FEDERICA RAMACCI (Liberazione) intervista JULEN ARZUAGA (Behatokia, Osservatorio Basco per il Rispetto dei Diritti Umani)
«Nelle carceri spagnole e francesi ci sono circa 600 prigionieri politici baschi per terrorismo. Ma molti di loro non hanno mai preso un’arma»
Hernani è una località pochi chilometri a sud di San Sebastiàn, nei Paesi Baschi. E’ qui che lavora Julen Arzuaga, il coordinatore generale di Behatokia, l’Osservatorio basco per i Diritti Umani. Una iniziativa lanciata da diverse organizzazioni basche. Fanno parte di Behatokia il TAT (Torturaren Aurkako Taldea, Gruppo contro la tortura), Etxerat (Associazione dei Familiari delle Persone Represse politicamente), Eskubideak (Associazione dei Procuratori Legali Baschi) e Gurasoak (Associazione dei genitori delle Giovani Vittime della Repressione).
La documentazione e i libri pubblicati da Behatokia si basano principalmente sulle denunce e sulle testimonianze di ex detenuti baschi, che raccontano di aver subito torture e maltrattamenti in seguito all’arresto con l’accusa di appartenenza all’organizzazione armata ETA (Euskadi ta Askatasuna, Terra Basca e Libertà). Numerose dichiarazioni di Organizzazioni Internazionali a Difesa dei Diritti Umani hanno giudicato credibili queste testimonianze. Mancano pero’ le prove di queste torture.
Ad oggi si limitano ad un paio di fotografie (che mostrano il viso di un uomo pesantemente segnato dalla violenza) poco diffuse dalla stampa, perfino da quella basca.
Secondo Behatokia ciò è dovuto ad una forma più raffinata di tortura che non lascerebbe segni evidenti sul corpo, al silenzio colpevole dei corpi di polizia (Guardia Civil, Polizia Nazionale e Polizia Basca) e alle molte omissioni dei medici forensi.
Secondo le istituzioni spagnole, invece, le prove non ci sono perché in Spagna non si pratica alcun tipo di tortura e tutte le testimonianze e le denunce sarebbero frutto di una precisa strategia dell’organizzazione armata ETA per indebolire il governo spagnolo.
A suscitare le perplessità più grandi nelle Organizzazioni internazionali per i Diritti Umani, sono comunque alcune eccezioni ai diritti garantiti dalla Costituzione spagnola del ’78. L’articolo 384 bis della recente ‘Ley de enjuiciamento judicial’, prevede la soppressione di alcuni fondamentali diritti dei detenuti, tutelati dalla Carta, nel caso di delitto compiuto da persona “integrata o relazionata con banda armata o con individui terroristi o ribelli”. L’articolo 520 bis della stessa legge al secondo comma dà al giudice facoltà di “decretare lo stato di isolamento dei detenuti accusati dei delitti previsti all’articolo 384 bis”. Ancora secondo l’art 527 della stessa legge il detenuto in regime di isolamento, non potrà parlare con il suo legale (che in ogni caso potrà essere solo un avvocato nominato d’ufficio) né con i familiari, neanche per far conoscere il luogo della sua detenzione. Tale stato di totale isolamento dal mondo esterno, puo’ durare fino a settantadue ore prolungabili, su decisione motivata del giudice, per altre quarantotto.
Durante questi cinque giorni, secondo quanto dichiarano i testimoni e le associazioni basche in difesa dei diritti umani, gli interrogatori di polizia sconfinerebbero regolarmente nella tortura e nei maltrattamenti.
Come si finisce in regime di isolamento?
Con le modifiche apportate al codice penale per essere accusato di appartenere ad una banda armata non serve detenere esplosivo o armi. Il giudice Baltazar Garzon ha applicato una interpretazione estensiva delle leggi che permette di mettere sotto accusa non solo i membri effettivi dell’ ETA ma anche tutto il tessuto sociale della sinistra abertzale (partiti della sinistra indipendentista basca), che lui chiama “il fronte sociale dell’ETA” e che considera ugualmente parte dell’organizzazione armata. E’ una interpretazione molto ideologica perché nella maggior parte dei casi non c’è nessun fatto che possa far pensare ad un collegamento come questo. Non c’è quasi bisogno di prove per accusare e per questi reati sono previsti fino a quattro anni di carcere preventivo. Io sono stato accusato di appartenenza a banda armata perché sette anni fa facevo parte di una associazione di solidarietà con i prigionieri baschi, ‘Gestoras Pro Amnistia’. La pena è di dieci anni di carcere. Ad oggi non è stato celebrato alcun giudizio. Lo sto aspettando per potermi difendere e perché lavoro in ambito internazionale e questa accusa è stata utilizzata molte volte anche per impedirmi di entrare alle Nazioni Unite dove avrei dovuto parlare. E’ un modo di criminalizzare e di stigmatizzare qualunque attività dissidente, qualunque forma di espressione alternativa o di opposizione allo stato attuale delle cose. Dal 1998 sono stati illegalizzati almeno dieci tra associazioni e partiti rappresentanti della società basca ma anche tre quotidiani e una radio. E questo è un elemento che genera molta frustrazione e rabbia nel popolo basco.
Cosa succede quando si viene accusati di appartenenza a banda armata?
