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DAL 1843, UN SETTIMANALE BRITANNICO IN PRIMA LINEA NELLA BATTAGLIA PER IL LIBERO SCAMBIO

DI ALEXANDER ZEVIN
monde-diplomatique.fr

Quali punti in comune tra il sostegno alla guerra in Iraq e la legalizzazione delle droghe, la condanna di WikiLeaks e quella del “Leviatano statale”, la celebrazione del liberismo e l’appello al salvataggio delle banche? Queste posizioni sono state tutte difese da una stessa pubblicazione : “The Economist”. La quale, ogni settimana tende uno specchio adulatorio alle classi dominanti.

Tetanizzata dallo sfaldamento continuo delle vendite, degli abbonati e delle entrate pubblicitarie, la stampa attraversa un periodo di crisi a cui i benefici d’Internet non hanno portato il rimedio atteso.
The Economist fa eccezione. Nonostante un recente rallentamento delle sue vendite, il settimanale britannico continua ad ostentare una salute di ferro, soprattutto negli Stati Uniti, dove oggi si concentra la maggior parte dei suoi lettori.

Un tale successo incuriosisce. La National Public Radio (NPR) americana si domandava nel 2006 come un giornale con un “titolo soporifero” e con “contenuti a volte esoterici” fosse riuscito ad aumentare del 13% il numero di lettori rispetto all’anno precedente.
Più recentemente, l’annuncio dei suoi numeri di distribuzione per il 2010 – 1,42 milioni di copie vendute per ogni numero, di cui 820.000 negli Stati-Uniti, dove le vendite sono moltiplicate per 10 dal 1982 – ha dato luogo ad una nuova bordata di commenti invidiosi.

Secondo il New York Times, queste successo si spiegherebbe grazie ad un acuto senso del marketing : l’elegante austerità del logo – lettere bianche in un rettangolo rosso -, aggiunta ad un prezzo di vendita relativamente alto, costituirebbero una sorta di distintivo sociale, uno mezzo con cui il lettore fortunato, o che si sogna tale, rende nota la sua appartenenza all’elite(1). Il settimanale non rinuncia a sostenere questa identificazione, come nella campagna pubblicitaria del 2007 : “Siamo soli in cima, ma almeno abbiamo qualcosa da leggere.”

A causa della sua ostinazione a blandire i desideri di nobiltà del consumatore, The Economist si era già attirato il sarcasmo del Washington Post nel 1991. Il giornalista James Fallows accusava la rivista londinese di sciorinare predicozzi preconfezionati a favore di un pubblico di privilegiati facilmente ingannato dall’ accento britannico e dallo “stile pomposo d’Oxbridge [contrazione delle parole Oxford e Cambridge](2).” L’allusione ad un certo elitarismo non era immeritata.

Secondo le sue stesse cifre, The Economist dispone dei lettori più ricchi della stampa americana (166.626 dollari di reddito annuo in media, contro i soli 156.162 dollari per i lettori del Wall Street Journal e i 45.800 dollari di reddito medio di una famiglia americana). Un bersaglio dorato per l’industria del lusso : nel 2007, il sito internet della rivista sottolineava con orgoglio che il 20% dei suoi lettori possedeva una cantina di vini d’annata e che il 4,7% aveva sborsato più di 3.000 dollari per un orologio. Allo stesso modo di un foulard di un grande stilista, The Economist agisce come distintivo di una comunità straordinariamente estesa. [The Economist – ndt] viene sfogliato sia dai potenti del primo mondo che dagli studenti che aspirano a raggiungerli, ed anche, sembrerebbe, dalla star di Tea Party, Mme Sarah Palin.

Fondato da un fabbricante di cappelli

Altri giornali, come il Columbia Journalism Review
imputano il suo successo alla qualità della scrittura o al modo di trattare l’attualità internazionale. Ma che lo critichino o che sognino di imitarlo, i commentatori condividono quasi sempre lo stesso approccio, consistente nello spiegare l’insolente prosperità del loro concorrente grazie alle sue scelte formali. Ora, la sua tendenza a crescere anche in tempi di crisi – e se ne vanta abbondantemente – non può ridursi ad una questione di stile o di marketing. Riposa in primo luogo su una politica editoriale chiaramente assunta: promuovere la “saggezza dei mercati” e combattere tutti gli interventi del potere pubblico.

