TRIPOLI, BEL SUOL D'AMORE (DI RITORNO DALLA LIBIA)

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DI FULVIO GRIMALDI
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Il parlamento è costituito fondamentalmente come rappresentante del popolo, ma questo principio è in se stesso non democratico, perchè democrazia significa potere del popolo e non un potere in rappresentanza di esso. L’esistenza stessa di un parlamento significa assenza del popolo. La vera democrazia non può esistere se non con la presenza del popolo stesso e non con la presenza di suoi rappresentanti. I parlamenti, escludendo le masse dall’esercizio del potere e riservandosi a proprio vantaggio la sovranità popolare, sono divenuti una barriera tra il popolo e il potere. Al popolo non resta che la falsa apparenza della democrazia che si manifesta nelle lunghe file di elettori venuti a deporre nelle urne i loro voti. (Muammar Al Gheddafi)I membri della società jamahiriyana sono liberi da ogni tipo d’affitto. La casa appartiene a colui che la abita… La dimora non può essere utilizzata per nuocere alla società. La società jamahiriyana è solidale. Assicura a ognuno una vita degna e prospera e uno stato di salute avanzato fino a giungere alla società delle persone sane. Garantisce la protezione dell’infanzia, della maternità, della vecchiaia e degli invalidi. La società hamahiriyana è la tutrice di coloro che non hanno tutela. L’istruzione e le cognizioni sono diritti naturali di ognuno. Ogni individuo ha il diritto di scegliere la sua istruzione e le cognizioni che gli si confanno senza costrizioni o orientamento imposto… I membri della società jamahiriyana proteggono la Libertà e la difendono ovunque nel mondo. Sostengono gli oppressi e incitano tutti i popoli a far fronte all’ingiustizia, all’oppressione, allo sfruttamento e al colonialismo. Li incoraggiano a combattere l’imperialismo, il razzismo e il fascismo in conformità al principio della lotta collettiva dei popoli contro i nemici della Libertà. (Muammar Al Gheddafi)

E non volete che un tipo così non dovesse venir fatto fuori?

Stavolta ce l’abbiamo fatta ad andare in Libia. E anche a tornare. E il mio non è un plurale majestatis. Anzitutto è un plurale di noi due, io e il mio AK-47, un Kalachnikov che di nome si chiama Sony e, anziché sparare cose, le acchiappa, le incamera perché poi si trasformino in grandine di vetriolo sulle menzogne. In questo caso, su quella planetaria che ha indotto un mondo di boccaloni, panciafichisti, felloni di sinistra, codardi, collusi, ad assistere tra il placido, i finti turbamenti e gli intimi sfrigolii, allo sbranamento di un grande paese, alla satanizzazione di un leader migliore di chiunque altro nel mondo arabo-africano attuale e neanche paragonabile alla feccia che governa la “comunità internazionale”, all’assalto alla vita di un popolo sovrano e libero.
Ma quel noi plurale si riferisce anche, e di più, agli strepitosi cittadini britannici – British Civilians for Peace in Libya – che un po’ scudi umani, un po’ investigatori di fatti veri, un po’ combattenti per la pace, si sono mossi, primi assoluti, a superare il melmoso oceano di complicità, disinformazione, ferocia colonialista e collusione eurocentrica, per stare almeno per un po’ e con dirompente significato simbolico, accanto alle donne, agli uomini, ai ragazzi, ai bambini che resistono e che l’imperialismo, da Obama a Rossanda Rossanda, vuole morituri.

Subito dopo il 17 febbraio, quando i revanscisti del colonialismo sconfitto, mimetizzatisi tra i fiori di pesco della primavera araba, dettero ai propri ascari di Bengasi il segnale per il colpo di Stato contro l’ultimo frutto ancora vivo della prima liberazione, avevo caricato la Sony e chiesto il visto per la Libia, specificando: Tripoli. L’ambasciatore a Roma era uno di quella mezza dozzina di rinnegati e comprati dell’establishment libico che erano passati all’opzione della convenienza: “Se vuoi andare a Bengasi, subito. Per Tripoli non se ne parla”. A Bengasi, tra tagliagole Cia di Al Qaida, reduci delle missioni Usa in Bosnia, Afghanistan, Cecenia e mille altri luoghi delle provocazioni imperialiste, decerebrati o furbastri monarchici, terroristi dei servizi occidentali, mercenari egiziani, fuorusciti libici rientrati dopo decenni di addestramento e cospirazione Cia e MI6, sguazzava buona parte della consanguinea stampa occidentale.

