DI PAUL KRUGMAN
Redazione: 1 – Giappone, Europa ed America: nessun vincitore. La concorrenza internazionale è un concetto per lo più falso: la lotta di classe, invece, è molto, molto reale. 2 – In assenza di un’efficace integrazione fiscale, la mobilità del lavoro rende un’Unione Monetaria peggiore e non migliore. Il Portogallo su una spirale di morte è l’allegro euro-pensiero del giorno. 3 – “The Economics of Inequality” di Thomas Picketty (nella foto) non è il libro che ci saremmo aspettati. E’ la versione solo leggermente aggiornata di un testo di vent’anni fa. La ricerca sulla disuguaglianza ha comportato, da allora, la de-enfatizzazione della “domanda e dell’offerta” ed una maggiore attenzione “al privilegio e al potere”.
COMPETITIVITA’ E LOTTA DI CLASSE
Per ragioni a me non del tutto chiare, mi son trovato di recente a ripensare al saggio di Lester Thurow: Head to Head: The Coming Economic Battle Among Japan, Europe, and America [Testa a Testa: La Prossima Battaglia Economica fra Giappone, Europa ed America].
Per i troppo giovani, o per coloro che non se lo ricordano, il libro di Thurow è stato un fenomenale best-seller dei primi anni ’90. Era in sintonia con il pensiero di quanti temevano che l’America stesse perdendo il suo vantaggio economico, che il Giappone era un colosso inarrestabile e così via.
Aveva anche a che fare con una nozione generale di economia globale: quella della lotta fra gli Stati per ottenere un vantaggio competitivo – che è da sempre un argomento molto popolare.
Fui al momento abbastanza critico riguardo questa nozione ..… sostenevo che il successo economico, o il fallimento, aveva poco a che fare con la concorrenza internazionale. Ma oggi quello che mi trovo a pensare riguarda chi ha veramente fatto meglio nei decenni che son seguiti al libro di Thurow.
E la risposta è ….. nessuno.
Il grafico mostra il PIL reale per “adulti in età lavorativa” (15-64 anni) in Francia, Giappone ed America, a partire dal 1990. La correzione demografica è importante: il Giappone è rimasto economicamente un po’ indietro, ma molte delle ragioni sono appunto legate alla demografia.
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Ciò che colpisce, in questo grafico, è quanto gli andamenti siano simili. Il Giappone era rimasto indietro, alla fine degli anni ‘90 e ai primi degli anni ‘2000, ma poi si è ripreso. La Francia è rimasta indietro, a partire dal 2010, a causa soprattutto della crisi dell’Eurozona e delle sue sbagliate politiche di austerità. Considerando quanta polemica c’è stata sui “problemi strutturali”, ciò che sorprende è quanta poca divergenza ci sia tra questi tre paesi.
A mio avviso, il grafico ci dice che non solo la concorrenza internazionale è molto meno importante di quanto la leggenda vuole, ma anche che la crescita economica è abbastanza insensibile alla politica: la Francia e gli Stati Uniti sono agli estremi, fra i regimi dei paesi avanzati ….. ma non c’è molta differenza nelle loro prestazioni di lungo termine.
Ma quest’insensibilità vuol forse significare che la politica non ha alcuna importanza? Niente affatto.
Considerando che non c’è stato – ripeto, non c’è stato – alcunché che potesse somigliare ad una competizione a somma zero tra queste tre nazioni così amate da tutti i tipi di business, si pone davvero la questione su chi abbia ottenuto i maggiori guadagni.
Negli Stati Uniti, ad esempio, la crescita economica è stata OK in questi ultimi 25 anni. Ma non altrettanto i redditi famigliari, perché una notevole quota della crescita è andata solo a chi sta in cima.
Vedete, quindi? La concorrenza internazionale è un concetto per lo più falso. E’ la lotta di classe, invece, ad essere molto, molto reale.
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GLI ASPETTI NEGATIVI DELLA MOBILITA’ DEL LAVORO
La teoria delle Aree Valutarie Ottimali [AVO] è un “vecchio pezzo” della macroeconomia – come il modello IS-LM, il concetto di “trappola della liquidità” e la teoria della “stagnazione secolare” – che dal 2008 si è rivelato estremamente utile e rilevante per il mondo.