I media americani tendono ad accreditare l’immagine che The Economist dà di se stesso, quello di un partigiano dell’ “estremo centro” e del buon senso economico. In un recente editoriale pubblicato a sostegno dei conservatori britannici, il settimanale affermava di non essersi “mai assoggettato ad un partito”, rivendicando comunque il suo “attaccamento di lunga data al liberalismo” – una posizione mai tradita dalla sua fondazione nel 1843, quando la Gran Bretagna era ancora la prima potenza economica mondiale.

Fondato da un fabbricante di cappelli, James Wilson, con l’obiettivo di ottenere l’abrogazione di una legislazione protezionista sul grano (le corn laws), The Economist ha sempre militato con fervore a favore del libero scambio.
All’epoca, si trattava di difendere gli interessi dell’ industria manifatturiera di Manchester contro le tasse doganali instaurate dal Parlamento nel 1815, dopo il crollo del prezzo dei cereali. La giovane lobby industriale britannica si preoccupava sia per le sue esportazioni – colpite da ritorsioni – sia per il costo della mano d’opera, che stava rivendicando una compensazione salariale a causa del rincaro del prezzo del pane. La controffensiva si concluse nel 1946 con l’annuncio delle leggi honnies. James Wilson poteva ritenersi soddisfatto : prima campagna di stampa, prima vittoria.

Il suo successore, Walter Bagehot, ampiò il pubblico del giornale aggiungendo un tocco di finezza a una prosa nota per la sua virulenza. La rubrica politica, da lui stesso redatta, gli serve come tribuna per chiedere incessantemente l’indipendenza della Banca d’Inghilterra. Cosa che sarà decisa solo nel 1997 – da M Anthony Blair -, portando a consacrazione storica l’appello lanciato da Bagehot più di un secolo prima. Di nuovo, The Economist vide trionfare una delle sue cause più care.

L’azionariato del giornale conferma il suo carattere istituzionale. Metà del pacchetto è detenuta da The Financial Times Limited (la società editrice del quotidiano britannico Financial Times, filiale del gruppo Pearson). Il resto appartiene ad azionisti indipendenti: le famiglie Cadbury, Rothschild e Schroder ed anche membri, o ex-membri, della redazione. In cento sessanta nove anni, sedici uomini soltanto si sono succeduti alla testa della testata. Dagli anni 1900, quasi tutti provengono da Oxford o da Cambridge.

Una caratteristica contribuisce alla coerenza della linea editoriale : gli articoli non sono firmati. Al di fuori di qualche collaborazione esterna e dello spazio preferenziale tradizionalmente affidato agli ex-collaboratori, i settanta giornalisti (di cui cinquanta circa nella sede londinese) lavorano nell’anonimato. Il successo dei loro blog non ha minimamente scalfito questa cappa d’invisibilità. “Ne consegue che le nostre scelte editoriali seguano un percorso notevolmente democratico”, ci spiega l’attuale redattore capo, Jonh Micklethwait. “L’assenza di firma favorisce anche la collaborazione tra giornalisti (3)”, ha sottolineato il precedente direttore di redazione, Bill Emmott. La precisazione non manca di pungente: fedele da un secolo e mezzo alla causa della concorrenza universale, il settimanale si affida al principio inverso – la cooperazione – per organizzare il suo lavoro.

Voltando le spalle alla City e a Fleet Streeth, sede storica dei grandi giornali londinesi, The Economist ha preferito trovare casa nel raffinato quartiere di Saint James. Facile immaginarvi i suoi lettori nell’atto di rilassarsi in un club privato, di degustare un vino pregiato, d’investire in un’opera d’arte contemporanea o di farsi confezionare il vestito su misura. Nel cuore di questa enclave del buon gusto milionario , l’edificio neo-brutalista del giornale sembra oggi fuori luogo come già appariva nel momento della sua costruzione nel 1964. Le tre torri irregolari che compongono questo edificio “didattico e secco”, secondo l’espressione dei suoi architetti, sembrano indirizzare allo stesso tempo un rimprovero e un omaggio alla magnificenza dei dintorni.

