ci muoviamo verso Gafsa, una delle più importanti città del sud, centro dell’attività mineraria e tra i luoghi dove nel 2008 scoppiò una rivolta durata mesi e costata la vita di diverse persone. Sulla strada telefono a un altro avvocato, l’amico Ridha Redhaoui, infaticabile difensore di giornalisti e oppositori incarcerati dal regime, che si era incaricato di prenotarci un albergo. Ci aspetta all’entrata della città e salutando Jim scherza a proposito dell’Egitto: “siamo i soli due paesi che finora sono riusciti a scacciare i dittatori, ora bisogna vedere chi riesce per primo a costruire la democrazia.” Ridha è preoccupato per la situazione politica e per l’emergenza umanitaria ai confini della Libia, di cui coordina le operazioni. Si scusa, ma ci spiega di non avere tempo da dedicarci: nello stesso hotel dove dormiremo, è in corso una cena, che ha interrotto per venirci a cercare e a cui ci invita, con una numerosa delegazione di deputati e membri di partito d’altri paesi, e alle sei del mattino seguente deve partire per Ras Jedir, alla frontiera libica. L’hotel, 5 stelle e in genere pieno di turisti in transito che ripartono la mattina, è completamente vuoto, a parte le persone della delegazione, e il prezzo per la camera è irrisorio. Ridha ci presenta alla tavolata e Olfa ritrova alcuni conoscenti, un deputato della sinistra francese e Kamel Jandoubi, presidente della rete euro-mediterranea dei diritti dell’uomo (REDH), rientrato da poco in Tunisia dopo la condanna all’esilio nel 1994. Mangiando si discute di possibili scenari per la Tunisia, per i paesi arabi, per il mondo; dell’immensa spinta rivoluzionaria che si è prodotta, delle difficoltà a gestirla, dell’implosione del sistema globale. Ci alziamo da tavola che è tardi e salutiamo Ridha, che davanti a un’orata e del vino rosso, discute con alcune persone e organizza il trasporto di alcune merci per i rifugiati. Vista l’ora, ha ormai deciso di non andare a dormire.
La mattina seguente ci dirigiamo a Redeyef, 70 km a sud e centro di una delle miniere di fosfati più importanti del mondo, per incontrare Adnan Haggi, sindacalista e tra i pochi leader della regione. La strada attraversa una terra arida, in un paesaggio desertico, e arrivando in città vediamo ancora i segni delle rivolte: commissariati e alcuni negozi bruciati. Scopriamo che Adnan è impegnato fino al tardo pomeriggio e tra le vie quasi vuote cerchiamo un caffè, dove sederci e decidere cosa fare. Fuori c’è qualche tavolo, ma fa freddo e quindi entriamo. Pareti spoglie, un grande stanzone pieno di giovani che giocano a carte o discutono, ci sediamo in disparte e chiediamo caffè con latte. Vorremmo parlare con quei ragazzi, ma ci trattiene un certo pudore ed è Jim che si alza e nel suo arabo mediorientale chiede se sono disponibili per un’intervista. Rispondendo con un ottimo inglese, uno di loro accetta ma vuole sapere per chi lavoriamo. Hahmed ha 27 anni, è disoccupato, ma è professore d’inglese. Parla in modo chiaro e determinato, ma senza aggressività e Jim decide di filmare l’intervista, mentre con Olfa ci spostiamo insieme agli altri ragazzi. Tra loro molti laureati, ci dicono di guardare le pareti sporche del caffè e di pensare che quello è il luogo dove passano tutte le loro giornate, respirando fosfati appena si solleva un po’ di vento. “Abbiamo partecipato tutti alle rivolte”, ci dicono, “e sappiamo che non è finita, ma dopo la rivoluzione abbiamo cominciato a sperare. E’ per questo che anche quando, per circa dieci giorni, il prezzo del viaggio per l’Italia è stato bassissimo, abbiamo deciso di restare e di non emigrare.” Scopriamo che l’abbassamento dei prezzi ha conciso con il breve flusso d’immigrati sulle coste di Lampedusa, avvenuto verso la metà di febbraio. “Qui non c’è nulla da fare e ogni tanto ci capita di fumare degli spinelli” ci confessano. “Erano i poliziotti a vendere il fumo e poi ci ricattavano, perché se ti fanno le analisi e scoprono che fumi, la pena è minimo un anno di prigione.”
Consigliati dai ragazzi, andiamo a Moulares, cittadina a pochi chilometri, dove le miniere e i depositi di fosfati sono ancora occupati dagli operai. Le miniere sono a cielo aperto e le case sono praticamente costruite attorno. Ci accolgono molte persone e ci spiegano la situazione: oltre all’aumento della disoccupazione, dovuto alla riduzione del prezzo dei fosfati e a privatizzazioni gestite in modo mafioso, tutta la regione è contaminata, la terra non si può coltivare e l’acqua non è potabile, anche se tanti la bevono. Quando c’è vento, ci raccontano, respiriamo fosfati e spesso poi il naso sanguina, abbiamo tutti problemi ai denti perché la polvere li corrode. Il peso di quelle storie e di quei luoghi invivibili ci rimane sulla pelle e quando risaliamo in macchina, sollevati di allontanarci da quella realtà, proviamo rabbia per l’evidente falsità dei piani di sviluppo proposti. Cerchiamo di immaginare, senza riuscirci, una concreta alternativa di vita per quella gente. Manca tutto: strade, ospedali. E l’intera regione, arida di natura e urbanizzata solo in funzione delle miniere, andrebbe bonificata. E’ difficile che una situazione come questa possa attirare gli interessi economici e gli investimenti.