Un vecchio detto di Mark Thoma sostiene che il “nuovo pensiero economico implica la lettura dei libri antichi” (o, in questo caso, dei vecchi articoli). E quindi ci sono ancora alcune cose nuove da imparare. Direi che quello che abbiamo imparato, ultimamente, è che la mobilità del lavoro – che doveva essere una buona cosa e uno dei pre-requisiti per un’Unione Monetaria – sia in realtà molto più problematica di quanto pensavamo.
Schematizzando un po’, dobbiamo la teoria delle AVO soprattutto a tre economisti: Robert Mundell, Ron McKinnon, e Peter Kenen. Tutti e tre hanno assunto, realisticamente, che i salari ed i prezzi siano fissi. Conseguentemente, fissare per un paese il tasso di cambio – o adottare una moneta comune – comporta dei costi sotto forma di un più difficile assorbimento degli “shocks asimmetrici” che deprimono la sua economia rispetto a quella dei suoi partners commerciali.
Questi costi si contrappongono ai vantaggi di poter fare business attraverso le frontiere in modo più facile e più sicuro. La questione, allora, diventa un’altra: quella di come le caratteristiche di un’economia influenzano gli scambi.
Nella versione originale di Mundell la questione-chiave era la mobilità del lavoro: se i lavoratori si possono spostare liberamente e rapidamente dalle regioni in crisi a quelle in forte espansione, gli shocks asimmetrici diventano un problema molto più piccolo.
Uno degli argomenti che gli euroscettici americani erano soliti avanzare è che l’Europa era molto poco adatta ad una moneta unica proprio perché priva dell’elevatissima mobilità del lavoro, anche interstatale, che caratterizza l’America.
McKinnon offrì un criterio diverso: la quota dei “beni scambiabili” [tradable] in uscita. Fondamentalmente, gli adeguamenti dei prezzi relativi dovrebbero essere più piccoli nelle economie molto aperte, ed inoltre una maggior quantità di transazioni dovrebbe aumentare i benefici legati ad una valuta comune.
Kenen, infine, sostenne che l’integrazione fiscale, o la sua mancanza, è una questione fondamentale per le regioni depresse. E’ fondamentale che queste possano essere compensate pagando meno tasse e ricevendo qualche beneficio in più dal nucleo centrale.
Ed allora, che cosa abbiamo imparato, ultimamente? Abbiamo imparato che Kenen ha trionfato su Mundell – ha vinto la teoria secondo cui, in assenza di un’efficace integrazione fiscale, la mobilità del lavoro avrebbe reso un’Unione Monetaria peggiore, e non migliore.
L’ho già detto, ma mi sembra opportuno sottolinearlo ancora una volta, alla luce del rapporto del “The Financial Times” sulla “perfetta crisi demografica ” in Portogallo [http://www.ft.com/cms/s/657b9066-2df5-11e5-91ac-a5e17d9b4cff,Authorised=false.html?siteedition=uk&_i_location=http%3A%2F%2Fwww.ft.com%2Fcms%2Fs%2F0%2F657b9066-2df5-11e5-91ac-a5e17d9b4cff.html%3Fsiteedition%3Duk&_i_referer=&classification=conditional_standard&iab=barrier-app#axzz3ijDsk0k3].
Si scopre che la crisi del debito in Portogallo è l’innesco di una spirale di morte economica: l’economia depressa sta portando all’emigrazione su larga scala della popolazione portoghese in età lavorativa (incide anche la bassa fertilità, anche se è una questione di lungo termine), minando la base imponibile e rendendo ancor più difficile l’uscita dalla crisi.
Non è facile prevedere come andrà a finire, in Portogallo, dopo che il paese è stato lasciato da solo, carico di vecchi e senza le risorse per prendersi cura di loro.
Le economie regionali degli Stati Uniti sono meno vulnerabili a questo genere di cose, anche se la nostra imperfetta integrazione fiscale significa che una cosa del genere potrebbe ancora accadere, in una certa misura: anche Porto Rico è in una sorta di spirale di morte, fatta di emigrazione e di stress fiscale, ma il livello del disagio è molto minore, grazie alla rete di sicurezza nazionale.
