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La Redazione

 

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Tre in uno: jazzista, scrittore e attivista (Ia Parte)

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A cura di Truman
Il 11 Febbraio 2006
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La Bellezza come Arma Politica

(una conversazione con Gilad Atzmon)
di Manuel Talens

L’autostrada spagnola A7 verso nord gode normalmente di un traffico
scorrevole ed è facile da percorrere, ma il giorno 27 dell’ultimo
agosto ha messo veramente alla prova la mia pazienza, perché avevo un
incontro con Gilad Atzmon nella zona dei Pirenei francesi e la
valanga di macchine dei vacanzieri europei di rientro dalle ferie ha
più che raddoppiato il traffico quindi, anziché arrivare alle 2 di
pomeriggio, sono arrivato all’appuntamento stringendogli le mani
quando il sole era già scomparso. Fortunatamente, mi ha aspettato.
Nato in Israele, Gilad Atzmon viene cresciuto come ebreo laico.
Svolge il servizio militare obbligatorio ai tempi della Guerra del
Libano (1982), un evento che lo porta a una posizione di scetticismo
sul Sionismo e sulla politica israeliana. Dieci anni dopo fugge dal
suo paese natio con un biglietto di sola andata. In Inghilterra
studia Filosofia, ma dopo la laurea sceglie di dedicarsi alla musica
anziché dedicarsi alla carriera accademica. Ora vive a Londra e si
considera in esilio.Prima del nostro incontro eravamo già in contatto attraverso e-mail
occasionali, e da allora ho cominciato a tradurre in spagnolo alcuni
tra gli articoli che produce incessantemente sul suo sito web
(www.gilad.co.uk) contro gli apparati istituzionali dello stato di
Israele. Mi ha sempre colpito per il modo strutturato intellettuale
che utilizza nel criticare quella che considera la politica razzista
dei sionisti, mettendo la sua arte al servizio di una causa: la
liberazione del popolo palestinese. Se ho accennato alla sua arte è
semplicemente perché Atzmon, prima di ogni altra cosa nella vita, è
un artista che fa uso dei suoi tanti strumenti (sassofono,
clarinetto, flauto e.. computer portatile) per suonare la musica,
per scrivere dei libri e pubblicare articoli sui giornali. Il suo
penultimo album, EXILE, ha ricevuto il premio BBC 2003 come “Migliore
album Jazz dell’anno” e ne ha appena fatto un altro, musiK, entrambi
registrati con il suo gruppo, una banda multietnica che si chiama The
Orient House Ensemble. Ha anche pubblicato due romanzi (A guide to
the Perplexed – Una guida per il perplesso -, tradotta in 17 lingue,
e My One and Only Love – Il mio Solo e Unico Amore). Quello che segue
fa parte di un lungo scambio che abbiamo avuto fino alle prime luci
dell’alba, quando lui ha preso la strada per Roma e io me ne sono
ritornato verso sud. Segno dei tempi… la nostra conversazione è poi
proseguita via chat.

Manuel Talens: Lei chi è, Signor Atzmon?

Gilad Atzmon: Buona domanda, probabilmente io sono l’ultimo a
saperlo. Suppongo di essere un musicista jazz convinto di dovermi
reinventare. E per reinventarmi devo innanzitutto mettermi a
confronto con cose che mi riguardano personalmente. Una buona domanda
di partenza è: chi sono io? Molti dei miei scritti e delle mie
critiche sul sionismo e sull’economia globale sono alimentati dalla
mio tentativo di comprendere chi io sono e mettermi in discussione.

MT: Giochiamo un po’ allo psicanalista e al psicanalizzato: deduco
che sei lei ci tiene a reinventarsi, il motivo è che non è contento
con ciò che lei è attualmente. Mi dica allora per piacere se le causa
qualche problema il fatto di essere un ebreo.

GA: Io dico sempre che le interviste mi permettono di risparmiare un
bel po’ di soldi che invece spenderei andando da uno strizzacervelli.
Sa, penso che il bisogno di reinventare me stesso non sia
necessariamente una fuga. Più che altro è una ricerca di un’essenza
reale. In effetti, il fatto di reinventarsi trae il suo potere da un
chiaro assalto verso il proprio ego. Inizi a giocare quando smetti di
pensare. Per usare una terminologia lacaniana si potrebbe dire: “Tu
sei dove non pensi di essere”. Sembrerà pure divertente, ma ora mi
rendo conto che è il mio amore per il jazz che mi ha reso sempre più
critico verso l’identità ebraica il sionismo. All’età di 18 anni,
quando si pensava che mi sarei convertito in un convinto soldato
suprematista giudeo, mi innamorai di Coltrane e di Bird. Fu allora
che mi resi conto che la cultura che mi ispira (afroamericana) non
aveva niente a che fare con la cultura per la quale sembravo
destinato a lottare.

MT: Ma questo non risponde alla mia domanda, almeno non con
l’obiettivo che ho io in mente. Mi permetta di ricordarle che questa
conversazione sarà rivolta innanzitutto a un pubblico di lettori
gentili – cioé non ebrei – di lingua spagnola e che non sono
necessariamente informati sulle idiosincrasie del popolo ebraico. Ho
bisogno di sapere se lei si sente a suo agio sotto la sua pelle in
quanto ebreo – considerando il fatto che nessuno sceglie le proprie
origini-, ed è importante che io lo sappia, visto che alcune delle
mie domande successive tratteranno questioni piuttosto delicate, come
l’antisemitismo e l’odio che alcuni ebrei riversano su se stessi.
Dunque le riformulo: le causa qualche problema il fatto di essere
ebreo?

GA: Proprio no, perché io non mi considero un ebreo. Ciò detto,
simpatizzo con gli ebrei credenti così come simpatizzo con qualunque
gruppo e credo religioso; tuttavia simpatizzo ben di meno con
l’identità laica ebraica. Sostengo che, una volta che spogliate la
“giudeità” del suo contenuto spirituale, ciò che rimane non è che
mero razzismo. Vede.. io non sono né un ebreo religioso, né un ebreo
laico, e quindi non posso considerarmi un ebreo.

