TERRORIZZATI DALLA ‘GUERRA AL TERRORISMO’

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DI ZBIGNIEW BRZEZINSKI
Washington Post

Com’è che un mantra di tre parole ha compromesso l’America

La “guerra al terrorismo” ha creato una cultura della paura in America. L’elevazione di queste tre parole, da parte dell’amministrazione Bush, a un mantra nazionale, a partire dagli orribili eventi dell’11/9 ha avuto un impatto dannoso sulla democrazia americana, sulla psiche americana e sulla reputazione degli USA nel mondo. L’uso di questa frase ha di fatto minato la nostra capacità di confrontarci efficacemente con le vere sfide poste a noi da fanatici che potrebbero usare il terrorismo contro di noi.

Il danno che queste tre parole hanno fatto – una classica ferita autoinflitta – è infinitamente più grande di qualunque sogno selvaggio abbiano mai fatto i fanatici perpetratori degli attentati dell’11/9 quando stavano cospirando contro di noi in lontane caverne afgane. L’espressione stessa è insignificante. Non definisce né un contesto geografico né i nostri presunti nemici. Il terrorismo non è un nemico ma una tecnica di guerra: l’intimidazione politica attraverso l’uccisione di non combattenti inermi.Ma il piccolo segreto qui potrebbe essere che la vaghezza dell’espressione era stata deliberatamente (o istintivamente) calcolata dai suoi fautori. Il costante riferimento a una “guerra al terrorismo” ha raggiunto un obiettivo principale: ha stimolato l’emergere di una cultura della paura. La paura oscura la ragione, intensifica le emozioni e facilita ai politici demagogici la mobilitazione del pubblico a favore delle politiche che gli stessi politici vogliono realizzare.

La guerra scelta in Iraq non avrebbe mai potuto ottenere l’appoggio congressuale che ha avuto senza il legame psicologico con lo shock dell’11/9 e la supposta esistenza delle armi di distruzione di massa irachene. L’appoggio al Presidente Bush nelle elezioni del 2004 era anche stato mobilitato in parte dalla nozione che “una nazione in guerra” non cambia il suo comandante in capo nel mezzo della mischia.

Il senso del pericolo pervasivo ma anche imprecisato veniva così incanalato verso una direzione politicamente opportunistica attraverso l’appello mobilitante per cui si era “in guerra”.

Per giustificare la “guerra al terrorismo” il governo ha in seguito prodotto una falsa narrazione storica che potrebbe persino diventare una profezia che si avvera da sé. Affermando che la sua guerra è simile a precedenti lotte degli USA contro il Nazismo e lo Stalinismo (ignorando, nel contempo, che sia la Germania nazista sia la Russia sovietica erano potenze militari di primo piano, uno status che Al Qaeda non ha né può raggiungere) l’amministrazione potrebbe fabbricare le argomentazioni per la guerra con l’Iran. Tale guerra allora affonderebbe l’America in un conflitto prolungato che spazierebbe dall’Iraq, all’Iran, all’Afghanistan e forse anche al Pakistan.

La cultura della paura è come un genio uscito dalla lampada. Acquista una vita propria, e può diventare demoralizzante. L’America oggi non è la nazione fiduciosa in sé e determinata che ha risposto a Pearl Harbor; né è l’America che ha sentito da un suo leader, in un altro momento di crisi, le potenti parole “la sola cosa che abbiamo da temere è la paura stessa”; [*] né è l’America calma che ha fatto la Guerra Fredda con calma perseveranza nonostante sapesse che una vera guerra avrebbe potuto iniziare all’improvviso nel volgere di alcuni minuti e portare alla morte di 100 milioni di americani nel giro di alcune ore. Noi ora siamo divisi, incerti e potenzialmente molto suscettibili al panico in caso di un altro atto terroristico negli stessi Stati Uniti.

Questo è il risultato di cinque anni di quasi continuo lavaggio del cervello nazionale sul soggetto del terrorismo, completamente diverso dalle più attenuate reazioni di varie altre nazioni (Gran Bretagna, Spagna, Italia, Germania, Giappone, per citarne solo alcune) che hanno subito dolorosi attacchi terroristici. Nella sua ultima giustificazione per la guerra in Iraq, il Presidente Bush afferma persino, in modo assurdo, di averla iniziata per impedire che Al Qaeda non attraversasse l’Atlantico per lanciare una guerra terroristica qui negli Stati Uniti.