Ma il punto è che l’”Atto Unico Europeo” [Febbraio 1986, http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=URISERV:xy0027], che è stato tra le cose che si suppone abbiano preparato il terreno alla moneta comune, potrebbe effettivamente aver interagito con la mancata integrazione in materia fiscale per creare, infine, un nuovo tipo di catastrofe.
E’ l’allegro euro-pensiero del giorno.
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RECENSIONE: “THE ECONOMICS OF INEQUALITY”, DI THOMAS PIKETTY
Già nel 2001 due economisti francesi, Thomas Piketty ed Emmanuel Saez, fecero circolare un fondamentale documento di ricerca, formalmente pubblicato due anni dopo, dal titolo “Income Inequality in the United States, 1913-1998” [La Disuguaglianza dei Redditi negli Stati Uniti, 1913-1998].
Essi utilizzarono i dati del “gettito fiscale sui redditi”, per arrivare a conclusioni che non potevano essere raggiunte utilizzando i dati-standard sulla distribuzione del reddito, che provenivano dai comuni sondaggi.
Proposero un ritratto della “stratosfera economica”, ovvero dei redditi dell’ormai famoso 1% [della popolazione], realizzato con una notevole profondità storica, avendo percorso tutta la strada a partire dalla fine della “Gilded Age” [tardo XIX secolo].
Il quadro che ne emergeva era sorprendente, per chi era ancora aggrappato alla nozione di “America: società del ceto medio”, o per coloro che pensavano alla crescente disuguaglianza essenzialmente come ad una storia sulla divergenza tra gli operai, da una parte, ed un’élite piuttosto ampia, quella dei lavoratori dotati di un’istruzione universitaria, dall’altra.
Thomas Piketty ed Emmanuel Saez dimostrarono che la vera storia della crescente disuguaglianza, a partire dal 1980 o giù di lì, non era caratterizzata dalla crescita, peraltro assai modesta, dei salari dei lavoratori qualificati, ma dai giganteschi guadagni di coloro che si trovano al vertice [della curva di distribuzione del reddito] – il raddoppio dei redditi al-netto-dell’inflazione per l’1%, la quadruplicazione dei redditi per lo 0,1%, e così via.
Dimostrarono anche che l’impennata dei redditi più alti aveva fatto invertire i primi modesti spostamenti in direzione di una maggiore uguaglianza, e che la concentrazione del reddito nelle mani di una piccola minoranza era tornata ai livelli del “Grande Gatsby”.
Lo studio citato è stato un importante punto di riferimento per il mondo della ricerca e ha avuto un forte impatto non solo sull’economia, ma anche sulla scienza politica, perché l’aumento dei redditi dell’1% [della popolazione] risulta essere strettamente correlato con l’aumento della polarizzazione politica.
L’anno scorso Thomas Piketty ha avuto un ulteriore enorme successo con il suo opus-magnum, “Capital in Twenty-First Century” [Il Capitale nel Ventunesimo Secolo], nell’ambito del quale ha esposto ad un pubblico molto vasto dei fatti decisamente sorprendenti sulla disuguaglianza, dimostrando che siamo ben avviati lungo la strada inquietante che porta alla rifondazione del “capitalismo patrimoniale”, ovvero di una società dominata dagli oligarchi, che ereditano la loro ricchezza.
“Capital in Twenty-First Century” è un libro potente, ben scritto e meravigliosamente tradotto in Inglese da Arthur Goldhammer. E’ anche parecchio voluminoso e molto denso [di concetti]. C’è ragione di credere, quindi, che molte delle persone che lo hanno acquistato non siano andate molto avanti nella sua lettura. Così, pensavo che sarebbe stato davvero utile estrarne una versione abbreviata, per esporre gli elementi essenziali di questo capolavoro.
Purtroppo, non è quello che “The Economics of Inequality” ci offre.
Permettetemi di essere schietto: non so com’è che è stata presa la decisione di pubblicare questo “nuovo” libro di Piketty nella sua forma attuale … ma non è affatto il libro ci saremmo aspettati. E’ invece la versione leggermente modificata di un libro pubblicato nel 1997, quando il Sig. Piketty era verso la metà dei suoi vent’anni.