MT: Bene.. non mi attendevo una dichiarazione così diretta. Ad esser
sinceri, se accettiamo il concetto semiotico secondo cui il
linguaggio rappresenta il mondo interiore nel quale viviamo, un mondo
che non è mai neutrale e che da’ una forma al nostro modo di pensare,
dopo averla vista e averla sentita parlare ebraico con sua moglie e i
suoi figli mi sono aspettato che si sentisse a suo agio – seppur
critico, naturalmente – all’interno dell’ambiente linguistico nel
quale lei è cresciuto. Non dimentichiamo che l’ebreo è una lingua
franca più o meno snazionalizzata come l’inglese o lo spagnolo, che
intanto però è stata resuscitata degli ebrei israeliani. E dunque, se
lei è stato cresciuto con un’educazione ebrea laica ma ora disconosce
questa educazione, ora che cosa è? Un uomo acculturato?

GA: Di fatto, mi considero come un ebreo che parla palestinese. Io
parlo l’ebreo, e la mia patria è la Palestina. A differenza di
Israele, che non è che un apparato politico razzista e nazionalista,
la Palestina fa parte della geografia. La Palestina è autentica e
genuina; Israele invece è artificiale e come tale viene imposta.
Vede, quando sento un po’ di nostalgia, vado in un ristorante
libanese piuttosto che in una gastronomia falafel israeliana. E
guardi, non ho proprio alcuna difficoltà a dire che sono stato in
grado di entrare, di farmi assimilare in un qualunque gruppo sociale
o nazionale, e tra l’altro la cosa non mi coinvolge più di tanto. Il
mio inglese non è perfetto e il mio accento svela facilmente quali
sono le mie origini nel giro di pochi secondi. Ho imparato a
conviverci. Sono nato e cresciuto in un certo posto e non posso
proprio farci niente per questo. E tuttavia, continuo a pensare che
la compassione e l’empatia siano delle qualità umane universali. Per
me, dare un taglio con le mie radici ebraiche significa diventare un
essere che sente, che percepisce empatia. Ecco ciò a cui tendo, e
questo percorso mi piace.

MT: Ora mi dica per quale motivo sostiene che l’ebraismo laico
rappresenta una mera forma di razzismo. Ci sono milioni di persone
oneste di estrazione ebraica che non sono per nulla religiose e
nonostante ciò si sentono e si considerano ebree, quindi sono davvero
sorpreso di questa sua asserzione. Può spiegarmela? E le chiedo anche
di spiegare a chiare parole cosa è il sionismo: tenga conto che si
sta rivolgendo a dei “gentili” occidentali, i cui geni culturali – i
cosiddetti memi – sono cristiani, e che possono sentirsi un po’
disorientati quando sentono parlare di questioni quali il sionismo,
il semitismo oppure il loro contrario, come l’antisionismo o
l’antisemitismo.

GA: Va bene, devo chiarire qualcosa. Non è certo l’origine ebraica di
per sé che rende automaticamente razzisti, ma il fatto di sostenere
l’identità laica ebraica che “potrebbe” portare ad esserlo. Come
dicevo prima.. una volta dopo aver rimosso l’identità religiosa
dall’ebraismo, rimane ancora un senso di appartenenza di sangue
all’ebraismo. E infatti il sionismo è una concezione nazionalista che
connota l’essere ebrei a un’appartenenza razziale ben più che a un
credo religioso. Come tale, il sionismo non è altro che pensare che
Sion (la Palestina) sia la terra madre del popolo ebraico. Questa
bizzarra convinzione si basa fondamentalmente su una promessa
biblica. In altri termini, i sionisti interpretano un testo
spirituale (la Bibbia) come una specie di catasto territoriale. Ma a
questo punto ci si può chiedere: cosa è il popolo ebraico? Secondo
una prospettiva sionista, gli ebrei sono quelli che si ritrovano a
far parte della razza ebraica. Di fatto, il sionismo precede il
nazismo da ben più tempo. I primi sionisti parlavano di eugenetica
ebraica di sangue e di razza quando Hitler era ancora in fasce. Il
problema è che, mentre il sionismo è nato come un movimento politico
esoterico marginale, e veniva aspramente criticato da molte scuole di
pensiero ideologiche e religiose ebraiche, ora invece viene
propagandato come voce ufficiale del popolo ebraico. Mi sento di
sostenere che molti ebrei, e fra questi includo anche i cosiddetti
“ebrei antisionisti”, di fatto non sono altro che dei criptosionisti.
In uno dei miei ultimi articoli (http://www.gilad.co.uk/html%20files/
3rd.html) sostengo che quelli che si definiscono ebrei potrebbero
essere essenzialmente suddivisi in tre categorie principali: 1.
Quelli che seguono il giudaismo; 2. Quelli che si considerano come
degli esseri umani e che si ritrovano ad essere di origine ebraica; e
3. Coloro che considerano la loro ebraicità ben al di sopra di tutti
gli altri tratti comuni che li caratterizzano. Di certo non ho nulla
di particolare da commentare sulle prime due categorie, ma la terza è
alquanto problematica. La terza categoria di ebrei può far parte di:
ebrei che vivono in America (anziché considerarsi americani ai quali
capita di essere di origine ebraica), o ebrei che suonano il
sassofono (anziché considerarsi dei sassofonisti ai quali capita di
essere ebrei), o ebrei antisionisti (anziché considerarsi degli
antisionisti ai quali capita di essere ebrei). Insomma per la terza
categoria di ebrei, l’appartenenza razziale è una qualità
imprescindibile ed è questa, di fatto, la vera essenza del sionismo.
Quindi, essere nati ebrei è di per sé innocente, evidentemente.. ma
essere ebrei non lo è necessariamente. Tutto dipende dalla categoria
alla quale uno sceglie di appartenere. A meno di non appartenere a
una delle prime due categorie, non è scontato il fatto di potersi
considerare innocenti.

