DI PAOLO SENSINI
Riceviamo e volentieri pubblichiamo un breve articolo sugli sviluppi delle elezioni politiche siriane, di cui i media occidentali non hanno riferito assolutamente nulla.
Le elezioni del 7 maggio volevano essere un tentativo di pacificazione per la Siria, ma il disinteresse e il silenzio del circo mediatico internazionale ne hanno definito la cornice, cercando in qualsiasi maniera di squalificarne e vanificarne ogni sforzo propositivo. Insomma, un déjà vu al quale si è già assistito molte volte.
Eppure nel paese erano presenti da giorni ispettori dell’ONU (al momento delle elezioni ne erano presenti circa settanta, mentre l’attesa è di trecento osservatori complessivi entro la fine di maggio), che avrebbero potuto svolgere un ruolo non marginale a latere delle sedi elettorali. Avviata il 15 aprile dopo l’approvazione all’unanimità del Consiglio di sicurezza della risoluzione 2042, la missione ONU ha seguito di poco il piano in sei punti di Kofi Annan e della Lega Araba.
Il 21 aprile è stata votata la risoluzione 2043: il Consiglio dell’ONU “stabilisce, per un periodo iniziale di novanta giorni, una missione di supervisione, denominata ‘UNSMIS’, inerente la rapida disposizione di circa trecento osservatori non armati, supportati da componenti civili e sistemi di trasporto aereo, finalizzati a monitorare la riduzione degli scontri a fuoco in tutte le loro forme e da parte di tutte le forze in campo”.
Un totale di 7.195 candidati (di cui 710 donne) per 250 poltrone in Parlamento: questa la posta in gioco per le prime elezioni multipartitiche nella storia recente del paese.
La mattina delle elezioni, per chi si trovava a Damasco come il sottoscritto e ha quindi potuto seguire da vicino lo svolgimento della consultazione, vi era grande fermento intorno ai seggi elettorali. Segno che l’evento era sentito come importante e, per molti versi, foriero di aspettative positive per il futuro del paese. Dovunque si vedevano sciamare sulle strade della capitale giovani muniti di pettorine elettorali che distribuivano febbrilmente prospetti informativi sui candidati dei vari partiti in lizza. Lo stesso movimento di folla l’ho potuto riscontrare di persona anche all’interno di un edificio adibito a seggio posto sulla piazza di Bab Thuma, una zona di snodo assai importante per la città, dove un flusso ininterrotto di persone si accalcava per poter apporre la propria croce sul simbolo prescelto. Per scongiurare eventuali brogli elettorali, ad ogni votante veniva inoltre chiesto di lasciare un’impronta dell’indice intriso di inchiostro rosso.
Il risultato, dopo lo spoglio dei voti, è stato il seguente: il Ba‘th, partito al potere da mezzo secolo in Siria, ha vinto le elezioni legislative. In attesa dei risultati ufficiali e dei dati precisi sull’affluenza alle urne, la stampa siriana ha diffuso i parziali dello scrutinio concluso nei principali distretti del Paese. Secondo il quotidiano “al Watan”, il Ba‘th, che guida il Fronte dell’Unità nazionale (جبهة الحدة الوطنية), versione elettorale del Fronte nazionale progressista (FNP), ha riportato “una vittoria schiacciante’” non solo a Damasco, ma anche a Daraa e Idlib, roccaforti delle proteste anti-regime.
I partiti di “opposizione”, raggruppati nel Fronte del cambiamento e della liberazione (جبهة التغيير والتحرير), hanno ottenuto l’elezione nel distretto di Damasco solo del loro leader, “l’oppositore” Qadri Jamil, segretario generale del neonato partito della Volontà nazionale (الإدارة الوطنية).
Nella regione costiera di Tartus, i candidati del B‘ath hanno stravinto accanto a “qualche indipendente”. Analogamente nella regione meridionale di Suwayda, a maggioranza drusa, l’affluenza è stata del 58 per cento e anche qui il B‘ath ha stravinto, con alcuni indipendenti eletti.
Nella regione frontaliera di Qunaytra (quel che rimane del Golan siriano), su cinque seggi quattro sono andati al Fronte dell’Unità nazionale guidato dal B‘ath e uno a un indipendente. Stessi risultati nella regione meridionale di Daraa e in quella nord-occidentale di Idlib.
