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DI LUCA PAKAROV
rollingstonemagazine.it

Scendendo da Cagliari verso Carbonia la prima cosa che balza all’occhio è l’assenza di furgoni o camion nella strada principale, alla guida molti anziani con cappello, qualche famiglia, pochissimi giovani. A destra e a sinistra calve colline rosse brillanti che ricordano il Grand Canyon, nemmeno un’anima, piccoli bacini porpora o nella tortuosa e suggestiva strada da Nebida a Masua, coste mozzafiato, mare cristallino, cielo tridimensionale, indimenticabili location di spot pubblicitari.

Nel sud della Sardegna inferno e paradiso non si distinguono più. Anche quello che all’apparenza sembra un motivo paesaggistico è emanazione del mondo torvo e impenetrabile delle viscere che per decenni ha garantito la vita in superficie.

Le colline e i placidi laghi rossi sono antiche discariche di piombo, alluminia, zolfo e bauxite, “dimenticanze” delle miniere chiuse in tutta fretta negli anni ’60, “dimenticanze” di ogni amministrazione politica e immobile disastro ambientale. Le rovine grigie delle antiche miniere emergono dai costoni come denti marci e sembrano vecchie e malvagie sentinelle di un presente assente, un mondo del lavoro in bianco e nero, ormai perduto ed eroico, a cui è stato voltato le spalle. Le montagne ogni tanto franano a causa di un sottosuolo scavato come Emmental. Tracce di una dura civiltà, sudore, buio, polvere, morte, che invece di essere ripudiata richiama l’orgoglio per una tradizione che adesso, scopri, esiste ancora 400 metri sotto la statale. E non siamo in Metropolis di Fritz Lang, anche se, come nel film, pure in Italia la subdola operazione che si sta compiendo è quella di nascondere gli operai, come fossero estinti.

Il Sulcis Iglesiente è terra di emigrazione e di immigrazione. Notate bene immigrazione. E anche se oggi troviamo comunità di montatori, saldatori e altri professionisti in Kazakistan, in Siberia e in Sudafrica, basta buttare un occhio sui cognomi nelle lapidi dei cimiteri o sull’elenco del telefono per capire che qui la gente arrivava da ogni parte d’Italia per farsi una vita.

Ma è una storia di umiliazioni e tradimenti in cui sono i lavoratori le vittime di un sistema che timbra carte lontano dall’isola, che promette, muove vagonate di soldi e ferma quelle di carbone per interessi personali, in cui si decide di fermare l’unica azienda che produce alluminio per comprarlo dall’estero. Dove anche la criminalità organizzata abbandona il territorio perché non ci sono soldi da intercettare. Restano i demoni di sempre: affaristi, clientelismo, private necessità, incompetenza e un confronto bovino fra politici perversi.

L’unico Stato Sociale riconosciuto nella terra più povera d’Italia è la famiglia, le pensioni dei vecchi minatori (che, attenzione, stanno finendo, con tutto quello che ne conseguirà quando a breve si arriverà al dunque), gli amici che, in disoccupazione, vengono ad aggiustarti una porta o l’auto che non si avvia. Una solidarietà d’altri tempi perennemente in attività, che si palesa quando, durante lo sciopero generale di Carbonia del 2009, l’intera popolazione (il 100%!) scende in strada e partecipa. C’è stato uno sciopero generale anche oggi, 29 ottobre, proclamato da Cgil, Cisl e Uil territoriali, come ha dichiarato Fabio Enne, segretario generale della Cisl del Sulcis, ad Adnkronos, “per sollecitare gli atti e le azioni urgentissime e concrete in capo alla responsabilità della Giunta regionale, e perché sia chiaro al Governo che l’impegno assunto dallo stesso esecutivo nazionale per il 13 novembre deve accompagnarsi con altrettanti atti immediatamente realizzabili a contrasto della crisi”.