MT: Abbia pazienza se insisto così tanto su questo punto ma.. ci
terrei che fosse molto preciso. Per me, questo “non potersi
considerare automaticamente innocenti” che ha appena asserito, mi
porta a presumere che è tuttavia ancora possibile che chi appartiene
alla terza categoria non sia necessariamente un razzista. È giusto
ciò che deduco?

GA: Questo lo dico giusto per cercare di essere il più corretto
possibile.

MT: Insisto. Lei è disposto ad ammettere la possibilità che questi
ebrei antisionisti, che secondo lei non sono altro che dei
criptosionisti, possono comunque in ogni caso essere degli ottimi
esseri umani, e per nulla razzisti?

GA: Vede, il fatto è che tutti noi siamo, in un modo o nell’altro,
“consapevoli della nostra razza”, ma essere “razzisti” è ben altra
cosa. Sarò molto chiaro su questo punto. Essere degli ebrei laici e
nel contempo considerare la propria ebraicità come una qualità di
primordine è una chiara manifestazione di una tendenza ad essere
razzisti. Molti tra gli ebrei antisionisti non si rendono nemmeno
conto del problema che può comportare l’approccio che loro hanno nei
confronti della loro stessa razza. È per questo che ho sempre cercato
di avere un dialogo con loro, ed invitarli ad esaminare più a fondo
l’errore insito nell’idea che hanno della concezione della loro
razza. Li esorto a mettere da parte il loro approccio esclusivamente
antisionista, e unirsi invece a una causa più universale. Inutile
dirlo, molti ebrei sono già consapevoli di questo. Io penso che se il
sionismo sia categoricamente una cosa sbagliata, allora, per coloro
che lo combattono, la propria appartenenza razziale o etnica diventa
una cosa del tutto secondaria.

MT: Quindi se ho capito bene, i destinatari delle sue critiche
retoriche sono più che altro alcuni ebrei solamente (in particolare,
coloro che appartengono alla terza categoria), e non il popolo
ebraico in quanto gruppo.

GA: La risposta è sì. La mia critica non è rivolta ad un intero
gruppo, anche perché gli ebrei non sono né un gruppo, né un “popolo”.
Ma vale bene la pena di tener da conto che quelli che fanno parte
della terza categoria non sono esattamente uno sparuto gruppo di
individui. Praticamente parlando, la terza categoria forma
un’identità molto solida, con dei piani globali fin troppo chiari.
Penso anche che all’interno di questa terza categoria sia presente
una polarità politica e anche un’opposizione metafisica. Lì si
troveranno sionisti di Brooklyn intransigenti e con idee
colonizzatrici, e si troveranno dei rivoluzionari ebrei marxisti che
vivono a Londra. Non possiamo criticare gli ebrei in quanto gruppo,
perché gli ebrei non fanno parte di un vero e proprio popolo, né
hanno un’identità razziale o un’identità etnica o culturale. Le
differenze culturali che ci sono trai gli ebrei Sefarditi e quelli
Ashkenaziti, per esempio, sono evidenti, ma la cosa va ben oltre. Gli
antropologi ci dicono che gli ebrei non sono una razza: e infatti,
gli studi genetici hanno recentemente dimostrato che mentre gli ebrei
Sefarditi e i Palestinesi hanno origini cananite comuni, gli
Ashkenaziti, o almeno la maggioranza di essi, non hanno niente a che
fare con la terra di Canaan.

MT: Deve scusarmi, ma temo che alcuni lettori potrebbero perdersi se
non espone una panoramica di base tra gli ebrei Sefarditi e quelli
Ashkenaziti.

GA: Tradizionalmente parlando, gli ebrei Sefarditi (Sephardi
significa Spagna, in ebraico) sono associati a quella che viene
contrassegnata come origine orientale (Medio Oriente, Mediterraneo,
Balcani, Arabia, ecc.). Il termine Ashkenazi fa riferimento molto più
largamente ad ebrei di discendenza europea. Ma le cose sono ancora
più complesse: come molti di noi sanno, gli ebrei Ashkenaziti sono di
fatto dei Khazari. I loro antenati si convertirono al giudaismo verso
il IX secolo. Questa cosa è piuttosto imbarazzante per i sionisti,
perché se le cose stanno così.. allora per molti Ashkenazi ebrei, il
termine “casa” fa riferimento alla terra dell’antico regno di Khazar
(che si può localizzare più o meno tra il Mar Caspio e il Mar Nero).
Le loro origini geografiche non hanno proprio niente a che fare con
la Palestina. Tra l’altro questo fa scaturire una domanda piuttosto
interessante di per sé. Io personalmente sono portato a credere che
tutti gli Ashkenaziti siano dei Khazari. Un po’ di tempo fa, Marcel
Charbonnier mi spedì un pezzo che aveva tradotto lui personalmente e
che riguardava le origini Yiddish. In base a questo documento
accademico tradotto che ho ricevuto, la lingua Yiddish in effetti è
strutturata grammaticalmente come quella Khazari. Ma non voglio
scendere così in dettaglio e poi sono ben lungi dall’essere un esperto.

MT: Giusto per curiosità, lei è di estrazione Ashkenazita?

GA: Mio padre è senza dubbio un ebreo Ashkenazita. Quindi suppongo di
essere di estrazione Khazara.

MT: Bene. La prego, continui.

GA: E tuttavia, benché gli ebrei non formino una razza, questa terza
categoria di ebrei è razzialmente motivata. È questa motivazione
razziale a cui io mio oppongo. Come lei ben sa, avendo familiarità
con i miei scritti, io sono l’ultimo a giudicare qualcuno in virtù
della sua appartenenza razziale, e anzi sono totalmente contrario ad
un simile approccio. Non esiste un solo singolo riferimento razziale
nei miei scritti critici. Sostanzialmente, la mia critica sugli ebrei
e sull’ebraicità è mirata all’ “identità” della terza categoria. Come
potrà supporre, la maggioranza degli ebrei tende a flirtare un po’
con la filosofia della terza categoria. I sionisti fanno parte
naturalmente del nucleo centrale della percezione suprematista, ma
gli “ebrei antisionisti” in qualche modo non sono giusto che poco
distanti da questa posizione.

