DI GIULIETTO CHIESA
Brevi riflessioni sulle elezioni. Tre, e diverse.
Ucraina, dicembre 2004. L’Europa e l’Occidente tutto si entusiasmano per quella che definiscono la “rivoluzione arancione”. Da un po’ di tempo a questa parte l’Occidente pare diventato rivoluzionario. Prima, almeno dal 18 brumaio di Luigi Bonaparte, le rivoluzioni le aborriva. Preferiva le restaurazioni. Adesso s’innamora per la “rivoluzione georgiana”, che dimette un presidente in carica con un colpo di stato “appoggiato dalle masse”. Inneggia alla prossima ventura “rivoluzione democratica iraniana”, che dovrebbe abbattere con manifestazioni popolari il regime degli ayatollah (ma questo deve ancora avvenire, per cui aspettiamo ancora un pò). Si augura la “rivoluzione bielorussa”. E, come s’è detto, applaude la rivoluzione guidata da quel genuino campione di democrazia che si chiama Viktor Jushenko… La miccia, il catalizzatore è sempre una truffa elettorale. Gli “altri”, i cattivi, gli eredi del comunismo, gli anti-democratici, i dittatori sanguinari, i tiranni, gli Hitler di turno, truccano le elezioni. Noi, che della democrazia siamo i custodi unici e insindacabili, mandiamo gli osservatori. I quali, con la massima obiettività, sanciscono se le elezioni che hanno osservato erano free and fair. Spesso accade – ma non sempre – che i popoli si sollevino pacificamente e abbattano i dittatori. In Georgia è avvenuto. In Ucraina anche. In Bielorussia no, e resta un mistero.
Naturalmente noi abbiamo attivamente aiutato i popoli a prendere coscienza: erogando centinaia di milioni di dollari, o di euro, ai loro intellettuali, chiamandoli a fare lezione nelle nostre università, con ricchi grants (da cui la scherzosa denominazione di “figli del Capitano Grant”), mettendo in moto decine di Fondazioni benefiche, e di altre fondazioni, spesso religiose, legate alla miriade di sette che prosperano nelle nostre ricche società e che si avventurano nelle terre straniere in cerca di proseliti. Noi abbiamo pagato e formato centinaia di giornalisti, tutti pieni di aneliti di libertà; abbiamo finanziato i loro giornali; abbiamo creato e sostenuto le loro radio; abbiamo istituito corsi di formazione alle rivoluzioni pacifiche e democratiche. Ci è costato qualche spicciolo, è vero, ma nel nome della libertà che cosa non si farebbe. Soprattutto importante è che la sollevazione delle masse deve essere spontanea. E tutto questo la rende straordinariamente “spontanea”.
Nel caso dell’Ucraina, per la verità, solo appena poco più della metà delle masse è stata convinta, le altre essendo rimaste piuttosto fredde, nonostante i grants elargiti ai loro intellettuali.
In ogni caso gli “altri”, i cattivi hanno truccato i dati e la loro ingerenza – a differenza della nostra ingerenza – è stata imperdonabilmente più visibile, senza stile, senza nessuna architettura di principi nobili a coprirne gli scopi. Per questo Shevardnadze e Janukovic hanno non solo perduto, ma con ignominia. Dunque, addio senza rimpianto.
Eppure a me questa storia, così edificante, non pare convincente. C’è un’aria, un olezzo, di ingerenza negli affari interni degli altri che mi fa venire in mente la famosa “sovranità limitata” di brezhneviana memoria. Li chiamavano satelliti, perchè erano, ai tempi sovietici, paesi che non potevano decidere per conto proprio, ma dovevano chiedere il permesso di Mosca. Lo erano, naturalmente. Ma cosa è cambiato? Anche adesso il loro destino è deciso dall’esterno. Cioè la loro sovranità è altrettanto limitata. La differenza in cosa consiste? Nel fatto che non si vedono carri armati e, al contrario, i popoli manifestano per la loro libertà. Qualcuno mi dirà che è esattamente così che stanno le cose. Se non fosse che Viktor Jushenko non è affatto un campione di libertà, così come non lo è la signora Julia Timoshenko, la sua Pasionaria. Così come non lo è il signor Saakashvili. Così come non lo era il signor Eltsin, nostro campione, salito sul carro armato a fare la prima delle cosiddette “rivoluzioni democratiche” che hanno portato al potere l’imperatore del pianeta George Bush.
Riflessione numero due. Elezioni presidenziali palestinesi, gennaio 2005. Qui è toccato a chi scrive di fare direttamente l’osservatore. Anzi l’osservatore degli osservatori. Sono andato a Gaza in qualità di parlamentare europeo e ho visto un’elezione straordinaria per maturità, per partecipazione, per rispetto delle regole. In un paese occupato militarmente, di fatto in guerra, con elettori e candidati per molti aspetti gravemente impediti nei loro spostamenti, vedere migliaia di seggi in funzione, pieni di gente, di donne, coperte con veli da cui emergevano solo gli occhi ma in grado di rispondere, in inglese, con grande proprietà e precisione, ho pensato alla quantità sterminata di ottusi luoghi comuni che popolano le nostre menti e i reportages dei nostri media.