Aureolati di democraticismo e di vituperio per la tirannide, pendenti esclusivamente dalle labbra di chi, inetto per difetto di motivazione sul campo di battaglia, andava rastrellando, torturando e uccidendo in massa poveri operai africani immigrati, presentati ai media come “mercenari di Gheddafi” e talquali posti alla mercé del disdoro mondiale, noi avevamo squallidi pifferai, svergognati perfino dai colleghi di destra anglosassoni. Abili con le foglie di fico, costoro raccontavano anche le ombre nere dilaganti sui “giovani rivoluzionari” di Bengasi.
Superavano le vette giornalistiche dei cinesettimanali “Luce” al seguito del conquistatore Graziani e si coprivano di gloria umanitario-democratica, personaggi come Lucia Goracci (TG3), e passi, o come i “sinistri” Stefano Liberti e, ora, perfino Michele Giorgio, corrispondente del “manifesto”, che già con i due primi reportage dall’avamposto coloniale Nato, esaltato come culla di una nuova “società civile” (solito ricettacolo di ogni schifezza collaborazionista, bulimica di pingue democrazia individuale), ha saputo disintegrare la reputazione guadagnata anni di coraggioso lavoro in Palestina. A stare con loro c’era da mettersi una tuta che neanche a Fukushima.

Aggregatomi ai 13 britannici della Spedizione di pace e di verifica dei fatti, passato dalla Tunisia in Libia e giunto a Tripoli dopo un viaggio notturno di alcune centinaia di chilometri, pesantemente rallentato da numerosissimi posti di blocco con militari e giovani civili, volontari per il controllo e la difesa di un territorio infestato da infiltrati e provocatori, ecco infranto e oltrepassato lo specchio deformante nel quale i Fuehrer di una globalizzazione della catastrofe umana, qui mai passata, riflettono la loro impostura, pirateria, necrofagia.
Si, a Tripoli e per una buona parte della Libia libera siamo stati accompagnati da giovani funzionari del governo. Ma diversamente dagli embedded ontologici di Bengasi, dei quali solo qualche inviato britannico e statunitense ha la residua onestà di ammettere l’impossibilità di muoversi se non sotto il ferreo controllo degli sgherri del golpe, qui noi avevamo la libertà di recarci ovunque desideravamo, fermarci dove ci pareva opportuno, parlare con qualunque interlocutore scegliessimo per strada, nei mercati, nelle case, scuole, ospedali. In una conferenza stampa conclusiva, nell’Hotel Rixos, lussuoso usbergo della stampa estera, i quattro gatti residui della manipolazione mediatica britannica, berciato contro i dati da noi acquisiti e che ridicolizzavano gli stereotipi della propaganda colonialista, lanciavano alti lai contro chi ne impediva la libera circolazione. In guerra, con i bombardieri F-16 e i missili Tomahawk sulla testa e la quasi universale doppia qualifica di giornalisti e agenti dell’aggressione, questi tromboni di Murdoch e della BBC pretendevano di muoversi come fossero lì per un reportage sul futuro turistico del paese. Ricordo Belgrado sotto le bombe. La circolazione assolutamente libera consentitaci dall’ eccessivamente generoso “dittatore” Milosevic aveva messo sedicenti giornalisti e pacifisti in grado di comunicare ad Aviano quali fossero gli obiettivi più succulenti da colpire.

Non c’è stato giorno in cui la ‘Coalizione dei volenterosi’, passata da ‘Alba dell’Odissea’ a ‘Protettore Unificato’, non bombardasse Tripoli allo scopo di “salvare civili” dai massacri di Gheddafi. Soprattutto di notte, quando il nostro sonno, durissimo dopo giornate spremute allo spasimo per raggranellare fatti e verità, non ci faceva accorgere di nulla e i resoconti di chi aveva vegliato e quelli delle tv internazionali (tutte, anche le più nemiche e bugiarde) ci stupivano con gli elenchi delle distruzioni e dei civili salvati dagli eccidi di Gheddafi grazie al loro smembramento per mano Nato. La notte del rientro, quando i bollettini degli embedded asserivano una frontiera con la Tunisia in mano ai ribelli, mentre era tranquillamente presidiata da un popolo in armi, via dal paese mi accompagnavano gli spettri dei 7 civili appena trucidati dal “Protettore Unificato” nel sobborgo tripolino di Khellat Al Ferjan. Invocavano che, fuori, al mondo intorpidito dal rassicurante inganno umanitario, si dicesse che loro, almeno loro che avevano contezza delle loro ossa incenerite, erano stati salvati per il paradiso di Allah da un Rafale di Sarkozy. Erano donne e bambini.