MT: Mi fa piacere che abbia chiarito questo suo pensiero, perché dal
lato mio, in quanto gentile perplesso, è interessante vedere come
lei, Gilad Atzmon – un essere umano al quale capita di essere di
estrazione ebraica, secondo le sue stesse parole, e che confessa la
sua simpatia per gli ebrei religiosi, e che aborrisce il razzismo –
venga amaramente accusato dai sionisti e da degli irriducibili
difensori di Israele di essere un razzista, un antisemita, e
addirittura un ebreo che si auto-disprezza. Questo ha un senso? Non
abbiamo per caso a che fare con una propaganda di guerra che fa uso
del termine “razzista” così, deliberatamente, privandolo del suo
significato originale semantico?

GA: Può essere certo che è deliberato, e pure in modo abile.
L’identità ebraica contemporanea fa riferimento essenzialmente a tre
elementi principali: quello religioso, quello nazionalista e quello
razzista. I sionisti hanno interesse a rendere questi tre elementi il
più possibile confusi tra di loro, qualcosa che si può definire solo
in un modo: frode intellettuale. Una volta che attacchi la loro
politica nazionalista, ti accusano d’essere razzista, una volta che
attacchi le loro tendenze razziste, replicano con il fatto che è
tutto stato per colpa della loro innocente religione. Il modello che
descrivo io e che fa parte della terza categoria è modellato di
proposito, per mettere in evidenza e attaccare il sionismo e tutta
quella ebraicità che si propone come un clan, con una visione del
mondo esclusiva e suprematista.

MT: Ora due quiz: giusto per definire in modo risolutivo questa
questione e sapere come lei si posiziona definitivamente. Mi risponda
solo: sì o no. Lei è un antisemita?

GA: No, certo che no. Di sicuro sostengo che Israele ha
esplicitamente deciso di stabilirsi geograficamente in una zona
geografica e considerarla lo stato del popolo ebraico, e lo ha fatto
a spese di indigeni palestinesi, e ogni atto di guerra contro gli
ebrei può essere configurato in termini di “lotta politica”. Non è
certo per dire che tale atto sia legittimo…

MT: Allora, è antisionista?

GA: Sì, certo. Ma comunque io estendo il significato della
definizione “sionismo”. Per me, ogni ebreo della terza categoria è
sionista oppure criptosionista, poco contano tutte le sue
argomentazioni che tendono a sostenere il contrario. Chiaramente, il
mio punto di vista rappresenta una sfida non da poco per l’identità
ebraica. Ho letto così tante cose scritte su di me, ma per ora non mi
è mai capitato di trovare delle contro-argomentazioni di degno valore.
Anzi inizio a chiedermi a questo punto se ve ne possano essere. Se
non ce ne sono… non è così improbabile che non avrò più molto altro
da dire in merito a questo soggetto. Potrei magari cominciare a
scrivere parlando di fiori e uccelli.

MT: Mentre mi ritrovavo a fare delle ricerche su di lei, prima di
ottenere questa intervista, mi è capitato di trovare un sito web
sionista veramente incredibile, che mostra quella che loro chiamano
“shit list” – letteralmente “lista di merda”, più propriamente “lista
nera” – (una lista di persone ebree che che si autodisprezzano e/o
che minacciano Israele (http://masada2000.org/list-A.html). Sì,
insomma, una vera e propria lista nera di “nemici”. Chiaramente lei
c’è dentro e con delle filippiche non da poco sulla sua persona.
Molte delle opinioni espresse in questo sito sono alquanto offensive
e potrebbero pure essere legalmente perseguibili, ma lasciando
perdere per un istante le implicazioni morali che possono portare con
sé questi elenchi dannosi, o il pericolo fisico che possono
comportare per la vita di così tante persone, ciò su cui voglio porre
ora l’accento è il fatto che lei, insomma, si ritrova a far parte di
un gruppo di persone che si tende a diffamare e per le quali noi
gentili proviamo un profondo rispetto: Woody Allen, Noam Chomsky,
Nadine Gordimer, Naomi Klein e pure anche lo straordinario poeta
Natan Zach. Che mi dice su questo?

GA: Sono felice, e onorato, di essere incluso nella lista di un
gruppo di persone di questo calibro. E tra l’altro penso che questa
“lista nera” sia una splendida vetrina che mette in evidenza le
tattiche utilizzate dai contemporanei che appartengono alla terza
categoria. Ma poi vede, il fatto è che l’assurdità in tutto ciò sta
nel fatto che alcuni ebrei attivisti di sinistra che si ritrovano su
questa lista, loro stessi poi sono così impegnati nel produrre delle
liste simili dove elencano i loro avversari… Il consiglio personale
che posso loro dare è di lasciar perdere la filosofia Kasher e di
unirsi al movimento di solidarietà palestinese sia locale che globale.

MT: Vorrei spiegare ai nostri lettori cosa significa il termine
ebraico “kasher”. Il termine kasher si riferisce a tutto in insieme
di regole da rispettare rigorosamente per la propria alimentazione.
Le regole kasher stabiliscono cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa
è permesso e cosa è vietato mangiare. Originariamente, il termine
vuol dire “genuino”, e determina tutto ciò che rientra nell’ambito
delle regole delle leggi ebraiche connesse alla preparazione del
cibo, ma non si limita a questo: in modo più esteso, è anche sinonimo
di ebraicità. Continuiamo: Louis Althusser coniò il concetto di
“Apparati Istituzionali di Stato”, con ciò intendendo che qualunque
stato, contrapposto ad una massa popolare, impone e perpetua sempre i
suoi interessi di classe per mezzo di strumenti soppressivi, che
vengono creati specificamente con questo scopo, per esempio la
polizia, le leggi.. o il diritto di ricorrere alla violenza o anche
uccidere, e così via. Mi dica prima di tutto se è d’accordo con
questa concezione marxista, e se sì, provare ad applicarla allo stato
di Israele e cercare di individuare dove potrebbe trovarsi il centro
della politica sionista.

