Di Patrizia Ligabò, ComeDonChisciotte.org
L’avvento della cultura di massa ha indotto gli intellettuali ad un distacco dalla società. La ferrea convinzione della loro superiorità, produce distanziamento, chiusura verso il popolo e la sua realtà. Questo distacco, avvenuto dopo la seconda guerra mondiale, sembra aver portato la cultura ad una grande trasformazione. La preoccupazione di Eugenio Montale ”La poesia in futuro non sopravviverà!” (1), da lui palesata nel ritirare il premio Nobel nel 1975, si rivelerà fondata.
Come può la società odierna così consumistica, di spettacolo, abitata da un esibizionismo isterico, trovare spazio per una cosa così delicata come la poesia?
Al moderno si sussegue il post- moderno soprattutto negli anni ’70, quando i caffè letterari sopravvissuti sono già rarità. Ad esempio, Il Giamaica, nel quartiere Brera di Milano, dove gli intellettuali si riuniscono per discutere e confrontarsi.
Il decennio precedente era stato principalmente caratterizzato dal boom economico, e da un nuovo benessere, mentre i ’70 sono permeati da un senso di sconfitta, di abbandono degli atteggiamenti di rottura e di contestazione contro il sistema e la società.
Gli intellettuali, quasi privi di idee, lavorano su testi e stili del passato che vengono citati e riuniti spesso in modo disimpegnato e scherzoso. Se la prima parte del ‘900 aveva visto formarsi diversi movimenti poetici come crepuscolari e futuristi, la seconda parte risulterà molto meno produttiva e creativa.
La poesia ermetica si avvaleva di un linguaggio difficile, ricercato, simbolista, almeno fino alla seconda guerra mondiale. Montale, al contrario, si distingue proprio poiché descrive la vita ordinaria, non il suo lato straordinario.
Durante il ‘900, la poesia diventa sperimentazione: una rottura netta e voluta col secolo precedente. Da qui in avanti, si preferisce il verso libero, la poesia è carica d’energia. Vi è l’esaltazione della caducità e fragilità dell’esistenza umana e l’affermazione dei suoi valori. Il poeta è il testimone del dolore del mondo, Ungaretti docet.
“Mentre la belle epoque tramonta , si palesa il disagio della cultura”. Sosteneva Sigmund Freud (2). Non è un caso l’opera“ Il ritratto di Dorian Gray”: ciò che Oscar Wilde vuol dire, è che l’estetismo e la bella vita non sono eterni, e che senza contenuti non si sarà ricordati nel tempo. Se va bene, viviamo d’apparenza fisica una media di trent’anni. Altrimenti venti, se ci limitiamo a considerare l’esteriorità.
Al contempo, nello stesso secolo, l’arte perde lo scettro, e viene mercificata, diviene oggetto di svago per la nuova borghesia, e viene banalizzata. Vi è più disponibilità economica, e più tempo libero per il divertimento. Non tutti i poeti lo accettano, ed alcuni si ribellano. In Francia i poeti maledetti, in Italia saranno gli scapigliati.
Nascono i dandy, costoro disprezzano la società, ma proprio grazie ad essa, esistono.
I poeti perdono importanza, personaggi come Antonio Gramsci l’intellettuale – ideologo, e figure simili sono dimenticate o sminuite. Essi non sono più i rappresentanti di morale e civiltà, non è più presente la tematica esistenziale, l’Io, lo stato d’animo. I sentimenti sono mandati in esilio.
Tuttavia, una piccola rappresentanza di intellettuali cercherà di recuperare un proprio ruolo, attraverso la fondazione di riviste politico culturali engagéés. Una nicchia di pensatori idealmente molto legata al mondo del lavoro, che sarà una delle tematiche centrali da loro affrontate.
Nel 1956 nasce la rivista Officina, ad opera di Pasolini, Leonetti e Roversi. Con essa, ci si vuole contrapporre sia al Neorealismo che al Novecentismo, ossia la tradizione lirico-simbolico-ermetica e proporre lo sperimentalismo, e forme di scrittura nuove. Molti non condivideranno l’impegno contenutistico proposto da Pasolini, che presto dichiarerà: “Non acquisto più i giornali, per non leggere le stupidate che scrivono per riempirli” (3). Commento che fa molto pensare al ruolo che ebbe allora la stampa italiana. Nel terzo millennio… è davvero così diverso?
Purtroppo un personaggio di uno spessore enorme, preparazione ed etica come Pasolini ci lascerà presto, e la nostra cultura perderà una grandissima opportunità. Il suo intuito, frutto di una sensibilità acutissima fin dalla nascita, e non certo di un caso, gli permetterà di prevedere quaranta anni prima, ciò che stiamo vivendo oggi.
Ancora anni Settanta: a Palermo, si forma il movimento letterario Gruppo 63, e la Neoavanguardia diventa a questo punto il fatto più nuovo. Essa propone il pastiche, ossia un montaggio linguistico come unico atto rivoluzionario del linguaggio possibile. Ma in pochi anni, anche questo fermento intellettuale nato in terra sicula, andrà ad esaurirsi.