E con il termine “leggermente”, intendo dire “molto leggermente”. Anche le tabelle dei dati non sono state quasi mai aggiornate e, in molti casi, sono prive delle informazioni successive al 1995. Fatto forse ancor più importante, le linee fondamentali degli argomenti proposti non sono state aggiornate, in modo da poter riflettere gli studi successivi – nemmeno quello che egli ha scritto insieme al Sig. Saez.
Del resto lo stesso autore lo ammette, in una nota ai lettori: “Questo libro non tiene pienamente conto dei risultati degli ultimi 15 anni della ricerca internazionale sulle dinamiche storiche della disuguaglianza”.
Ed allora, quello che il lettore può attendersi da questa lucida esposizione, è la comprensione della disuguaglianza per come essa si presentava quasi vent’anni fa, visto che non c’è quasi alcun riferimento ai successivi sviluppi sia della ricerca che del mondo reale, che hanno contribuito così tanto a comprendere meglio il fenomeno.
Prendete, ad esempio, quello che “The Economics of Inequality” sostiene sul capitalismo patrimoniale, e che il signor Piketty ha posto al centro del dibattito sulla forma che andrà ad assumere in futuro la nostra società. Questo libro dichiara che la tassazione progressiva “sembra aver impedito il ritorno della rentier-society [società basata sulla rendita] del 19° secolo”, per poi passare ad altre questioni.
Due decenni fa questa era una posizione difendibile. Ma il contributo più importante del suo recente “Capital in Twenty-First Century” è stato proprio quello di dire che, da allora, la crescita dei profitti-al-netto-delle-tasse, sul totale del reddito nazionale, sta davvero portando ad un ritorno della rentier-society, dove i ricchi possono godere di una ricchezza meramente ereditata.
Oppure, si prenda la discussione in atto sulla crescente disuguaglianza salariale. Nel 1990 l’analisi professionale di questo problema era dominata dalla teoria della “disuguaglianza dovuta alla mutazione delle competenze tecnologiche”, ed affermava che la “tecnologia dell’informazione” stava facendo alzare la domanda di lavoratori dotati di un più elevato livello d’istruzione [il che comportava un aumento salariale].
In questo libro il Sig. Piketty ci offre una critica molto lieve di questa dottrina, e finisce con l’affermare che “essa spiega gran parte dell’aumento della disuguaglianza salariale”.
I lettori di questo libro, certamente, non apprenderanno che i ricercatori moderni sono diventati molto scettici su tutta questa teoria, perché è in contrasto con gran parte di quanto è successo a partire dal 2000, come ad esempio il fenomeno della stagnazione dei redditi tra coloro che sono in possesso di un’istruzione universitaria.
In generale, la tendenza delle ricerche sulla disuguaglianza, da quando il signor Piketty ha scritto “The Economics of Inequality” [riedizione di un testo di vent’anni fa], ha comportato da un lato la de-enfatizzazione della “domanda e dell’offerta”, e dall’altro una maggiore attenzione “al privilegio e al potere”.
Questi fattori, comunque, non vengono del tutto ignorati. “The Economics of Inequality” contiene, ad esempio, un’interessante discussione sul ruolo dei sindacati nel limitare la disuguaglianza, e come questo fattore abbia contribuito a spiegare la divergenza esistente fra gli Stati Uniti e l’Europa.
Ma i lettori che dovessero leggere solo questo libro finirebbero con il riporre troppa fiducia su una storia che enfatizza la “mano invisibile” del mercato, e troppo poca sul “ruolo visibile” delle Istituzioni.
Mi dispiace di essere stato così negativo sul testo di un personaggio così importante per il nostro pensiero economico. Ma pubblicando quello studio giovanile come se fosse un nuovo contributo, Thomas Piketty ha fatto un cattivo servizio ai lettori, e mi piacerebbe discuterne con l’autore stesso.
Paul Krugman
Fonte: http://krugman.blogs.nytimes.com
11.08.2015
14.08.2015
Link 3° articolo: http://www.nytimes.com/2015/08/03/books/review-the-economics-of-inequality-by-thomas-piketty.html?src=twr
2.08.2015
Articoli scelti e tradotti da FRANCO per www.comedonchisciotte.org
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