Il 29 dicembre 1890 centinaia di lakota minneconjou furono massacrati dall’esercito Usa. Nella memoria dei nativi questo luogo è il simbolo della resistenza
DI DANIELE BARBIERI E MILENA PATUELLI
«Con il massacro di Wounded Knee, il 29 dicembre 1890 contro i lakota minneconjou, l’esercito degli Usa fa il suo ingresso nel moderno sistema di guerra, impiegando un’arma automatica (la Gatlin) contro un gruppo di persone considerate ostili, ribelli secondo l’odierna terminologia di George Bush. Oggi l’omologo di quell’arma è montata sugli elicotteri Usa, al confine con il Messico o in Iraq». Lance Henson, poeta cheyenne, chiarisce: «Per me, per noi nativi questo non il è passato. È una visione occidentale pensare che il tempo funzioni così». «I fatti storici rimossi all’origine del massacro sono un chiaro esempio di operazione occulta. Il governo degli Stati uniti aveva bisogno di insegnare ai nativi resistenti il loro destino manifesto: è l’espressione usata, allora come oggi, da storici e strateghi per le politiche mirate a neutralizzare i popoli indigeni. Quel 29 dicembre i lakota minneconjou stavano obbedendo a comandi militari, spostandosi durante il gelido inverno per cercare rifugio al forte più vicino. Si fermarono per riposare e iniziarono la danza degli spettri: era una cerimonia offerta da un quasi messia (cioè un profeta indiano, le cui cerimonie erano il risultato della contaminazione con le religioni dei bianchi) della tribù Paiute che si chiamava Wovoka. La danza non aveva lo scopo di minacciare ma di riportare indietro i morti. Gli ufficiali, spaventati, decisero di disarmare i guerrieri che ubbidirono. Ma un giovane lakota sordo, disorientato da quanto succedeva, rifiutò di consegnare la sua arma. Un soldato cercò di strappargli il fucile e nella confusione partì un colpo. Questo diede il via al panico generale. Ai soldati fu ordinato di sparare contro persone innocenti e disarmate. Ci furono quasi 300 morti, la maggior parte donne e bambini. I corpi lasciati sul campo congelarono in un grottesco mausoleo del potere. Solo il mattino seguente i corpi furono sepolti in una fossa comune. Il Congresso conferì 20 medaglie d’onore ai soldati che commisero quel massacro. Adolph Hitler scrisse nel Mein Kampf di avere avuto l’ispirazione delle fosse comuni guardando le foto delle guerre fra indiani e bianchi».
La storia vive nell’oggi
La ricostruzione di Lance Henson non si discosta da quella storicamente più accreditata, come si può vedere rileggendo le testimonianze di Falco Rotante e Cavallo Americano (Sul sentiero di guerra, Feltrinelli) o la dettagliata ricostruzione di Dee Brown in Seppellite il mio cuore a Wounded Knee (Oscar Mondadori). Ma quel modo di vedere la storia come definita una volta per sempre gli è estranea, come ripete più volte. Quel che accadde nel 1890 vive nell’oggi.
«Cosa possiamo imparare da Wounded Knee? Intanto è importante sapere che 83 anni dopo, quel luogo è entrato a far parte della resistenza dei nativi americani contro un destino di etnocidio e genocidio. Impariamo che il sistema coloniale degli Usa non ha cambiato le politiche di neutralizzazione verso le nazioni che non si conformano al concetto jeffersoniano di democrazia. Il dispotico governo statunitense finanzia eserciti, dalla Colombia all’Indonesia, per mettere in pratica metodi da genocidio anche contro pacifiche organizzazioni indigene, come nel luglio scorso hanno denunciato, al palazzo dell’Onu di Ginevra, i rappresentanti indigeni. Infine, occorre riconoscere che la lotta contro la tirannia non è terrorismo ma una resistenza dell’umanità per rimanere umana».
Cosa accade, 83 anni dopo, a Wounded Knee? Alcuni militanti dell’Aim (American Indian Movement) occupano – per 71giorni – quel luogo per protestare contro la politica del governo verso i nativi. Il quotidiano Washington Post scrive: è l’occasione per «seppellire una parte della vergogna della nazione». Ma le forze federali attaccano: due nativi vengono uccisi. Nel 1975, in quei luoghi un altro scontro armato o più probabilmente una provocazione: due agenti federali muoiono, inizia la persecuzione contro Leonard Peltier, Russell Means, Dennis Banks dell’Aim.«Per noi – racconta Lance Henson – non esisteva neanche un luogo dove parlare. Nel `76 andammo alla sede Onu di Ginevra, c’erano soprattutto mohaws: nessuno volle ascoltarli, anzi non li fecero proprio entrare; ma nel `77 riuscimmo a prendere la parola. Poi vennero quelli del Sud America, gli altri sottomessi all’Urss e tanti ancora: resta l’unico spazio internazionale per i nativi. Dal `78 esiste una sessione formale sui popoli indigeni. Credo che in realtà tutto sia cominciato nel `73, tornando a Wounded Knee. Riprendendo il filo della resistenza».