Abbiamo incontrato il popolo libico. Studenti, donne, contadini, pastori, capitribù, operai, avvocati, magistrati, mercanti, ambulanti, ministri, portavoce governativi, un popolo di militanti della libertà. Per ogni dove, nei punti strategici di città e campagne, aggregazioni di volontari, giovani e meno giovani, spesso ragazze, tutti armati, concentrati in piccole tendopoli a presidio del territorio e a sfida di scudo umano. Al nostro passaggio, non preannunciato perché erratico a seconda delle nostre richieste, spontaneamente e con scatenata esuberanza si improvvisavano manifestazioni di determinazione alla resistenza, di vituperio per gli aggressori, di amore per Gheddafi e per la patria da lui costruita. 42 anni alla guida della Libia: scandalo antidemocratico! La dittatura borghese capitalista, quella che si innesta a partire dalla manipolazione delle menti fin da bambini, preferisce la propria continuità, altroché quarantennale, espressa da un pensiero unico ma con facce diverse. Allah – Muammar – ua Libia- ua bas, lo slogan con cui una stragrande maggioranza di popolo, confermata tale anche dagli esiti militari, impegna la vita per i suoi tre valori costitutivi della Resistenza (“Dio, Gheddafi, Libia e basta”), è diventato la canzone d’amore di questo popolo, la colonna sonora di una tragedia che si è già trasformata in epica. “Tripoli, bel suol d’amore”, sottratta a camicie nere e ascari, oggi ha questo significato. Un amore che ride sui volti e vibra tra case, tende, scuole, deserto. Un amore che riesce a far volare la vita oltre la una domanda paralizzante che, nella sua infinita accoratezza, ci ha davvero sfregiato il cuore: “Perché ci fanno questo?” Al centro della domanda, l’Italia del baciamano, l’Italia delle colpe, l’Italia beneficiata. L’Italia i cui Tornado guidano i bombardieri sui beni e sui corpi dei figli dei 600mila massacrati da Graziani. L’Italia, i cui ratti di regime, con il pugnale del colpo alla spalla ancora sanguinante in mano, vanno a elemosinare petrolio e business ai gangster di Bengasi.

“Perché ce lo fanno?” Ve lo fanno, fratelli libici, perché non vi siete lasciati globalizzare, perché all’élite di tagliagole che tiranneggia il mondo e ne succhia il midollo non avete lasciato campo libero per depredarvi impunemente. Perché avete conversato e trattato con gli altri alle vostre condizioni, condizioni che non dovevano compromettere quello che per l’ONU era stato il più alto Indice di Sviluppo Umano del continente e il primato nel rispetto dei diritti umani: istruzione, sanità, casa, lavoro, anziani, maternità, infanzia, donne.
Perché avete tenuto fuori dalle palle chi veniva con la pretesa di sostituire la dittatura dei consigli d’amministrazione alla vostra forma di democrazia socialista. Perché siete quelli che ai fratelli africani e di altre parti non garantivano CIE e affini, discriminazione, esclusione, razzismo, ma lavoro e dignità. A due milioni e mezzo su sei milioni di autoctoni. I quattro scalzacani felloni che si sono venduti alla schiavitù politica, economica, sociale e morale dell’imperialismo e che oggi “governano” a Bengasi, sono i transfughi della Cia, già spiaggiati a Washington e Londra da decenni per coltivare la presa della Libia da parte del “libero mercato”.
E sono i due ex-ministri che oggi si fingono statisti del Consiglio di Transizione che, a partire dal 2005, entrarono in attrito con Gheddafi e si videro smantellare i progetti di libero mercato, liberalizzazione, privatizzazione, globalizzazione della miseria, fine dello Stato sociale, per i quali avevano lungamente brigato con governi e multinazionali. Un attrito che nel 2010 divenne scontro aperto tra la fazione “neoliberista” e i fedeli alla linea del socialismo come da Libro Verde.