Questo incitamento alla paura, rinforzato dagli imprenditori dei servizi di sicurezza, dai mass media e dall’industria dell’intrattenimento, si autorinforza. Gli imprenditori del terrorismo, solitamente descritti come esperti di terrorismo, sono necessariamente impegnati in competizioni per giustificare la loro esistenza. Quindi il loro compito è di convincere il pubblico che si trova di fronte a nuove minacce. Questo premia coloro che presentano scenari credibili di sempre più terrificanti atti di violenza, talvolta anche con i piani per la loro realizzazione.

È difficile dubitare del fatto che l’America sia diventata insicura e più paranoide. Un recente studio ha riportato che nel 2003 il Congresso ha identificato 160 siti come bersagli nazionali potenzialmente importanti per aspiranti terroristi. Con l’intervento dei lobbisti, per la fine di quell’anno l’elenco è cresciuto a 1.849; alla fine del 2004, a 28.360; nel 2005, a 77.769. Il database nazionale dei possibili bersagli ora presenta qualcosa come 300.000 siti, inclusa la Sears Tower di Chicago e una “Sagra della Mela e del Maiale” nell’Illinois.

Solo l’ultima settimana, qui a Washington, mentre andavo a visitare un ufficio giornalistico, sono dovuto passare attraverso uno degli assurdi “posti di controllo per la sicurezza” che sono proliferati in quasi tutti gli uffici degli edifici privati, in questa capitale e a New York City. Una guardia in uniforme mi ha chiesto di riempire un modulo, mostrare una carta d’identità e in quel caso di spiegare per iscritto gli scopi della mia visita. Un terrorista in visita indicherebbe per iscritto che ha lo scopo di “far esplodere l’edificio”? La guardia sarebbe in grado di arrestare tale bombarolo reo confesso e aspirante suicida? A rendere le cose ancora più assurde, i grandi supermercati, con le loro folle di consumatori, non dispongono di nessuna procedura paragonabile. Lo stesso vale per sale da concerto e i cinema. Eppure tali procedure di “sicurezza” sono diventate di routine, con spreco di centinaia di milioni di dollari e ulteriori tributi a una mentalità da assedio.

Il governo a ogni livello ha stimolato la paranoia. Si considerino, per esempio, i pannelli elettronici sulle autostrade, che esortano gli automobilisti a “riferire su attività sospette” (automobilisti con turbante?). Alcuni mass media hanno fatto la loro parte. I canali televisivi e alcuni media su carta stampata hanno scoperto che gli scenari terrificanti attraggono spettatori e lettori, mentre gli “esperti” di terrorismo come “consulenti” forniscono il marchio di autenticità per le visioni apocalittiche dispensate al pubblico americano. Di qui la proliferazione di programmi con “terroristi” barbuti che fanno la parte dei cattivi principali. Il loro effetto generale è di rinforzare il senso del pericolo ignoto ma latente che si dice minacci sempre più le vite di tutti gli americani.

Anche l’industria dell’intrattenimento si è messa all’opera. Ed ecco, quindi, serie televisive e film in cui i personaggi malvagi hanno tratti arabi riconoscibili, talvolta sottolineati da gestualità religiose, che sfruttano le ansie del pubblico e stimolano l’islamofobia. Gli stereotipi facciali arabi, in particolare nelle vignette dei quotidiani, sono stati resi, talvolta, in maniere che ricordano tristemente le campagne antisemitiche naziste. Ultimamente, anche alcune organizzazioni studentesche dei college sono state coinvolte in tale propaganda, apparentemente dimentica della minacciosa connessione fra la fomentazione degli odi razziali e religiosi e i crimini senza precedenti dell’Olocausto.

L’atmosfera generata dalla “guerra al terrorismo” ha incoraggiato la persecuzione legale e politica degli americani arabi (in genere americani leali) per comportamenti che non sono stati solo i loro.