Ieri e oggi, una sola «trama»: si accalora Lance Henson nello spiegarlo. «C’è il dolore che è un’eredità dell’invasione, alla quale ci opponiamo con il misticismo (quello che voi chiamate religione) e tenendo vive le nostre tradizioni. Aver perso le nostre terre, i luoghi sacri e il legame con la terra non è passato. Contro questo dolore usiamo una medicina vecchia di migliaia d’anni e, ogni giorno, una vita cerimoniale che non è facile per voi da capire».
Ovviamente, non tutti i nativi sono rimasti legati a quelle tradizioni. «Credo che un terzo sia assimilato, grazie anche a quello che viene insegnato nelle università… dove i corsi che parlano di noi non sono tenuti da nativi. Anche contro questo imbroglio si cerca di resistere. Io faccio parte d’una università viaggiante, College of the Red Winds: c’è anche un sito, se volete saperne di più. I venti rossi sono professori itineranti che per combattere la deriva assimilazionista tengono corsi. Rifiutiamo fondi da stato e aziende, siamo ospitati dalle riserve in estate quando la scuola normale è chiusa. Tutti siamo pagati allo stesso modo, bidelli e professori, grazie a sottoscrizioni. Il sistema ha funzionato in diversi luoghi, ma da quando c’è Bush molti hanno paura: negli ultimi tre anni neanche un semestre di lezioni per noi».
Che altri strumenti ci sono per opporsi? E quanto pesano le mele, il vecchio nome dato ai nativi (rossi fuori ma bianchi dentro) collaborazionisti? «L’Iitc, International Indian Treaty Council, che rappresenta i popoli indigeni delle diverse Americhe, sta facendo un buon lavoro. Ci stiamo muovendo sulle proprietà intellettuali, contro il furto delle nostre medicine ad esempio: il mese scorso c’è stato un primo, importante convegno internazionale. I nostri strumenti di resistenza sono sempre quelli: il corpo, lo spirito. Io credo anche nella forza della poesia. Forse la maggior parte delle riserve resta nell’oscurità e fra i nostri rappresentanti ufficiali molti sono le mele: persone anche buone diventate brutte, corrotte. Non possiamo vivere a modo nostro, al massimo regge un’economia familiare. Il 70% cento dei nativi è disoccupato. C’è grande solidarietà, quello sì. Ecco una storia anche buffa che mi ha coinvolto. Ci sono riserve dove fa molto freddo, l’unica scuola funzionante è a 40 chilometri e magari ci si va su vecchi pullman gelidi. Tre anni fa, per un breve periodo, ho insegnato in una scuola per bianchi ricchi e l’ho raccontato: i miei studenti si sono così commossi che mi hanno portato 100 scatole di vestiti, tutti Armani e roba così. Immaginate quando in una povera riserva dell’Oklahoma i ragazzini indiani andavano in giro conciati così».
Ci mandarono contro gli schiavi neri
Veho (o wihio) è il modo nel quale i cheyenne definiscono i bianchi: significa vedova nera oppure nemico mortale. Ma questo significa che non ci sarà nessuna possibilità di convivere? «Quando gli schiavi neri ci vennero mandati contro, molti scapparono: nei nostri costumi di guerra videro i loro antenati… altri si unirono a noi, alcuni ci fecero guerra: questi ultimi noi li chiamiamo neri-bianchi», spiega Lance Henson, come se parlasse di fatti accaduti pochi giorni fa. «Per i neri, l’unica speranza di avere successo è diventare bianchi, oppure aveva ragione Malcom X, cioè devono riallacciarsi alle loro radici? Il simbolo del modo di vivere tradizionale è un cerchio, intersecato con altri (quelli di animali, acqua, piante). I governi Usa hanno sempre cercato di spezzare questi cerchi. Negli anni Trenta misuravano addirittura le percentuali di sangue rosso e i meticci venivano obbligati a scegliere da che parte stare. Tenerci divisi è la cosa più importante. La vedova nera è bellissima, ma porta la morte dove vive. Può comportarsi diversamente? La domanda non dovete porla ai nativi ma agli statunitensi. Noi cheyenne siamo cambiati; i veho vogliono farlo? Sapranno trovare un’altra cultura, altri valori che non siano i soldi? L’11 settembre è il culmine di qualcosa che è cominciato molto indietro nel tempo e poi si è ingigantito con Nixon e con il Wto. Gli Usa preferiscono stare in guerra con il mondo piuttosto che mettersi in discussione? Io credo che, se continuano così, il loro sistema inevitabilmente crollerà, ma bisogna vedere quanti danni farà prima. Bush e Kerry sono entrambi esponenti (il primo antico, il secondo recente) della «Società del teschio e delle ossa» che serve solo a tutelare gli interessi delle banche e dei più ricchi».
«Quattro anni fa, il New York Times scrisse una notiziola poi ripresa dal Lakota Times: per entrare nel giro importante, al giovane Bush venne chiesto di rubare il teschio di Geronimo. Capito che gente è questa?».
Daniele Barbieri e Milena Patuelli
Fonte:www.ilmanifesto.it
24.12.04