DI MASSIMO FINI
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Ho incontrato per la prima volta Susanna Agnelli nel luglio del 1974. Era da pochi giorni sindaco di Monte Argentario e mi parve interessante andarla a intervistare, per l’Europeo. Il mio articolo cominciava così: «Il profilo ha da rapace». La somiglianza fisica col fratello Gianni era infatti impressionante. Ma molto diversi erano i caratteri. Istintivamente simpatica, fresca nonostante i suoi 52 anni e i sei figli, tornata da non molto dall’Argentina dove aveva vissuto a lungo col marito Urbano Rattazzi (ma a quell’epoca ne era separata e filava con lo scrittore Cesare Garboli) non aveva ancora introiettato l’ipocrita «politically correct» italiano, era quasi naif per il nostro mondo, raccontava storie esilaranti e dava giudizi sarcastici su tutti e su tutti, in particolare sui suoi parenti, il fratello Umberto e gli odiati cugini Nasi. Solo l’Avvocato, per il quale nutriva un’ammirazione senza riserve da adorante sorella minore, benché fra loro ci fosse appena un anno di differenza, godeva del privilegio assoluto di essere l’Intoccabile. Del resto l’attaccamento fra i due fratelli era comprensibile: dopo la morte del padre Edoardo si erano trovati giovanissimi, men che ventenni, a sostenere, come primogeniti, il peso della famiglia.In quell’intervista la feci parlare molto di Gianni Agnelli che allora, sul versante privato, era ancora un oggetto piuttosto misterioso. Mi raccontò che Gianni aveva letto un solo romanzo in vita sua, “Il vecchio e il mare” («Sostiene che preferisce vivere piuttosto che leggere»), che aveva un grande «sense of humor» e mi riferì anche un sarcastico giudizio su Giovanni Spadolini, che era il segretario del Pri, il partito di Suni. La mattina dopo, rendendosi conto di averla fatta un po’ grossa, mi telefonò prestissimo in albergo pregandomi di togliere quel giudizio. Risposi di no, ma lei non me ne volle. In un’intervista di poco successiva le chiesi: «Se non fosse presidente della Fiat, che cosa sarebbe stato suo fratello?» «Se non fosse presidente della Fiat, mio fratello sarebbe stato sicuramente comunista». Il giorno dopo l’uscita del giornale in Fiat scoppiò il finimondo. Ma Suni diceva queste cose con una tale grazia, oserei dire con innocenza, che non si poteva volergliene. Anche nei suoi giudizi più taglienti non c’era mai cattiveria, solo divertimento.
La villa dell’Agnelli all’Argentario era bella ma discreta. Aveva una sola guardia del corpo, un ex cancelliere, Calimero, di nome e di fatto, che fungeva più che altro da segretario. Quasi a fianco c’era invece la villa faraonica di Genghini, un costruttore romano molto noto all’epoca, che girava con nove guardie del corpo. Questo Genghini ci incuriosiva parecchio e decidemmo di invitarlo una sera per un aperitivo. Arrivò con un incredibile vestito da yachtman e un’altrettanto incredibile moglie, tutta cotonata, d’un biondo inverosimile. Alla fine di un’ora piuttosto imbarazzata, in cui nessuno sapeva cosa dire, Genghini, al momento di congedarsi, tirò fulmineamente fuori dal taschino un assegno e farfugliando qualcosa, lo mise in mano all’Agnelli, davanti a tutti.
La sera, a cena, ci fu una sorta di «consiglio di famiglia» su quella faccenda dell’assegno. C’era una allegra combricola: il conte Alvise De Robilant che si accompagnava a una bellissima ragazza venezuelana e una giovanissima Stella Pende che filava con uno dei figli di Suni, Lupo. Io dissi che l’assegno andava restituito immediatamente. E De Robilant, rivolto a Suni: «Dai retta a Fini, che è un uomo di mondo». Io di anni ne avevo 32 e sentirmi dare dell’”uomo di mondo” dal conte De Robilant mi fece una certa impressione. Il giorno dopo il solerte Calimero fu spedito quasi all’alba alla villa dei Genghini con l’assegno in bocca.
Chiesi a Suni di quanto fosse l’assegno. «Oh, non ho avuto il tempo di guardarlo» rispose con nonchalanche. Mentiva spudoratamente. Aveva avuto tutta la notte.
Col tempo persi rapporti con l’Agnelli. Il successo (sottosegretario agli Esteri, ministro) le aveva dato un po’ alla testa, la bella spontaneità se n’era andata.
Ci reincontrammo, moltissimi anni dopo, all’aeroporto di Linate. Fu gentilissima e mi accompagnò a casa con la sua macchina. Mentre l’autista guidava, le chiesi: «Allora signora, me lo vuol dire adesso di quant’era quell’assegno di Genghini?». Lei sorrise. Ma non rispose. Così a me è rimasta la curiosità di sapere quanto un avventuriero senza cervello come Genghini valutasse la corruzione di un’Agnelli.
Massimo Fini
Fonte: http://www.massimofini.it/
Uscito su “Il gazzettino” il 22/05/2009