Un labirinto di piccoli uffici porta al santuario del redattore capo, dove i membri dell’equipe si stringono come sardine ogni lunedì per selezionare gli argomenti in attesa, scambiare battute e scegliere la foto di copertina. Su circa quaranta giornalisti presenti, circa un terzo sono donne e soltanto un quarto giovani di meno di trent’anni. La battuta secondo la quale The Economist sarebbe redatto da un manipolo di ragazzini non è confermata, essendo la maggior parte dell’equipe di mezza età.

Gideon Rachman, passato al Financial Times dopo quindici anni alla testata, sottolinea che si tratta di una tendenza recente : “All’inizio degli anni 1990, un giovane giornalista ambizioso considerava The Economist un buon trampolino per Fleet Street. Oggi, è piuttosto il contrario. The Economist propone buoni salari e un lavoro stabile, per cui i giornalisti con esperienza sgomitano per sollecitare un incarico.” La veneranda età del gruppo rinforza la sua omogeneità? Secondo Rachman, “la mancanza di diversità rappresenta piuttosto un vantaggio”. Favorisce l’intesa del gruppo e l’ortodossia dei punti di vista.

La perseveranza e la longevità costituiscono un vantaggio. Ma possono anche diventare un limite, come dimostra la reazione del settimanale alla crisi finanziaria del 2008. Certo, il giornale non ha perso la sua flemma. Mentre il ministro americano delle finanze Henry (“Hank”) Paulson implorava il suo presidente di rinsanguare Wall Street, [The Economist – ndt] sciorinava dottamente le sue soluzioni per rabberciare il mercato immobiliare, rimettere in movimento il credito e gli investimenti, soffocare l’aumento della disoccupazione e calmierare il mercato dei debiti sovrani. Il tono di distacco con il quale somministrava le sue soluzioni equivaleva ad un certificato d’onore : ne aveva già viste tante.

Durante il suo primo secolo d’esistenza, è stato testimone di più depressioni mondiali (dal 1873 al 1896, gli anni 1930), di un panico bancario (1907), di un crollo dei mercati (1929) e di una svalutazione storica della lira sterlina (1931), per citare solo i casi più noti di squilibrio economico. Il seguito non è stato più tranquillo, con la fine del sistema monetario di Bretton Woods, gli shock pretoliferi e le tante agitazioni regionali che hanno accompagnato il rallentamento della crescita nel corso degli anni 1970. Di fronte alla crisi finanziaria, The Economist ha quindi adottato il tipico comportamento della scimmia esperta che conosce tutte le possibili smorfie. Le sue raccomandazioni, comunque, non hanno brillato né per chiarezza né per costanza.

In quanto guardiano del tempio liberale, il giornale ha dimostrato una sorprendente mancanza di fermezza dottrinale.Con le debite riserve morali, ha prima applaudito il piano di salvataggio in favore delle banche. “E’ arrivato il momento di mettere da parte dogmi e politica e di concentrarsi su risposte pragmatiche, spiegava. Questo significa, a breve termine, un più forte intervento governativo di quello che vorrebbero in tempi normali i contribuenti, i politici e i giornali fedeli al libero scambio.” Gli elettori possono trovare a ridire di fronte a quei centinaia di miliardi versati a degli speculatori senza scrupoli ; di fatto, ritiene The Economist, il potere pubblico ha agito con saggezza : il suo intervento ha risparmiato ai cittadini l’incubo degli anni 1930, con i suoi fallimenti bancari e le sue code per la minestra per il popolo. “Nessun paese, nessuna industria uscirebbe indenne da una crisi cardiaca finanziaria”, sentenzia l’11 ottobre 2008.