Ho visto come una lunga lotta di popolo, per difendere le propria terra, ha reso i palestinesi, uomini, donne e bambini, molto più maturi di quanto non siano parecchi popoli della nostra Europa che si crede civile. Certo hanno zero esperienza elettorale, non conoscono ancora tutte le regole, non hanno ancora un’anagrafe precisa degli aventi diritto. E dunque fanno errori. Ma, tornando a Gerusalemme da Gaza, ho tratto le somme e ho capito che avevo assistito a un evento storico.
Poi ho risposto a molte radio che mi hanno chiamato a commentare, e mi sono accorto dalle domande che ricevevo, che in Europa si erano accesi pensieri del tutto diversi, niente affatto corrispondenti a ciò che era accaduto.
In Europa avevano capito male. Cioè che, finalmente, i palestinesi erano rinsaviti e avevano eletto un leader che avrebbe fatto la pace con Israele. In altri termini: se le cose stavano così era perchè i palestinesi erano stati insensati fino a questo momento. La pace dipendeva dunque solo da loro. E Abu Mazen avrebbe finalmente rinunciato a ogni richiesta nei confronti di Sharon, rompendo definitivamente con la storia dei decenni precedenti interamente targata Yasser Arafat.
Io, che avevo visto cosa significava l’occupazione militare israeliana dei territori, le tremende immagini degl’insediamenti israeliani nel mezzo delle terre palestinesi. Io che avevo sentito i giovani di Gaza gridare che votavano Abu Mazen perchè era “l’erede e il fratello di Arafat”, mi sforzavo di spiegare che, prima che arrivi la pace, occorre che Israele voglia la pace, e che non basta la vogliano i palestinesi. Invano. Noi leggiamo non solo la storia, ma anche la cronaca, come pare a noi. Poi ci svegliamo d’improvviso, al rumore delle bombe che hanno ucciso sette soldati israeliani al check point da dove ero appena passato per uscire da Gaza. Abu Mazen potrà fare ben poco, se Sharon pretende che si metta anche lui a sparare su Hamas e Jihad, senza che un solo colono sia costretto a andarsene dalle terre che ha rubato a mano armata ai contadini di Palestina.
Terza elezione. Irak, 30 gennaio 2005. Di nuovo da testimone. Avevo chiesto, con altri parlamentari europei, in ottobre, che una delegazione parlamentare andasse in Irak per vedere da vicino se le elezioni, indette per la fine di gennaio, fossero possibili. Il 9 dicembre ricevo risposta (dalla Conferenza dei capigruppo parlamentari): impossibile mandare una delegazione laggiù “per l’assenza delle condizioni minime di sicurezza”. Ammissione cruciale e inevitabile. Qualcuno, in tutta fretta, cerca altrove di trovare un rimedio. A Ottawa si riuniscono sette paesi, tra cui Gran Bretagna e – capirete bene – Albania, per vedere se si possono mandare osservatori. L’Onu (?) ne aveva invitati 20, ma gli altri preferirono starsene a casa. In ogni caso anche quelli che ci andarono furono costretti a riconoscere: non si può mandare nessuno. Al massimo una missione da 6 a 12 persone sarà stazionata ad Amman e farà “analisi” di ciò che arriverà dall’interno.
Dunque non è rispettato nessuno, proprio nessuno, dei criteri che possono rendere valide le elezioni. L’Europa ha condannato il falso di Leonid Kuchma-Viktor Janukovic-Vladimir Putin in quel di Kiev, in base al resoconto degli osservatori. E poi ha lodato i palestinesi, sempre in base agli osservatori internazionali. Ma se sappiamo già che nessuno osserverà, perchè non ci sono nemmeno le condizioni minime di sicurezza, vuol dire che nessuno avrà condizioni minime di sicurezza per votare. E quindi non sapremo né se ha votato, né come. Secondo ogni criterio gli iracheni non potranno votare fair and free. Lo sapevamo già prima che avvenisse. Ma a Washington, dove si sono levati i calici per la vittoria di Jushenko contro Janukovic, di Saakashvili contro Shevardnadze, di Eltsin contro Ziuganov, di Kostunica contro Milosevic, adesso si finge che a Baghdad tutto è, “più o meno” regolare. E anche a Roma si finge la stessa cosa. E anche a Bruxelles faranno finta di niente, visto che hanno stanziato, alla chetichella, senza troppo rumore, ben 31,5 milioni di euro per far fare le elezioni in Irak. E – poichè scrivo queste righe a metà gennaio – posso già immaginare come giornali e tv nostrane e americane ci racconteranno che, certo, qualche problema c’è stato, magari sei o sette milioni di iracheni non hanno votato per niente, ma che s’è fatto un passo in avanti verso la legalità e lo stato di diritto. Nessuno riderà della grottesca situazione che ci troviamo di fronte: elezioni in un paese occupato e in guerra. Tutti faranno finta di niente e gireranno pagina in fretta, poichè l’essenziale sarà accaduto: cioè la legittimazione formale della occupazione militare e dell’aggressione che l’ha preceduta. Col che l’Occidente avrà fornito l’ennesima prova di quanto i sacri principi, quelli che vengono invocati per coprire di vergogna il nemico, non contino assolutamente nulla nel momento in cui li si deve applicare contro i nostri interessi.
Giulietto Chiesa
Fonte:www.giuliettochiesa.it
17.01.05
del 16 gennaio in uscita sul mensile Galatea