GA: Di nuovo, le cose sono sempre un po’ più complesse quando di
parla di Israele e di ebraicità. È chiaro, io sono d’accordo con
Althusser. In pratica, Israele è uno strumento politico che è lì per
servire e sostenere l’egemonia dell’elite ashkenazita. Questo
potrebbe cambiare in un prossimo futuro. Una volta che gli ebrei
sefarditi si rendessero conto che le loro radici storiche con i loro
vicini arabi sono state frantumate per volontà della filosofia
espansionistica ashkenazita, forse Israele potrà chiamarsi – ed
essere – Palestina. Ora, per arrivare alla seconda parte della
domanda: io non so dove sia effettivamente il centro politico
sionista. Forse nel gabinetto governativo di Sharon? A Wall Street?
Forse tutto il business neocon non è che un’altra mossa pragmatica
globale sionista? Ma non penso che sia così importante. Preferisco
guardare al sionismo in termini di “operazione in rete”, dove ogni
singolo membro che ne fa parte è perfettamente consapevole del suo
ruolo e non è a conoscenza di quello degli altri. Se così stanno le
cose, allora Israele e il sionismo dovrebbero essere visti come un
particolare apparato colonialista all’interno di un movimento globale
ben più ampio.

MT: Ora che mi parla di globalizzazione, vorrei avere la sua opinione
sui legami così stretti, quasi coniugali, tra lo stato di Israele e i
programmi imperialisti americani, senza omettere di analizzare,
secondo la sua persona prospettiva, il ruolo messo in atto da questi
legami dalla sinistra israeliana.

GA: Originariamente, Israele nacque in effetti per servire gli
interessi globalizzatori anglo-americani. Di certo ora non è più così.
L’America ora combatte (davvero con scarso successo) le ultime sacche
di resistenza araba (il colonialismo sionista). E in merito al ruolo
della sinistra israeliana all’interno di questa brutale faccenda,
penso si debba essere piuttosto cauti nell’esprimere affermazioni
categoriche. Tradizionalmente, la sinistra israeliana veniva
associata al Partito Democratico Americano. Negli anni ’80, il Likud
stabilì un legame molto stretto con i repubblicani radicali di
destra. Questa collaborazione ora è così forte che l’America è stata
disposta a mandare i propri soldati a morire per gli interessi
strategici di Israele (si può citare l’invasione dell’Iraq come
esempio). Se proprio ci tiene a parlare della sinistra istituzionale
di Israele, mi sento di dirle che di fatto gli israeliani di sinistra
non rappresentano che è un’entità puramente verbale. Non c’è niente,
dietro.. e la ragione è molto semplice. Se Israele è lo stato del
popolo ebraico, allora qualunque pensiero di sinistra all’interno di
un tale contesto politico nazionalista può essere visto in termini di
“Nazionalsocialismo Ebraico” (sono certo che questo porti alla
memoria qualcosa..). Ciò detto, vi sono, e sono ben poche, alcune
persone di sinistra in Palestina che per caso sono anche di origine
ebraica. Come si può immaginare, costoro non si definirebbero mai
come israeliti o come sionisti di sinistra, ma semplicemente come
“palestinesi che parlano l’ebraico”, “ebrei palestinesi” o qualcosa
del genere.

MT: L’hanno accusata di molte cose, sulla rete, ma forse le due
accuse più gravi riguardano la negazione dell’Olocausto e
l’incitamento a dar fuoco alle sinagoghe, entrambe le cose punibili
per legge. Cosa mi dice su questo punto?

GA: Penso lei stesso lo abbia appena detto. Nonostante tali accuse
siano punibili per legge, nessuno mi ha mai chiesto di seguirlo al
comando di polizia… Naturalmente, quelle accuse sono prive di
fondamento, create a bella posta per servire una specifica causa
politica, principalmente all’interno della terza categoria di
persone. Casomai fosse interessato, c’è una lista parziale di
menzogne sul mio conto, cui seguono altrettante risposte da parte
mia: (http://www.gilad.co.uk/html%20files/1001lies.html). Ora, posso
chiaramente dedurre che voglia qualche dettaglio in più. Dunque: la’
dove l’accusa di incitamento a dar fuoco alle sinagoghe non è che
un’offensiva menzogna, il mio punto di vista sull’Olocausto è un po’
più complesso. Non nego l’Olocausto, e non nego il giudeocidio
nazista. Magari insisto sul fatto che sia l’Olocausto che la Seconda
Guerra Mondiale dovrebbero essere considerati innanzitutto come un
evento storico di per sé più che come un mito religioso. La storia
della Seconda Guerra Mondiale e dell’Olocausto presenta così tante
incongruenze e contraddizioni… e le questioni più importanti
rimangono ancora oggi senza risposta. Perché, per esempio, gli
americani non hanno bombardato Auschwitz? Perchè hanno aspettato fino
al luglio del 1944 prima di fare un raid aereo sulle spiagge della
Normandia? Non era magari per il fatto che Stalin stava intanto
avanzando verso l’Europa centrale? E perché gli Alleati hanno
bombardato le città tedesche anziché bombardare i centri logistici e
gli obiettivi militari chiave? Non era anche qui, forse,
semplicemente per il fatto che non volevano distrarre le truppe
hitleriane mentre combattevano contro Stalin? Perché gli americani
hanno lanciato le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki? Forse
perché i Rossi avevano appena dichiarato guerra al Giappone e ciò
avrebbe potuto interferire con la loro presenza nel Pacifico? È
abbastanza evidente: un’analisi storica della Seconda Guerra Mondiale
rivelerebbe il fatto che, da una prospettiva anglo-americana, Stalin
era il vero nemico, e non Hitler. La narrativa dell’Olocausto è
costruita con uno schema che porta a nascondere questa
interpretazione allarmante nonché alquanto convincente. La domanda
più cruciale, qui, è: perché che non ci viene concessa la libertà di
trattare questo capitolo storico applicando dei metodici realmente
accademici? E la risposta è davvero semplice. La questione Olocausto
viene ora considerata come la nuove religione occidentale dalla
maggior parte degli ebrei anglo-americani.