Un caso esemplare è la notizia di persecuzione del Council on American-Islamic Relations (CAIR) per i suoi tentativi di emulare, senza molto successo, l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC). Alcuni repubblicani della Camera hanno descritto i membri del CAIR come “apologeti del terrorismo” a cui non si dovrebbe permettere di usare una sala riunioni del Campidoglio per un dibattito consultivo.

La discriminazione sociale, per esempio nei confronti dei passeggeri di aerei musulmani, è stata anch’essa un’involontaria conseguenza. Non sorprende che si sia intensificata l’animosità nei confronti degli USA persino fra musulmani altrimenti non particolarmente interessati di Medioriente, mentre la reputazione dell’America come un leader nella creazione di relazioni interrazziali e interreligiose costruttive ne ha risentito molto.

Le cose sono ancora più problematiche nell’area generale dei diritti civili. La cultura della paura ha alimentato l’intolleranza, i sospetti sugli stranieri e l’adozione di procedure legali che minano le nozioni fondamentali della giustizia. La presunzione di innocenza fino a prova di colpevolezza è stata diluita se non cancellata, con alcuni – persino cittadini statunitensi – incarcerati per lunghi periodi senza un dovuto e pronto accesso a un equo processo.

Non esistono prove note e sicure che tali eccessi abbiano impedito significativi atti terroristici, e le condanne di aspiranti terroristi di qualunque sorta sono state poche e a lunghi intervalli di tempo l’una dall’altra. Un giorno gli americani si vergogneranno di queste cose allo stesso modo in cui ora si vergognano di precedenti esempi, nella storia degli USA, di panico che provoca l’intolleranza contro le minoranze.

Nel contempo, la “guerra al terrorismo” ha gravemente danneggiato gli USA a livello internazionale. Per i musulmani, le somiglianze fra il violento trattamento dei civili iracheni da parte dell’esercito statunitense e dei Palestinesi da parte degli Israeliani ha provocato un diffuso senso di ostilità nei confronti degli USA in generale. Non è la “guerra al terrorismo” a mandare in collera i musulmani che guardano le notizie in televisione, ma è la vittimizzazione dei civili arabi. E il risentimento non si limita ai musulmani. Un recente sondaggio della BBC su 28.000 persone in 27 paesi, che richiedeva agli intervistati una valutazione del ruolo degli USA negli affari internazionali, ha avuto come risultato che Israele, Iran e gli USA sono stati considerati (in quell’ordine) come gli Stati con “l’influsso più negativo sul mondo”. Ahimè, per alcuni è quello il nuovo asse del male!

Gli eventi dell’11/9 avrebbero potuto avere come risultato una solidarietà autenticamente globale contro l’estremismo e il terrorismo. Un’alleanza globale di moderati, inclusi i musulmani, impegnati in una campagna finalizzata sia a estirpare le specifiche reti terroristiche sia a porre fine ai conflitti politici che generano il terrorismo, sarebbe stata più produttiva di una “guerra al terrorismo” contro “l’islamo-fascismo” degli USA per lo più solitaria e proclamata in modo demagogico. Solo un’america fiduciosamente determinata e ragionevole può promuovere una sicurezza internazionale genuina che quindi non lascia spazio politico al terrorismo.

Dov’è il leader statunitense pronto a dire: “Basta con questa isteria, fermiamo queste paranoie”? Anche di fronte ai futuri attacchi terroristici, di cui non si può negare la possibilità che avvengano, cerchiamo di mostrare un po’ di buon senso. Cerchiamo di essere fedeli alle nostre tradizioni.

Zbigniew Brzezinski, consigliere alla sicurezza nazionale del Presidente Jimmy Carter, è l’autore del recente libro Second Chance: Three Presidents and the Crisis of American Superpower (Basic Books). Attualmente insegna Politica estera americana alla Johns Hopkins University’s School of Advanced International Studies, studioso al Center for Strategic and International Studies.

Fonte: www.washingtonpost.com
Link: http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2007/03/23/AR2007032301613.html?sub=AR
25.03.07

SCELTO E TRADOTTO DA GIOVANNI BERTINI

[*] Parole di Franklin D. Roosevelt. [N.d.T.]

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