Tre mesi più tardi, afferma che l’intervento pubblico è durato a sufficienza. E lancia quest’ allarme : nazionalizzare le banche “sarebbe un attentato alla proprietà privata”, incoraggerebbe il clientelismo politico, sperpererebbe una fortuna e penalizzerebbe il settore privato (24 gennaio 2009). Le sue stesse raccomandazioni si rivelano quindi contraddittorie. Da una parte, chiede una migliore coordinazione, specialmente all’interno della zona euro, per salvare le banche e prevenire un contagio della crisi del debito sovrano; dall’altra, si oppone a qualsiasi misura capace di dissuadere gli investitori dall’alimentare la crisi speculando contro gli Stati (9 dicembre 2010).

La sua unica proposta realmente coerente – a parte, naturalmente, i rituali appelli ad un maggior rigore budgetario e salariale – riguarda la mutualizzazione dei debiti europei attraverso le euro-obbligazioni, presentati come la soluzione miracolo. Ma l’idea è prestare a Bruegel, un think tank di Bruxelles presidiato fino al 2008 da M mario Monti, l’attuale presidente del consiglio italiano. il giornale aveva abituato i suoi lettori a maggior audacia.

Una scimmia esperta in tutte le smorfie

Le cause della crisi, loro, rimangono ampiamente impenetrabili. “Sono le persone che dirigono il sistema che bisogna biasimare, non il sistema”, intitola il giornale il 20 settembre 2010. Qualche mese prima, commentando l’impasse politica americana, invitava i suoi lettori a “biasimare Obama piuttosto che il sistema” (18 febbraio 2010). Dal momento che le strutture non sono mai in causa e che solo gli individui hanno dei conti da rendere, la distribuzione di buone e di cattive valutazioni sostituisce l’analisi : si critica aspramente il presidente del consiglio italiano Silvio Berlusconi per la sua corruzione, il capo dello Stato francese Nicolas Sarkozy per le sue troppo timide riforme, ma si applaudono le seriose competenze della cancelliera tedesca Angela Merkel.

Nell’ottobre 2008, qualche giorno dopo il crack di Wall Street, il settimanale sentenzia : “Il capitalismo è il miglior sistema economico che l’uomo abbia mai inventato.” E aggiunge : “A più lunga scadenza, la questione da capire è a chi sarà imputata questa catastrofe.” La deregolamentazione finanziaria non potrà essere considerata colpevole, anzi : nel gennaio 2012, in copertina, un’immagine di Londra attaccata dai dirigibili – allusione ai bombardamenti tedeschi della seconda guerra mondiale – illustra le sistematiche minacce che peserebbero sul più grande centro finanziario del mondo. “Salvate la City”, supplica il titolo (7 gennaio 2012).

Si impara molto leggendo The Economist.
Wilson, il suo fondatore, avrebbe apprezzato quale ruolo di un giornale quello di fornire informazioni attendibili e chiare per permettere ad industriali e politici di agire con cognizione di causa. La sua fu la prima testata a pubblicare le liste del prezzi all’ingrosso. Ancor oggi, vengono dedicate più pagine a tutta una serie di indicatori economici e finanziari : volume delle transazioni internazionali, previsione di crescita del prodotto interno lordo (PIB), emissione gas effetto serra…

La rivista londinese si distingue anche per la portata della sua copertura internazionale. E’ probabilmente l’unico settimanale al mondo capace di trattare in uno stesso numero di e-commerce in Cina, della macchina a soldi di Las Vegas, di “negoziati di pace” in Medio Oriente, della ricerca della vita su Marte, di un nuovo museo d’arte in Qatar e di uno sconosciuto esploratore sud-africano divorato da un coccodrillo. he Economist ha sempre nutrito ambizioni enciclopediche, come dimostra il titolo esteso che si era dato nel 1845 per sfruttare il successo della ferrovia : The Economist, settimanale commerciale, gazzetta dei banchieri & monitore della ferrovia. Giornale politico, letterario e generalista. Durante buona parte della sua esistenza, questa denominazione fu quasi altrettanto lunga dello stesso giornale : solamente cinquanta pagine negli anni 1920, ridotte a una dozzina negli anni 1940, quando la carenza di carta imperversava. Oggi, una copia conta circa un centinaio di pagine. L’abbondanza degli argomenti va di pari passo con un’esposizione breve : ad eccezione di qualche inchiesta speciale, gli articoli sono decisamente brevi.