MT: Intende dire.. un dogma? Insomma un principio che non deve essere
messo in discussione?

GA: Sì, è così, ma il fatto è che l’Olocausto ha una valenza che va
ben al di la’ di un semplice dogma religioso. Ciò che rende una
religione un unico insieme di convinzioni è l’accettazione di
racconti che non sono legati alla realtà. La credenza è il risultato
conseguente di un’accettazione cieca di una
narrativa sovrannaturale. La forza insita nella religione
dell’Olocausto si trova proprio nel carattere non realistico del suo
racconto. La narrativa olocaustica è strutturata come un orribile
incubo: una storia metamorfica dell’uomo che viene trasformato in una
macchina per uccidere. Però a questo punto, se si accetta l’Olocausto
come la nuova religione dei liberaldemocratici anglo-americani, allora
è giusto rispettare chiunque si permette di essere ateo. E invece
succede che si provi ben poca tolleranza nei confronti di chi si
permette di mettere in discussione la religione dell’Olocausto. In
alcuni paesi c’è pure stata un’integrazione con il Codice Penale su
questo soggetto, un fatto che ribadisce ulteriormente questa forte
intenzione politica nel mantenere sacralizzato artificialmente questo
concetto: non credere nell’Olocausto oggi viene considerata un’offesa
criminale.

MT: Sa, ho una certa familiarità con le questioni legate alla
criminalizzazione della miscredenza. La chiesa cattolica è piena di
strani dogmi, per esempio la Santa Trinità, oppure la verginità di
Maria malgrado la sua maternità, e qualche secolo fa si poteva andare
al rogo su un palo, se qualcuno li metteva in dubbio.

GA: Esatto. Più è fantastica la narrazione, più forte è la fede
dimostrata. Il valore reale dell’evento è del tutto irrilevante, come
di poca importanza viene considerato il fatto che qualcuno si
preoccupi di verificare se effettivamente Maria fosse vergine, oppure
se l’evento biblico di Mosé e il roveto ardente costituisca un fatto
realmente avvenuto. Credere è accettare ciecamente una cosa. E
tuttavia la religione ha sempre uno scopo: quello della religione
dell’Olocausto è di essere il baluardo del discorso
liberaldemocratico. Costruito per mantenere il legame tra il sionismo
e l’espansionismo occidentale. In altri termini, la validità
dell’Olocausto come evento storico perde di rilevanza. Ed è ciò in
cui io mi permetto di interferire. Non sono uno storico e non ho la
benché minima intenzione di impegnarmi in discussioni su quante
fossero veramente le vittime dell’olocausto, se 6 milioni o 2.5
milioni di ebrei. La mia idea è che questa questione di natura
aritmetica è irrilevante, per non dire stupida, visto che l’omicidio
è sempre omicidio, sia che si uccida una persona o se ne uccidano
tante. Semmai sostengo che, anche se se fossero state uccise “solo”
alcune poche migliaia di ebrei o di zingari a causa della loro razza,
ciò già è tragico a sufficienza per stabilire un capitolo storico
traumatico di rilevanza. E intanto rimane la domanda: che cosa
trasforma la narrativa storica in una religione? Provo dal canto mio
a suggerire una risposta: i palestinesi, per esempio, sono le ultime
vittime di Hitler. Il fatto che siano vissuti in campi profughi per
almeno 6 decenni è il risultato diretto del giudeocidio nazista,
perchè il sionismo ha costituito lo stato di Israele nelle loro terre
come conseguenza dell’Olocausto. Pertanto, a questo punto la storia
della Seconda Guerra Mondiale “appartiene” ai palestinesi tanto
quanto appartiene agli ebrei o a chiunque altro. Ma è esattamente qui
che comincia il problema. Una volta che l’Olocausto diventa una
religione, cessa di essere un capitolo storico. Si pensa che gli
ebrei siano le vittime in assoluto, e i palestinesi delle vittime di
seconda categoria, cioé le “vittime delle vittime”. Una volta che
l’Olocausto diventa una religione, a nessuno è più consentito
l’accesso. Sono propenso a pensare che la narrativa ufficiale
dell’Olocausto sia stata davvero creata da chi è uscito vincente
dalla guerra, cioé gli anglo-americani. E viene utilizzata per servire
la loro causa. Sono d’accordo con molti storici sul fatto che il rito
industriale degli ebrei come vittime è cominciato dopo il 1967, e che
chi ha creato questo rito ha deciso che l’Olocausto doveva essere
messo al servizio dell’espansionismo occidentale.

MT: Cosa mi dice di Hitler?