Esiste in Spagna questa legislazione antiterrorista che dà alla polizia alcune facoltà eccezionali. Basta il sospetto di “terrorismo” per poter detenere qualcuno fino a cinque giorni impedendogli di comunicare con l’esterno. Una detenzione segreta, senza possibilità di essere assistiti da un avvocato o da un familiare. Sono cinque giorni in cui questa persona si trova unicamente nelle mani della polizia. Non si sa neppure dove sia, in quale carcere è stato portato.
Quanti sono i prigionieri baschi attualmente in carcere?
Attualmente sono 620 i prigionieri politici. La maggior parte si trova in Francia e in Spagna, distribuiti in centinaia di carceri diverse. Nei Paesi Baschi si trovano poco piu’ di dieci detenuti. Le autorità spagnole dicono che si tratta di una strategia attuata per motivi di sicurezza e di spazio. In realtà si tratta di una precisa politica praticata già dal 1984 e che vuole rompere con l’isolamento e la distanza, il sentimento di militanza politica. Questa strategia ha generato solo una enorme sofferenza per i prigionieri e per le loro famiglie costrette a lunghi viaggi per poter andare a visitare i propri cari. Molte persone sono morte sulle strade mentre andavano a trovare i propri familiari detenuti in prigioni sparse in tutta la penisola.
I prigionieri che non si trovano in regime di isolamento possono ricevere visite di legali o amici?
E’ molto complicato. Ci sono molte difficoltà con i permessi per le visite. Qualche anno fa i prigionieri potevano ricevere tutte le visite che volevano, oggi invece sono ridotte a dieci ogni tre mesi. Molte leggi sono state cambiate e le pene detentive si sono inasprite. La cosa piu’ grave capita a quei prigionieri che dovrebbero essere rimessi in libertà per aver scontato completamente la pena ma per i quali si creano nuovi capi di imputazione per poterli trattenere in carcere (uno dei casi piu’ discussi in Spagna proprio in questi giorni è quello di Inaki de Juana Chaos, membro dell’ETA, condannato a venti anni di carcere per aver ucciso venticinque persone in un attentato, ha scontato la pena ma è stato condannato ad altri dodici anni di carcere per aver scritto due articoli di critica politica sul quotidiano basco Gara. Le otto persone da lui citate nell’articolo non hanno sporto denuncia ma i suoi scritti sono stati giudicati una minaccia dal Tribunale spagnolo. Oggi de Juana Chaos si trova ricoverato in un ospedale di Madrid in seguito ad un lungo sciopero della fame. Intervistato dal Times, ha dichiarato di appoggiare il negoziato tra ETA e governo spagnolo)
La situazione è diversa tra Spagna e Francia?
Ci sono stati casi di tortura anche in Francia (una parte dei Paesi Baschi detta Iparralde, si trova in territorio francese subito oltre i Pirenei) ma si tratta piu’ che altro di qualche caso di brutalità da parte della polizia durante gli arresti. La polizia francese è molto piu’ scientifica nella ricerca di informazioni a differenza di quella spagnola che cerca informazioni soprattutto attraverso gli interrogatori.
Ci sono state organizzazioni internazionali a difesa dei diritti umani che hanno potuto provare le torture contro i prigionieri baschi?
Sì, ce ne sono state molte che hanno confermato la credibilità delle testimonianze di chi ha subito le torture. Hanno confermato anche alcune esagerazioni ma quello che è importante è che i racconti riguardo ai maltrattamenti subiti da uomini e donne sono stati giudicati credibili. Sono state sollevate molte obiezioni sul sistema di isolamento che certamente favorisce casi di tortura; il lavoro degli avvocati d’ufficio che non segue alcun protocollo internazionale, il lavoro dei medici forensi che dovrebbe essere affiancato a quello di un medico di fiducia del detenuto. Quando si è arrivati, in pochissimi casi, ad un giudizio e sono stati condannati i torturatori, questi stessi sono stati immediatamente indultati e in alcuni casi anche premiati con uno scatto di carriera. E’ un intero sistema che favorisce e che rende possibili i casi di tortura.
Nessuna istituzione spagnola ha mai riconosciuto casi di tortura?
Non c’è mai stata nessuna ammissione da parte del governo spagnolo. Se le istituzioni spagnole ne parlano è per negarlo totalmente.
Quello dei prigionieri politici è uno dei motivi che ha fatto fallire i negoziati tra Eta e il governo spagnolo?
Non credo che la possibilità di arrivare ad un accordo politico e a risolvere il conflitto basco sia sparita completamente. Io credo che ci troviamo in un momento molto difficile a causa delle necessità di tutte le parti in causa. Ma la società vuole una soluzione a questo conflitto e i politici hanno l’obbligo di risolverlo. Non è andata bene, ci sono stati ostacoli, forse non ci sono politici competenti ma i cittadini meritano una soluzione. Quello che i baschi dicono è che non li si può privare del diritto ad una soluzione del conflitto. I cittadini si rivolgono tanto al governo spagnolo, quanto a ETA e a tutti i partiti politici baschi ed è quindi necessario riprendere ancora una volta il negoziato ma ciò che riguarda i diritti umani non si può “negoziare”. Questi problemi vanno risolti prima dei negoziati.
Federica Ramacci intervista Julen Arzuaga
Febbraio 2007
Una sintesi dell’articolo è stata pubblicata su “Liberazione” del 27 febbraio 2007.