Bab el Aziza, in piena capitale, era la casa di Gheddafi. Fu bombardata da Reagan nel 1986, 100 vittime innocenti, tra cui la piccola figlia adottiva del leader. Oggi è un rudere massiccio, con urlanti ancora tutti i segni della barbarie occidentale.
Allora si doveva punire un paese che, guidato da chi ne aveva capeggiato rivoluzione, riscatto dal colonialismo italiano e dall’asservimento a Londra, inserimento nella comunità dei popoli sovrani e delle società giuste, si era costruito in nazione, riferimento, dopo Nasser e con algerini, iracheni, siriani e palestinesi, per il rinascente movimento per l’unità araba. Abbattuto Saddam, relativamente normalizzata l’Algeria, minata da tradimenti la resistenza palestinese, accerchiata la Siria, isolato, bombardato, squartato il Sudan, consolidate con le armi e la repressione le oscene satrapie arabe vassalle, la Libia aveva volto lo sguardo al suo retroterra geografico e, già sostenitrice fattiva dei processi di liberazione nel sud del continente, con l’Unione Africana era diventata il motore del rifiuto alla nuova colonizzazione.
Ma Bab el Aziza è stata nuovamente bombardata, ridotto in macerie il nuovo edificio, colpiti i quartieri tutt’intorno. Se non fosse stato per un grande uomo, Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli e vicario apostolico per la Libia, non avremmo saputo di neanche un morto dell’apocalisse scatenata sulla Libia, a partire dai 40 civili qui uccisi nell’Alba dell’Odissea.

Abbiamo visto e frequentato gli scudi umani di Bab el Aziza, quelli ‘comandati lì da Gheddafi’, quasi che l’uomo più amato della Libia avesse adottato il modello israeliano dei ragazzi legati ai carri armati in marcia su Gaza. Lo stesso transfert usato per attribuire a Gheddafi, forte della militanza di un intero popolo, quel mercenariato che è invece praticato, con i killer seriali della Blackwater, dagli esportatori di democrazia. In Libia non c’è bisogno di mercenari.
Un popolo in armi fa sei mesi di servizio di leva, un mese all’anno di aggiornamento e addestra i suoi ragazzi e le sue giovani, fin dalle scuole, alla difesa della patria. C’erano anche questi nella grande spianata di Bab el Aziza, sotto le palme e tra i ruderi dei palazzi devastati. E c’erano coloro che erano venuti da lontano, dal deserto, con i loro tamburi, nelle loro tende da settimane, c’erano donne a migliaia, di ogni età, ragazze velate accanto ad adolescenti in blu jeans, la gente dei sobborghi, professionisti, studenti, nomadi delle cabile.

A sfidare i serial killer del cielo notte dopo notte, un’immensa folla tumultuante, un grande palco per le canzoni di lotta e d’amore, per gli interventi e gli appelli, ogni tanto un’esplosione di slogan, foto di Muammar innalzate da sorridenti matrone con i bimbetti in braccio. Dappertutto i concatenamenti in danze antiche. Devo riandare ai primi tempi della rivoluzione bolivariana, attorno a Hugo Chavez, per ritrovare un simile concentrato di forza, di positività, di entusiasmo, di determinazione, costi quel che costi.

La rivelazione più clamorosa e inconfutabile delle criminali frodi inflitte all’opinione pubblica internazionale a giustificazione di colpo di Stato e aggressione Nato, l’abbiamo avuta nelle cittadine sul mare della periferia tripolina; Suk Jamal, Tajura, Fajlun. Qui, secondo i cialtroni dei media e i delinquenti della guerra, c’era stata la pistola fumante che rendeva inevitabile e improcrastinabile l’intervento umanitario a difesa dei civili sterminati da Gheddafi.
Qui ci sarebbero state rivolte di massa, soppresse nel sangue dal ‘pazzo sanguinario’. Sono centri di decine di migliaia di abitanti, sfolgoranti di luci, fervide di attività, con spiagge sconfinate a orlare un mare incontaminato, miraggio di turisti che i villaggi turistici delle tirannie petrolifere rischiavano di perdere a favore di luoghi più raggiungibili, meno artificiali e inquinati dalla corruzione e dagli antiestetismi del vacanzierato occidentale.