GA: Tutto ciò detto prima non significa certo che Hitler fosse
innocente. Hitler era fuor di dubbio un assassino senza pietà, ma non
era il solo. Tendo ad attribuire una maggiore colpa agli
anglo-americani. A quanto sembra, le stesse persone che hanno raso al
suolo Dresda e Amburgo sono le stesse che hanno fatto piazza pulita
pure degli abitanti di Hiroshima e Nagasaki. Non c’è da rimanere
sorpresi nello scoprire che, sempre queste stesse persone, che hanno
“regalato” 2 milioni di morti in Vietnam sono quelle che hanno
devastato l’America Latina negli ultimi 6 decenni. E, di nuovo,
nessuna sorpresa nello scoprire che le stesse persone che hanno
aiutato gli israeliani a relegare 1.3 milioni di palestinesi tutti
nella Striscia di Gaza, sono quelle che ora distruggono Baghdad,
Fallujah, Mosul e Tikrit. E se queste informazioni non dovessero
bastare, si accenni pure al fatto che sono pure le stesse persone che
non si sono granché mobilitate per venire in aiuto alla gente di
colore di New Orleans, proprio 2 settimane fa. America fa rima con
cattive notizie, non c’è dubbio. Che poi, ad essere onesti, non si
tratta nemmeno più di notizie. Per farla breve, se davvero si vuole
puntare a un mondo migliore, bisognerebbe riscrivere la storia del XX
secolo. Bisognerebbe far presente a tutti che questa carneficina in
nome della “libertà” e della “democrazia” deve essere fermata. È
nostro dovere guardare ben dentro la nostra stessa storia ed
attivarci per riesaminarla. È nostro preciso dovere assicurarsi che
il revisionismo storico possa fare liberamente il suo percorso e
arrivare al nucleo del discorso di sinistra. Per me la storia
ufficiale della Seconda Guerra Mondiale ha come scopo quello di
nascondere alcuni tra i più grandi e sconcertanti crimini. Hitler
venne sconfitto 60 anni fa. L’America ha vinto questa guerra
sanguinosa, e fin da allora non ha mai cessato di lanciare bombe su
civili innocenti. Se davvero vogliamo emanciparci dobbiamo
risistemare tutto il XX secolo, e prima sarà, meglio sarà. E se ora
l’Olocausto è formalmente un evento non più storico, se è solo più
una semplice religione, allora insisto che si permetta che la si
tratti in modo teologico. Che poi tra l’altro è ciò che io sto facendo.

MT: Quale sarebbe per lei il piano ideale per risolvere in modo equo
questo interminabile conflitto israelo-palestinese?

GA: Solo una risposta è possibile, e cioé la Soluzione dello Stato
Unico. Come forse sa, non credo in una soluzione pacifica, per
esempio la pace tra Israele e i palestinesi. Una soluzione del genere
infatti non permetterebbe di gestire correttamente la causa
palestinese, cioé il “diritto di ritorno”. Ma poi la questione è
ancora più profonda, in realtà. La nozione stessa di pace è del tutto
estranea alla psiche ebraica. Sharon recentemente ha detto che
Israele vuole la pace (shalom) ma poi insiste nel “determinarne i
termini e le condizioni”. È ovvio: per Sharon la pace è una decisione
squisitamente pratica, un tentativo di emergere, non certo di
accettare un concetto come la compassione e la riconciliazione.
Quella dichiarazione di Sharon è rivelatrice di un conflitto
giudeo-cristiano importante. Sostanzialmente, la differenza tra ebrei
e cristiani potrebbe essere riassunta in un’unica frase: i cristiani
sono degli ebrei che amano il loro prossimo. Che poi ciò sia vero o
no è un quesito non da poco. Ma una cosa è chiara: il pensiero
occidentale dà valore alla compassione e all’amore per l’Altro, e
questo è il motivo per cui gli ebrei non si sono mai potuti integrare
nell’ambiente culturale occidentale. L’ebraicità è la celebrazione
della negazione. Gli ebrei (e specialmente quelli ashkenaziti) si
sono sempre rinchiusi nei ghetti. Non sorprende quindi che applichino
ora le stesse tattiche del muro in Israele. Questo tipo di identità
isolazionista non potrà mai sposarsi con un concetto di pace reale.
Anche all’interno dei circoli politici della classe operaia gli ebrei
hanno adottato delle cellule separatiste (come il Bund all’interno
dei Soviet e di altre organizzazioni ebraiche esclusivamente di
sinistra). Quindi una soluzione pacifica non è concepibile. E per
poter ottenere una qualche forma di riconciliazione tra i due popoli,
la prima cosa è che l’identità ebraica sia sconfitta. E si
sconfiggerà soprattutto da sola. Dobbiamo aiutare gli israeliani a
desionizzarsi. Quando alla fine questo succederà, non dovremo
dimenticare di desionizzare pure noi stessi… mi riferisco
soprattutto alla Gran Bretagna di Blair e all’America. Direi che la
desionizzazione della Palestina rappresenta un elemento chiave nel
processo della nostra liberazione globale.

MT: L’identità isolazionista che mi ha appena descritto mi ha fatto
venire in mente il muro che hanno costruito in Israele, che
giustificano con la scusa ufficiale che gli permette di proteggersi
dal terrorismo.

GA: Chiamare terrorismo un atto di “lotta per la libertà” è di per sé
sintomatico del nuovo discorso occidentale condotto dal sionismo.
Questo vale chiaramente per Israele ma anche per gli americani e per
gli inglesi. Mi sembra il minimo che gli iracheni si sentano
autorizzati a combattere le forze di un’invasione straniera, tanto
quanto lo sono, moralmente, i palestinesi nel combattere per liberare
la loro terra.

MT: Ora che mi sta parlando della lotta per la liberazione.. qual’è
la sua opinione sugli aspetti etici legati alla creazione dello stato
di Israele nel 1948 dalle Nazioni Unite su di un pezzo di terra in
cui già dimoravano i palestinesi? E del fatto che ne sono pure stati
espulsi 750.000 ?

GA: La creazione dello stato di Israele e l’espulsione dei
palestinesi dalla loro terra solleva un’ulteriore questione. Com’è
stato possibile che gli ebrei abbiano potuto commettere una simile
atrocità e su una tale scala, giusto solo tre anni dopo la fine della
Seconda Guerra Mondiale? Questa è una questione davvero rilevante, e
ho il timore che nessuno sia ancora stato in grado di offrire una
risposta chiara. Potrei suggerirne qualcuna: 1) Gli uomini e le donne
sioniste sono ben lungi dal provare empatia per gli altri esseri
umani. Per loro il dolore altrui è insignificante. Questo potrebbe
benissimo essere il risultato del codice suprematista giudaico. E
anche spiegare il fatto che, dopo 60 anni di storia di oppressione
israeliana, non una singola voce sionista ha mai alzato la mano
esprimendo del rammarico per questo peccato originale. 2) Gli uomini
e le donne sioniste del 1948 erano ben lungi dall’essere degli ebrei
traumatizzati. In altri termini, per loro l’Olocausto non
rappresentava ancora una forma di elemento di rilevanza. Come
apprendiamo da Segev e Finkelstein, ci vollero molti anni prima che
gli ebrei interiorizzassero e dessero una forma collettiva alla
narrativa olocaustica, per non parlare del trauma. A quanto sembra,
il “Sabra” del 1948 (un israeliano nativo) guardava con grande
disprezzo gli ebrei della diaspora. I palestinesi sono serviti a
rendere il “Sabra” in un certo senso affrancato dall’umiliazione
imposta dall’immagine debole e disperata dell’indifeso ebreo della
diaspora. Questo schema psicologico è fondamentale per comprendere la
politica di Israele. Uccidere gli arabi, insomma, unisce sempre gli
israeliani dietro i loro leader.