Alla fine degli anni ’80, si presenterà una crisi senza precedenti dal dopoguerra. Le industrie, attraverso processi di tecnologizzazione del lavoro, tendono ad eliminare mano d’opera; insomma, si entra nella fase della mondializzazione dell’economia. L’informatica acquista un ruolo di primo piano in un nuovo tipo di produzione: la produzione dell’informazione, della cultura, e dell’intrattenimento.
La cultura diviene una nuova merce. Il modo di vivere – il tempo, lo spazio e le distanze – cambia totalmente. L’universo dei linguaggi diventa evanescente, l’esperienza reale e vitale è rimpiazzata da quella virtuale. Trionfa il “post- moderno“, il risultato della difficoltà di avere rapporti umani veri e confronti civili.
Non tutti lo accettano, né tutti si sentono rappresentati dalla massificazione, che ci vorrebbe ognuno fotocopia dell’altro. La crisi è, in parte, dovuta al mancato ritorno all’impegno sociale vero e serio.
Tuttavia, bisogna ammettere che esistono nuovi tipi di linguaggi di comunicazione, e con essi è necessario confrontarsi. Sorgono nuovi tentativi di diffondere la poesia, anche alternata, con altre performances artistiche. Nell’ultimo decennio si sono molto diffusi gli slam poetry. Con questi eventi, si tenta di trovare notorietà attraverso la tv. A mio avviso, la televisione non è l’ambiente più adatto alla poesia, imprigionata fra blocchi pubblicitari che la mercificano, che le tarpano le ali. In teatro, in biblioteca, in libreria, in luoghi pubblici in cui avviene l’incontro dal vivo fra i vivi, ciò non avverrebbe.
Prendiamo ancora Milano: la maggioranza degli habitat poetici (con rare eccezioni, come la casa museo di Alda Merini) sono ambienti prettamente maschili.
Eppure, è nato il primo Poetry Club femminile. Fondato da Acelya Yonac e composto anche da Alice Bertolasi e Francesca Ferraro. Il nome del gruppo è Le Foche Parlanti, e si deve alla mitologia del Nord Europa: esso ha a che fare con il femminile, e con il potere della parola.
Prima del lockdown, si esibivano – a cadenza mensile – presso La Librosteria in Piazza Cesariano: hanno saputo creare un senso di comunità, di bellezza, di condivisione, un ritrovo. Molto generosamente, cedevano metà del loro tempo a microfono aperto per chi gradiva esibirsi: un qualcosa di molto raro. L’aspetto più rilevante è che non vi era alcuna competizione: tutti i partecipanti erano considerati sullo stesso piano. La condivisione dell’appuntamento culturale era di tutti, anche di chi voleva esibirsi con altre performances.
E allora diventa fertile anche la grande amicizia, come dimostrano Acelya, Alice e Francesca. In tempi di distanziamento sociale, l’idea del loro Poetry Club è più vitale che mai. In attesa di tornare dal vivo, fra i vivi.
Le Foche Parlanti lavorano sulla parola in maniera del tutto illegale rinnovando spazi, voci, e forme espressive. È un processo che, dalle varie fasi di maturazione e dalla vulnerabilità dell’atto creativo, conduce alla possibilità di dar voce a testi inediti. È illegale nel suo seminare parole con libertà, accoglienza e coraggio tramite il passaparola.
Noi siamo esseri sociali, abbiamo bisogno dello scambio, del confronto e del civile scontro.
Abbiamo bisogno della creatività, e di conoscere, non solo di esibirci. Invece, parrebbe che apprendere interessi di meno, mentre essere al centro dell’attenzione piaccia molto di più: le nostre società soffrono un disturbo narcisistico abbastanza evidente.
Ascoltare attentamente altri poeti, osservare altri artisti, può stimolare invece la nostra creatività, si possono apprendere nuove forme espressive, o tecniche.
Tutti coloro che gradiscono contribuire portando bellezza nel mondo, sono comunque sempre benaccetti.
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I consueti consigli di lettura, se gradite: “Poesia contemporanea dal 1980 a oggi” Di Andrea Afribo, Edizioni Carocci. “Il lungo amore del secolo breve. Saggi sulla poesia novecentesca”. Di Ramat Silvio, Edizioni Cesati.
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L’occasione mi è gradita per fare a tutti i migliori auguri di buon anno, con più poesia.
Di Patrizia Ligabò, ComeDonChisciotte.org
IGNORANTE
NOTE
(1) = Corriere della Sera, 24 ottobre 1975
(2) = S. Freud, Il disagio delle civiltà ed altri saggi, 1930
(3) =“Il vuoto del potere in Italia”, rubrica Tribuna aperta, Corriere della Sera, 01.02.1975
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Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org
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