Con il plusvalore dell’accoglienza di genti autentiche, ospitali, incredibilmente cordiali e rispettose. Non è solo il petrolio e la porta all’Africa che ha solleticato il tradimento interventista dei fratelli monarchi del Golfo. Abbiamo percorso questi luoghi in lungo e in largo, a nostro piacimento, fermandoci presso chi volevamo, girando per i mercati della ricca agricoltura sviluppata nei decenni del recupero di acque sotterranee con acqua a tutti, entrando nelle case, ascoltando i racconti dei congiunti delle vittime, riprendendo le distruzioni di abitazioni.

C’era la nonna in lacrime per la morte del nipote sedicenne che andava in moschea, c’era l’ambulante che riparava scarpe, il bancarellista delle melanzane, la signora con l’hijab, il dentista di ritorno dalla nottata a Bab el Aziz, l’omino del caffè in jalabiya, l’agricoltore la cui fattoria era stata devastata da missili e da raffiche ad personam dal cielo, i capi delle tribù locali che, nella figura, nell’espressione, nelle vesti, ricordavano Omar al Mukhtar, l’eroe della trentennale resistenza antitaliana, impiccato per ordine di Mussolini.
A Tajura, Fajlun, Suk Jamal non c’è mai stata rivolta, mai un solo colpo sparato dalle forze lealiste. Tutto inventato. Come le armi di distruzione di massa e l’eccidio dei curdi con i gas in Iraq, come la pulizia etnica, Sebrenica, le bombe al mercato di Sarajevo e la strage di Razac in Jugoslavia, come Osama in Afghanistan, come l’11 settembre di Al Qaida… Neanche un foro di pallottola a prova di uno scontro tra ribelli ed esercito, solo crateri e impatti dal cielo “no-fly”.
Ci raccontavano in tanti come in quei giorni di metà marzo, quando nel mondo si blaterava di “Gheddafi che uccide il suo popolo a Tajura, Fajlun e Suk Jamal”, da ogni dove amici e parenti terrificati chiamavano per assicurarsi di una sopravvivenza che minacciava di annegare nella mattanza gheddafiana.
E, stupefatti, gli veniva risposto che non era successo niente, che tutto era calmo. La stessa risposta non l’avrebbero più potuta dare allorché, pochi giorni dopo, a salvarli dalla carneficina, giunsero dal cielo i primi 110 missili all’uranio, ormai divenuti migliaia con la media di 150 incursioni al giorno, e le raffiche dei 6000 colpi al minuto, tutti all’uranio, dai C-10 e C-130. Armi di distruzione di massa da far operare per secoli su popoli in eccesso.

E se ci vanno di mezzo anche i mercenari di Bengasi, chissenefrega. Domani in Libia, come in Iraq, o Afghanistan, non ci saranno che gli scagnozzi spendibili dell’élite.
Nel profondo Sud, tra dune rosse e distese coltivate, a Beni Walid, ci accolgono i capi della più grande tribù libica, i Worfalla, schierata integralmente con il governo legittimo, come tutte le altre tranne qualche defezione in Cirenaica e di minoranze sparse. Superano il milione e mezzo, quasi un quinto della popolazione e si dicono pronti alla difesa all’ultimo sangue, fosse anche, come probabilmente sarà, in una guerra di lunga durata.
Ne hanno la memoria, la coscienza e la determinazione, ereditate dai trent’anni di indomata lotta al colonizzatore giolittiano e mussoliniano e dalla rivolta contro il monarchico fantoccio insediato da Churchill, il cui erede ora, da Londra, conta sulla restaurazione vaticinata dalle bandiere “rivoluzionarie” dei rivoltosi. Il nostro pranzo e poi il confronto con gli anziani dei Worfalla richiama qualcosa tra lo sgranato repertorio dei cinegiornali Luce e la trasposizione cinematografica della vita e lotta di Omar al Mukhtar nel “Leone del deserto”.

Sui cuscini lungo le pareti della grande aula magna dell’Istituto di Alta Tecnologia Elettronica, tutte armate di fucile le figure ieratiche di antichi beduini, dai volti come scolpiti nel legno dei loro ulivi, ci accolgono con la dignità dei forti e dei consapevoli, quella che non si separa dal calore e dall’affettività. Immaginiamo un raffronto con una parata di notabili alla Montecitorio. Ed è ancora un racconto di resistenza, di inimmaginabile e sofferto stupore per “l’amica Italia”, di non prevalebunt all’indirizzo degli avvoltoi che si affacciano sulla Libia e si vorrebbero lanciare sulle sue spoglie.