MT: Negli ultimi anni, i media ufficiali spagnoli hanno fatto un
grande vociare sull’esperienza di Barenboim-Said nel creare quello
che viene chiamato uno strumento musicale di pace, “The West Eastern
Divan Orchestra”, formata da giovani musicisti israeliani e
palestinesi e con sede a Siviglia. Chiaramente, non sono per nulla
contro tutti quegli strumenti che permettono di portare un po’ di
armonia in qualunque posto, ma mi colpisce un po’ il fatto che,
mentre Barenboim guida i suoi allievi negli auditorium europei
davanti a platee sbalordite, le bombe a Gaza e a Tel Aviv continuano
ad esplodere. In qualche modo mi fa venire in mente l’insistenza
della chiesa cattolica quando manda i suoi missionari a compiere
opere di carità (il che va bene, visto che oggigiorno compiono
un’opera importante che diversamente nessun altro farebbe), e
tuttavia non affrontano veramente il cuore del problema:
l’ingiustizia mondiale politica ed economica, né tanto meno i
responsabili di tale ingiustizia. Lei non pensa che questi
atteggiamenti dévino l’attenzione in un modo un po’ naif verso
questioni meramente aneddotiche senza offrire nulla di fatto se non
che mantenere lo status quo? Qual’è la sua opinione sul lavoro di
Barenboim come “missionario” di pace dall’interno del sionismo?

GA: Credo di essere piuttosto d’accordo con lei, e se questo non
bastasse, critico sovente Barenboim per essere un sionista e per
diffondere un messaggio sionista. Questo senza togliere nulla al
fatto che Barenboim sta facendo un grande lavoro. Prima di tutto,
supera la divisione. Secondo, offre ai giovani musicisti della
regione un’opportunità per lavorare con uno tra i più grandi geni
musicali (lui, appunto). In più, e questa è la cosa più importante,
Barenboim riesce ad infastidire gli israeliani e mettere a nudo la
loro attitudine reazionaria. Pensi per esempio a Barenboim che
diventa una persona non gradita semplicemente per il fatto che esegue
Wagner a Geraselemme, è meraviglioso o no? Penso davvero che
Barenboim riesca a gettare un po’ di luce sugli angoli più patetici
della psiche ebraica. Fatte tutte le somme, credo di poter ammettere
che, tenendo da conto tutti gli aspetti di tutte le sue attività,
quest’uomo rappresenti un contributo più che positivo al movimento di
solidarietà palestinese. Venendo più alla sua domanda, sì, è sicuro:
Barenboim non riuscirà certo ad impedire agli israeliani di lanciare
le bombe. Essere israeliani significa essere impegnati in una sorta
di negazione omicida. Per gli israeliani, e in una certa misura per
gli ebrei post-talmudici, Essere è Odiare. Quando gli israeliani
smetteranno di lanciare le bombe e odiare il mondo che li circonda,
allora non saranno più israeliani, diventeranno dei “palestinesi che
parlano ebraico”. E glielo assicuro, questo succederà da sé, sarà una
trasformazione demografica inevitabile. Noi, i sostenitori della
Palestina, abbiamo un solo dovere. Aiutare i palestinesi a
sopravvivere per i prossimi 20 anni. Dobbiamo fermare la pulizia
etnica che già sta ampiamente operando. Dobbiamo portare speranza
nelle strade della Palestina. Il nostro dovere è quello di
smascherare gli israeliani e i loro programmi sionisti. Possiamo
mettere sotto pressione la loro società e i loro politici. Questo è
quanto Barenboim sta facendo. Egli offre speranza attraverso la
bellezza, proprio perché la bellezza è la sua arma, e penso che lui
ne faccia un uso alquanto efficace. Sa, non è così facile essere un
ebreo e aiutare i palestinesi, perché una volta che si parte si casca
immediatamente nella trappola sionista, si diventa un ebreo giusto.
Quando si è ebrei ci si ritrova sempre in una specie di strada senza
uscita: puoi solo vincere. Vede, essere ebrei è una cosa non poco
complessa: se si è in favore dei diritti palestinesi allora sembri
quasi dimostrare che gli ebrei siano dei “grandi umanisti”. Se sei
contro i palestinesi, allora non è che tu sia proprio cattivo ma
semplicemente, ti sei ritrovato ad essere una “vittima disperata di
due millenni di incessanti persecuzioni e semplicemente vuoi vivere
in “(fottuta) pace nella tua (fottuta) patria storica”. Come vede..
una volta che si sceglie di agire sotto una bandiera ebraica, si
permette ai sionisti di vincere. Qualunque cosa uno decida, approva
comunque la chiamata sionista, o si è vittime o si è angeli. Come sa,
mi ritrovo a schivare tanti di quei colpi ogni volta che smaschero
questa realtà così complicata. Questo è il motivo per cui ho deciso
di abiurare totalmente la mia identità ebraica. Io sono un ex-ebreo.
Il mio essere buono o cattivo non ha più niente a che fare con
qualunque tipo di gruppo tranne che me stesso (me stesso e solo me
stesso). Però non mi sento in una posizione tale da invitare qualcuno
ad entrare a far parte di questa categoria. Posso solo dire a
Barenboim e ad altri che questo potrebbe essere un percorso da
seguire molto interessante.

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di RUGGERO

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