Avara di parole, la prosa del giornale lascia trapelare una certa sufficienza, soprattutto verso chi non condivide il suo attaccamento ad un liberismo puro e duro. Il celebre economista americano Paul Krugman ne ha fatto le spese. Anche se poco sospetto per crociate anticapitalistiche , è spesso e volentieri definito con epiteti fioriti : “rozzo keynesiano”, “militante accanito”, “eroe popolare della sinistra americana nella sua torre d’avorio”, “Michael Moore delle persone che pensano” (13 novembre 2003).

Contrariamente al movimento di protesta contro l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) della fine degli anni 1990, giudicato “stupido”, “egoista” e assimilato a un “tentativo di impoverire il mondo emergente dal protezionismo”, [il movimento – ndt] Occupy Wall Street beneficia dell’indulgenza de The Economist. Le sue proteste sarebbero difatti “legittime e ben radicate”, poiché dirette in realtà verso “lo Stato obeso” e basterebbe “liberalizzare l’economia” per darne soddisfazione. Non sono sicuro che i dimostranti di Zuccotti Park e della Puerta del Sol si possano riconoscere in questa descrizione.

Quando il malessere invade le piazze, The Economist è in genere incline a vederci soltanto una fiammata di agitazione giovanile. Da cui il fiasco fragrante del suo modo di decifrare la rivoluzione tunisina : aveva concluso un po’ troppo in fretta che una minoranza di studenti e di sindacalisti non aveva nessuna possibilità di rovesciare il presidente Zine El-Abidine Ben Ali (6 gennaio 2011). Il quale fu prontamente lodato per l’ampiezza delle sue “concessioni” di fronte a “folle pacifiche”, quando invece si contavano già duecento trenta quattro manifestanti uccisi (26 febbraio 2011).

Il settimanale preferito delle elites economiche prova poca simpatia per le elites dell’università. Le sue critiche sono talvolta ben dettagliate : un reportage descriveva nel 2010 le precarie condizioni dei laureati americani, sfruttati dagli atenei per effettuare a basso costo dei rapporti “di eccellenza” vantando le percentuali di riuscita agli esami, le ultime tendenze delle loro ricerche di dottorato, ecc. Salvo che The Economist ne deduceva la necessità non tanto di migliorare il finanziamento dell’insegnamento superiore, in vista ad esempio della creazione di cattedre di titolare, ma di diminuire il numero dei dottorati (16 dicembre 2010). Quattro anni prima, scherniva gli “eredi di Derrida e di Foucault” che, quando non perdono il loro tempo a ricamare su “oscuri” soggetti quali la “decostruzione” o l’ “intersemiotica”, moltiplicano le ricerche consacrate a …The Economist (16 dicembre 2004).

L’anti-intellettualismo resta un valore sicuro, a giudicare da un recente riferimento al filosofo Louis Althusser, la cui vita ed opera si riassumono in una formula: “marxista folle assassino della moglie (4)” (12 agosto 2010).

Parentesi Pluralista

The Economist incarna veramente questo insieme ideale di liberismo economico, sociale e politico che il suo capo redattore, Micklethwait, non cessa di vantare al pubblico americano? Il giornale non sembra essersi accorto che la libertà di commercio aveva preceduto le libertà sociali e democratiche, per la conquista delle quali i popoli hanno spesso pagato un pesante tributo. E il libero scambio che predica non ha sempre reso l’economia né più efficace né più umana, al contrario. James Wilson militava contro i boicottaggio commerciale dei paesi schiavisti, pensando che tale misura avrebbe danneggiato sia i consumatori britannici che gli stessi schiavi. In seguito raccomandava più libero scambio per salvare l’Irlanda in preda alla carestia (5). Quando questa soluzione fallì, The Economist fustigò gli Irlandesi per la loro ingratitudine e raccomandò una repressione più severa.