Qualcuno, anziano, ricorda con affetto un maestro italiano dell’epoca coloniale. Lo fa per gentilezza, per attenuarci la vergogna che abbiamo espresso sui crimini del nostro paese. Un connazionale imbecille se ne fa forte per cianciare di colonialismo italico benefico, di “italiani brava gente”. Un terzo del popolo libico ucciso nei lager e con i gas lo mette a tacere.

Ci portano nella sede della locale squadra di calcio e sulle bocche saltellano i nomi di Baggio, Totti, Cassano, della Roma, della Juventus. Ci regalano le maglie della squadra, seconda in serie B. I giocatori si son fatti attivisti del soccorso ai profughi di Misurata, città martire dell’ostinazione colonialista degli intrusi e dei loro ausiliari locali.
Di là dal mare non si parla che di civili sparati dai miliziani di Gheddafi. Ma non è da costoro che sono fuggite queste 400 famiglie di Misurata. Piuttosto dalle incessanti incursioni a casaccio sulla città e dai barbuti salafiti che dagli umanitari giunti nel porto ricevono soccorsi sotto forma di lanciarazzi e mortai. Negli spogliatoi della squadra si accumulano i viveri e il vestiario portati ai profughi dagli abitanti della zona.

Scuole primarie, scuole superiori, scuole con ragazzi e con ragazze. Non perdono un’ora di lezione, neanche sotto la gragnuola di bombe, i grandi sono in divisa, hanno tutti fatto un corso di addestramento alla difesa, sanno tutti maneggiare armi leggere e pesanti. Curiosamente, in ogni scuola è una donna, anche abbastanza matura, che tiene questi corsi. Non ce n’è uno che non si dica pronto a difendere il paese. “Che scendano a terra e se la vedranno con tutto un popolo”.
Lo sanno cosa li aspetta, quelli della neocostituita truppa d’invasione europea, Eufor, che si apprestano ad assicurare “corridoi umanitari” per l’occupazione militare e lo squartamento della Libia? La Russa ha pronto i tricolori da bara e il raglio da compianto per nuovi nostrani “difensori della pace” e “guardiani contro il terrorismo” che rientrano con i piedi avanti? All’uscita, nel tripudio delle scolaresche, nella loro foga giubilante, ma anche disperata, per convincerci della verità, saettano dalla canna dell’istruttrice raffiche di colpi. Tanti punti esclamativi al cielo.

Anche nell’incontro con il viceministro degli esteri, Khaled Khaim, con i medici dell’Ospedale, con competenti giornalisti dalla sapienza geopolitica e giuridica al paragone della quale tanti dei nostri fanno la figura dei peracottai, con i rappresentanti delle associazioni nazionali dei magistrati e degli avvocati, con il brillante e popolarissimo portavoce ufficiale del governo, Mussa Ibrahim, il messaggio che ci viene chiesto di universalizzare è quello della pace, del dialogo, della conciliazione.
Perché non arriva ancora quella maledetta commissione d’indagine, dell’ONU o di qualsiasi gruppo di buona volontà, ad accertarsi di vittime vere e vittime false, di ragioni buone e di ragioni cattive e di cosa vuole la gente? Quella commissione che, sventrando la muraglia di bugie dei media, avesse la decenza giuridica primordiale di accertare fatti che si vorrebbero meritevoli di punizioni letali. Di Gheddafi nella zona oscura del pianeta si riportano solo “le minacce”.

Alcuni dei più potenti eserciti del mondo minacciano e poi attaccano un paese sovrano, facendosi scudo delle truculente quanto grottesche accuse di una banda di vendipatria prezzolati, ma sarebbe Gheddafi che ci minaccia, magari lasciando andare ai nostri sacri e incontaminati lidi coloro cui aveva dato lavoro e benessere e che dalla guerra Nato sono stati trasformati in animali da soma del libero mercato. A Tajura abbiamo incontrato un capannello di migranti dai paesi sub sahariani. Non erano mai stati rinchiusi in lager, avevano perso il lavoro per la chiusura delle imprese nazionali ed estere, spesso cinesi, aspettavano un modo per fuggire alla guerra, chissà dove.
Erano preoccupati e impauriti. Serpeggiavano tra la gente, riferivano, sentimenti diversi dalla cordialità e fraternità con cui erano stati accolti. Frutto dei traumi di chi si sente improvvisamente bandito, diffamato, osteggiato, isolato dal mondo e perfino dai governi di questi migranti, rimasti, quale impassibile, quale complice, davanti al manifesto progetto di distruggere un paese pacifico e libero.