Il Syrian National Council (SNC), l’organismo geneticamente modificato guidato dall’estero da Burhan Ghalioun e chiamato spregiativamente dai siriani “Consiglio di Istambul”, ha boicottato le elezioni bollando come “falsa” l’apertura a nuove forze politiche: i nuovi gruppi partitici (nove in totale), affermano dal SNC, “sono costrutti artificiosi del governo, con candidati sconosciuti”.
Anche per l’ONU, cui tuttavia non spetterebbe pronunciarsi sulle scelte politiche e istituzionali interne a un paese, “le elezioni non rientrano nella logica di un dialogo politico globale e inclusivo che permetta un futuro democratico per la Siria”. Questo il clima “preparatorio” che aleggiava sulle consultazioni elettorali siriane.
A urne chiuse, mercoledì 9 maggio, un ordigno è stato fatto esplodere vicino alla città di Daraa, pochi istanti dopo il passaggio del convoglio ONU, ove sedeva anche il capo della missione, il generale norvegese Robert Mood. Ma era solo un piccolo assaggio di quello che sarebbe successo di lì a poche ore. Il giorno seguente, infatti, sulla trafficata tangenziale a due corsie che conduce verso l’aeroporto di Damasco, su cui si affaccia il quartiere popolare di Al Qazzaz, zona solitamente affollata in quelle ore da impiegati diretti al lavoro e da studenti, un duplice attentato ha sconvolto la città come mai era successo in precedenza. È stato il più devastante atto terroristico compiuto da kamikaze da quando si è aperta la crisi in Siria, che è costato la vita a 60 persone e quasi 400 feriti, di cui molti gravissimi.
I media internazionale, più zelanti che mai, hanno subito insinuato il dubbio che l’attentato, non essendo stato nel frattempo rivendicato da nessuna organizzazione, potesse essere opera dello stesso regime per far ricadere la colpa sugli oppositori interni ed esterni. Un’accusa neppure troppo velata al governo e agli apparati di sicurezza siriani di aver organizzato il massacro dei suoi stessi cittadini, accusa naturalmente mai neppure presa in esame nel caso di atti terroristici in altri paesi, pena l’infamante onta di “complottismo”. “Cosa sarebbe successo se invece che a Damasco, in Siria, un attentato del genere si fosse verificato a Tel Aviv o Gerusalemme?”, ha chiesto polemicamente alla comunità internazionale il patriarca greco-cattolico (melchita) Gregorios III Laham.
Domanda più che legittima e sensata, ma che purtroppo non otterrà risposta alcuna. L’unico risultato tangibile di questo efferato gesto terroristico, è quello di aver definitivamente fatto calare un silenzio tombale sui risultati delle elezioni del 7 maggio, concentrando da qui in avanti tutta l’attenzione internazionale sulla “insostenibile situazione nel regime di Bashar al Assad” e sugli atti presenti e futuri della “Comunità internazionale”.
A fine aprile la nave Lutfullah II, registrata in Sierra Leone, è stata fermata nel porto libanese di Salaata, nei pressi di Beirut: trasportava svariati container con armi da fuoco leggere e pesanti destinate ai “ribelli” siriani.
Partita dalla Libia, la Lutfullah II si è fermata ad Alessandria d’Egitto per ripartire alla volta di Tripoli (Libano settentrionale), snodo cruciale per i mercenari al soldo di Turchia, Qatar, Arabia Saudita, Israele e paesi Nato.
Com’è noto, infatti, le potenze occidentali e i paesi del Golfo hanno offerto supporto economico ai “ribelli”, finanziando con cento milioni di dollari le azioni terroristiche volte a rovesciare il regime siriano. Non ci sarebbe dunque nulla da stupirsi di cargo colmi di armamenti, se non fosse per il “piano Annan” e le risoluzioni ONU che auspicano la “fine degli scontri”.
Ma la Siria non è la Libia, e la partita è ben lungi dall’essersi conclusa così come auspicavano la NATO e suoi vassalli mediorientali. Allah, Suriya, Bashar wa bass!
Paolo Sensini
14.05.2012