Se la filosofia liberare deve regnare sovrana sull’economia, essa ammette in compenso qualche eccezione sul piano politico. Bagehot si felicitò del colpo di Stato di Napoleone III nel 1851, giudicando la mentalità francese – “eccitabile, volatile, superficiale, esasperatamente logica, incapace di compromesso” – incompatibile con la grazia parlamentare del modello inglese (6). Questa diffidenza verso la Francia rimane attuale, poiché, durante la campagna presidenziale della primavera 2012, The Economist descriveva il candidato François Hollande come un “uomo pericoloso”, capace di “fare molti danni”, mosso da una “profonda ostilità verso il mondo dell’impresa”, e il Partico socialista, a tutt’oggi “non riformato”, come desideroso di portare il paese alla “rottura” con la Germania (28 aprile).

Bagehot fece prova della stessa perspicacia al momento dello scoppio della guerra civile negli Stati Uniti. Prima tentato da un atteggiamento interventista, applaudì la dichiarazione d’indipendenza degli Stati Confederati sudisti nel 1860, negando che lo schiavismo avesse potuto giocare un ruolo nel conflitto e si rallegrò della divisione del paese in due entità “meno aggressive, meno insolenti e meno irritabili” – e soprattutto disposte a vendere a prezzo meno caro il loro cotone alle filature di Manchester (7).

A dispetto di qualche distorsione al suo credo liberale, The Economist è rimasto fedele lungo tutto il XIXmo secolo a tre principi chiave : imporre il libero scambio, accettare qualche riforma sociale per contenere la febbre rivoluzionaria, assicurare la pace del continente.

A partire dalla seconda guerra mondiale, il settimanale tende ad un aggiornamento del suo corpus ideologico. Nel 1940, più di un articolo lascia intendere che potrebbe essere favorevole allo Stato assistenziale; un modo per ammettere che il liberismo alla James Wilson non paga più. In una raccolta di articoli pubblicata per il centenario del giornale, nel 1943, il direttore Geoffrey Crowther, si dimostra conciliante : il lasciar fare economico, dice, genera ineguaglianze e insicurezza che solo l’intervento pubblico è in misura di correggere. Ma The Economist non si allinea per questo al punto di vista socialista. Non tanto “per i loro obiettivi, ma per i mezzi attraverso i quali sperano di raggiungerli (8)”. Questa magnanimità dottrinale gli permetterà di arricchirsi di un ampio ventaglio di talenti ed opinioni. Molti rifugiati anti-nazisti raggiungeranno la redazione, tra di loro – incredibilmente – due intellettuali marxisti, lo storico Isaac Deutscher e lo scrittore Daniel Singer. La parentesi pluralista si chiude negli anni 1960, e il giornale riprende il suo corso destrorso.

Oggi, il modello sociale ereditato dal dopo-guerra, è visto come un ostacolo alla crescita, e quindi come un nemico da combattere. I sindacati sono i primi ad essere presi di mira. Nel 2011, The Economist spiegava che, per colmare il deficit budgetario del Regno-Unito, non era sufficiente ritardare l’età pensionabile dei dipendenti statali e di ridurne le pensioni : la “guerra con i sindacati del pubblico impiego” imponeva anche dei premi di produttività supplementare e la generalizzazione della flessibilità dei contratti e di quelli a tempo parziale (6 gennaio 2011). Cinquant’anni prima, tale articolo sarebbe stato inconcepibile.

In ogni modo, è in politica estera che il cambiamento del giornale è stato più significativo. Alla fine del XIXmo secolo e all’inizio del XXmo, il suo sostegno all’Impero britannico era dettato più dalla prudenza che dallo sciovinismo. Se era il caso, non esitava a querelare Cecil Rhodes, il fondatore della Rodesia, o Neville Chamberlain, futuro primo ministro, ai quali veniva rimproverato di rovinare i paesi a causa delle loro spese coloniali. Dal 1919 al 1939, il settimanale sostiene senza sosta il rinforzamento della Società delle nazioni a fianco della Germania, dell’Unione sovietica e degli Stati Uniti (9). Nel 1956, quando denuncia l’invasione franco-inglese del canale di Suez, non è tanto per avversione verso gli intrighi imperiali, ma piuttosto per deferenza verso gli Stati Uniti, contrari alla spedizione (10).