Padre Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli, è stata l’unica voce, riportata con volume assai basso dai media falsi e bugiardi e solo perché prete e cattolico e vicario del papa, che ci ha parlato delle stragi di civili per mano nostra, occidentale. Testa quadrata da contadino della montagna, occhi vispi e sorridenti, eloquio tutto fuorché profetico, ma altrettanto appassionato, ci accoglie nel giardino della sua grande cattedrale, punteggiata da tanti San Francesco.
Pochi giorni prima era successo un fatto senza precedenti: dal rappresentante della chiesa cattolica, vicario di un papa che se non aveva benedetto il crimine di guerra, neanche si era espresso in difesa della Libia, si erano recate decine di donne musulmane a chiedergli un intervento per la pace, a fidarsi di lui perché raccontasse al mondo una verità, un’afflizione, una speranza, che tutte venivano calpestate dai trombettieri dei “cani di guerra”.

Martinelli ci conferma una volta di più che i conclamati massacri di Gheddafi non c’erano mai stati, che giornalmente gli veniva dato conto degli sforzi dell’esercito di non coinvolgere civili nella battaglia e che proprio questo determinava ritardi e difficoltà nella riconquista dei centri occupati dai ribelli. I morti a Misurata erano 285 in oltre un mese di scontri, dei quali solo pochissime donne. In attacchi indiscriminati su centri abitati la media delle vittime donne è statisticamente il 50%.
Non avanzava cautele curiali, questo sacerdote innamorato del suo popolo, cristiano o islamico che fosse e da 40 anni al suo servizio, nel descriverci Gheddafi e la sua Libia. Un paese che non aveva accettato di sottomettersi, che si era impegnato per l’unità dei popoli, fuori da ogni manomissione e dominio esterni, che aveva garantito a tutti benessere, sicurezza, dignità e una capillare partecipazione ai processi decisionali.
Gheddafi avrà potuto fare errori, magari attribuibili a un entourage non ben selezionato, ma nessuno poteva negargli il riconoscimento di aver cacciato reazione e reazionari, colonialisti e neocolonialisti e di essersi dedicato al suo popolo con una generosità e un’intelligenza che nella regione dei servi e proconsoli dell’imperialismo non ha il più lontano paragone. Come non ce l’ha, aggiungo, con proprio nessuno dei democratici capi-regime della “comunità internazionale”. E questo è quanto basta per sapere dove schierarsi.

L’Unione Sudafricana è intervenuta con una concreto e credibile piano di pace. Così hanno sollecitato fin dall’inizio i governi non contaminati dell’America Latina. Così hanno ribadito con la forza del loro peso economico e demografico, i BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Gheddafi ha proposto un cessate il fuoco supervisionato da osservatori internazionali, corridoi umanitari veri, elezioni per verificare la volontà del popolo.
Voci, proposte, della razionalità, della giustizia, della pace, che non hanno neanche lambito le froge dei cavalli dell’apocalisse. La voce dell’altra parte è una non-voce. Anche per Rossana Rossanda. Hanno risposto insistendo sulla rimozione di Gheddafi, su un suo esilio là dove potrà più agevolmente raggiungerlo il solito sicario del Mossad.

“Non si illudano i fautori della rinuncia di Gheddafi e del suo esilio. Un leader non può rinunciare quando è un popolo a chiedergli di restare. Ma, a parte questo, Gheddafi non è tipo da arrendersi, è un beduino, combatterà fino alla morte”. Con lui, la Libia, vedrete. Il piccolo prete dalla testa quadrata di contadino e dagli occhi sorridenti ha congedato un gruppo di visitatori in lacrime.

Il resto più in là, soprattutto nel nuovo documentario “MALEDETTA PRIMAVERA – Arabi tra rivoluzione e controrivoluzione” in uscita a fine maggio.

Fulvio Grimaldi
Fonte: http://fulviogrimaldi.blogspot.com
Link: http://fulviogrimaldi.blogspot.com/2011/04/tripoli-bel-suol-damore.html
22.04.2011

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