Ritorniamo verso Gafsa per proseguire verso ovest, diretti a Menzel Bouzaiene, dove Olfa ha degli amici sindacalisti che ci faranno parlare con i familiari e gli amici di alcune vittime delle rivolte. E’ già metà pomeriggio e ci fermiamo a Gafsa a mangiare un panino in un bar del centro, pieno di giovani. L’immancabile televisione è sintonizzata sulle news in arabo di France24 con le immagini della Libia. Olfa riesce a captare pezzi di discorsi tra i giovani che ci traduce. In questo momento, dicono, non dobbiamo farci coinvolgere in conflitti o invidie tra clan, noi non siamo come in Libia. Dobbiamo restare uniti e seguire l’esempio di Redeyef, solo così riusciremo ad ottenere qualcosa.
Gli 80 km di strada per Menzel Bouzeiene attraversano un paesaggio piatto e un po’ meno arido, sparso da qualche zona di verde, soprattutto olivi. La cittadina è senza storia, identica a tante altre, divisa a metà dalla strada nazionale. Gli edifici che si estendono sulla destra e la sinistra, perlopiù recenti, non superano i due piani e molte delle case sono senza intonaco. Incontriamo prima i genitori e gli amici di Mohamed Jlassi, 25 anni e professore di ginnastica, ucciso con un proiettile nel petto, e poi la moglie di Nassri Choukri, 42 anni, informatico, che uscito durante una manifestazione per riportare a casa il fratello minore è stato colpito da due colpi alla schiena. Un amico di Mohamed, presente al momento della morte, ci racconta d’aver visto una donna poliziotto esultare e fare il segno di vittoria dopo aver colpito e visto cadere Mohamed. Najet, la moglie di Nassri, ci dice invece d’aver atteso quattro giorni prima di poter vedere il marito, morto in ospedale. E’ rimasto tre giorni in commissariato, prima che lo portassero in ospedale e il torace era blu d’ematomi, inferte dunque dopo le ferite. I vicini riunitisi a casa di Najet ci dicono che in tutte le cittadine della regione ci sono famiglie che piangono dei morti e che finora non è stato condannato nessun colpevole. “Ci sono delle inchieste” ammettono “ma sappiamo che non arriveranno a niente e in fondo non è importante. Ciò che importa è che le cose cambino davvero e che tutti questi ragazzi non siano morti per lasciare tutto come prima.” In molti raccontano fatti di soprusi e di repressione che si sommano alle storie ascoltate durante le ultime 48 ore, due giorni intensissimi che sembrano anni.
Di ritorno all’hotel per la notte, nel buio, stanchi e ormai silenziosi, mi chiedo come tutta quella gente abbia potuto sopportare tutto questo per tanto tempo. Ripenso, in risposta, alle parole dell’amico Sadri Khiari, che a conclusione di un libro sulla Tunisia scritto dall’esilio parigino nel 2003 scriveva: “Nessuna analisi politica o sociologica potrà mai dire quando cadrà una dittatura, ma è certo che insieme a ogni dittatura c’è un popolo che disobbedisce e resiste nell’oscurità della vita quotidiana. Nella meschinità dei gesti e dei compromessi individuali, generati da un sistema basato sulla paura e la corruzione, si condensano, poco a poco, delle solidarietà e delle reti di resistenza che esplodono al momento opportuno.”
Ceniamo all’hotel, completamente vuoto, a parte noi tre, e andiamo a letto presto. Il mattino seguente dobbiamo accompagnare Jim a Gabes dove ha appuntamento con alcuni colleghi della BBC in arrivo da Tunisi e con cui partirà per la frontiera libica. Olfa ed io torneremo invece a Tunisi, dove ci attenderà un weekend di morte, attraverso l’autostrada che costeggia il mare.
Passato il weekend, seppelliti i morti, dimesso il primo ministro e convocata un’assemblea costituente, i manifestanti della Kasba sono partiti per tornare nelle loro città: Sidi Bouzid, Redeyef, Moulares, Menzel Bouzaiene e la maggioranza silenziosa si è azzittita. La sensazione è però che qualcosa si sia rotto nella coscienza collettiva e che la Kasba, come occhio e voce di quella coscienza, possa riapparire nuovamente sulla scena.
Mario Sei
Fonte: www.comedonchisciotte.org
9.03.2011
Le foto sono di Ainara Makalilo e di Yara Nardi
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