Da quel momento in poi, l’allineamento con Washington costituirà il nuovo filo conduttore. Uno dopo l’altro, i responsabili del giornale applaudiranno ogni iniziativa militare della Casa Bianca, in Vietnam come in Iraq, in ex-Jugoslavia come in Afghanistan. Mai The Economist ha trattato M Barack Obama con maggior deferenza di quando inviava rinforzi a Kabul o aerei da ricognizione assassini in Pakistan. Anche sull’ Iran e sul Nord-Corea, si accoda alla linea dura del governo americano, irritandosi con l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) forzatamente pusillanime e burocratico.

La copertura dell’America latina subisce lo stesso trattamento, soprattutto per i paesi con governo di sinistra, ed in particolare per il Venezuela. Dal 1998, il suo presidente, M Hugo Chavez, ha vinto tredici delle quattordi elezioni nazionali in condizioni giudicate soddisfacenti dagli osservatori; non per questo, The Economist non smette di sollevare il “timore che il Venezuela scivoli sempre di più verso una dittatura” (23 settembre 2010, 5 gennaio 2012). Le sue fonti? La stessa opposizione e i media privati che, con il sostegno degli Stati Uniti, hanno fomentato il colpo di Stato fallito nel 2002.

Altro indice della comunanza di opinioni con la diplomazia americana : la reazione del settimanale alle rivelazioni di WikiLeaks e al caso Julian Assange. Invece di cogliere l’occasione e di pronunciarsi a favore di una grande causa liberale, la libertà d’informazione, preferisce difendere il diritto di Washington di punire quelli che svelano i suoi segreti, che siano o meno dei “giacobini informatici” a capo di “sette” (9 dicembre 2010).

In un cero modo, ha riabbracciato il liberalismo della sua gioventù. Sul ruolo dello Stato, la saggezza infallibile dei mercati e i pericoli della contestazione, le sue posizioni non si differenziano molto da quelle che predicavano i grandi editorialisti vittoriani. Eccetto che, oggi, vengono espresse in modo più indiretto. Il liberalismo è cambiato, come lo dimostra la stretta alleanza con gli interessi americani. Libero dell’accusa di sciovinismo, il giornale si entusiasma per le campagne militari le cui ragioni, umanitarie patriottiche o economiche, gli sarebbero apparse altamente sospette durante il dominio britannico. Il suo attuale direttore, formato nelle banche americane, è un mero prodotto di questa nuova linea editoriale dove si mescolano il liberalismo dei giorni tranquilli e la sua variante contemporanea.

Forte di più di un secolo e mezzo d’esistenza, il porta-bandiera dell’economia dominante si legge in tutto il pianeta – ad eccezione dell’Africa. Un impero infinitamente più vasto di quello dei suoi avi inglesi.

Alexander Zevin (Storico, università della California a Los Angeles)
Fonte: http://www.monde-diplomatique.fr/
Agosto 2012

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ARMORIQUE

NOTE

(1) “The Economist tends its sophisticated garden”,
The New York Times, 8 agosto 2010. In Francia
The Economist è venduto a 5.80 euro, contro i 3.50 euro delle riviste simili.
(2) “The economics of the colonial cringe”, The Washington Post, 6 ottobre 1991.
(3) Citato da Liberation,Paris, 8 agosto 2003.
(4) Il filosofo (1918-1990) ha strangolato sua moglie nel 1980.
(5) Leggere Ibrahim Warde, “Quand le libre-échange affamait l’Irlande”, Le Monde diplomatique, giugmo 1996
(6) The Collected Works of Walter Bagehot, Oxford University Press, 1986, volume 4, pagina 81.
(7) Cf le edizioni del 19 gennaio 1861, 29 giugno 1861, 28 settembre 1861 e 11 luglio 1863.
(8) The Economist, 1843-1943 : A Centenary Volume, Oxford University Press, 1944, pagine 13-15.
(9) Nello stesso periodo, la rivista pubblica centocinquanta articoli chiedendo una maggiore sicurezza e dei freni alla corsa agli armamenti. Graham Hutton, “The Economist and foreign affairs”, in The Economist, 1843-1943, op.cit.
(10) cf edizione del 6 ottobre 1956

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