Ci si chiede, come mai si vuole chiudere una delle fabbriche che produce l’alluminio migliore d’Europa? Perché si boicotta lo stabilimento spostando le produzioni altrove? Perché si mandano in malora fabbriche che poi, anche per mancanza di un progetto di bonifica, fanno più danni quando sono chiuse? Non servono nozioni astronomiche per capirlo, anche se parrebbe.
Pure se lontani da Roma, nell’isola c’è una classe politica completamente staccata dalla realtà, inerte, che non prende decisioni industriali ma solo politiche, che condanna al declino centinaia di famiglie. Qui il rapace sindaco di Iglesias, poi parlamentare, Mauro Pili del PDL, si chiuse di sua iniziativa nella miniera di Nuraxi Figus, per protesta, senza fare un’assemblea generale. Un atto politico che ha avuto molto eco al di là del Tirreno ma mal digerito dai suoi concittadini che, ancora una volta, hanno dovuto fare i conti con la speculazione emozionale di chi cerca di ribaltare i propri errori con atti clamorosi ma per niente efficaci.

La domanda, dal di fuori è: chi ve lo fa fare di lottare per un posto di lavoro del genere?
Gianfranco, ex-giornalista che mi accompagna, mi fa notare: «Nel Sulcis c’è una cultura industriale radicata nel territorio, chi lavora non guarda se è sabato, domenica o Natale». C’è da ricordare che dopo la mattanza di Buggerru nella quale tre minatori persero la vita per manifestare contro la riduzione della pausa pranzo da 3 ore a un’ora, ci fu nel 1904 il primo sciopero generale italiano. Qualcosa di più di un evento storico perché, i nostri diritti, quelli che giorno per giorno ed efficacemente – c’è da dargliene atto – smantellano, sono nati proprio da lì. Anche per questo gli operai con i sindacati hanno una fortissima capacità di mobilitazione e di gestione politica della mobilitazione. Sempre Gianfranco mi racconta: «Quando preparavo la scaletta delle interviste, prima del sindaco e del vescovo, mettevo per importanza il segretario della CGIL di Carbonia ed Iglesias». Ed io eseguo di conseguenza.
Carbonia nacque con Regio Decreto dai deliri autarchici di Mussolini. È una grande piazza vuota delimitata dalla massiccia architettura fascista in cui spicca la Torre Littoria. Lontana dai contagi del continente, come in un garbato esilio, oggi si sta spegnendo. Qui c’è anche quella che fu la più grande miniera d’Italia, quella di Serbariu, 130 pazzeschi chilometri di tunnel dove, all’epoca, la propaganda del regime fotografava pasciute e sorridenti comparse travestite da minatori che raccontavano la miniera come un piacevole luogo di villeggiatura.

Roberto Puddu, segretario generale CGIL del Sulcis Iglesiente, mi spiega che con il presidente della provincia Soru c’era una leadership e un progetto definito, il suo problema, però, era che voleva vincere per il popolo e non con il popolo. Faccio la prima provocatoria domanda: «Ma a cosa servono queste aziende se è vero che non producono utili?». Mi viene risposto con una domanda – e provate a rispondere da soli – qual è il settore attualmente che non riceve aiuti? «Ferrara, per il suo giornale, prende 4milioni di euro per pubblicare 4 fogli, in proporzione abbiamo calcolato che vale 46 volte l’aiuto offerto per l’energia elettrica necessario alla produzione di alluminio. Solo che con quest’ultimo si mantengono migliaia di lavoratori». In effetti, in tutto il mondo, si elargiscono contributi pubblici che abbattono i costi della produzione di alluminio: «Se non ci fossero i contributi l’alluminio invece di 2200 dollari costerebbe 6800, e tu questo registratore lo pagheresti 200 euro invece che 100». Eppure sembra che soldi ne arrivino, solo che vengono spesi male: «La Regione avviò a Iglesias l’unica fabbrica di lana di roccia del Paese. Poi è stata ceduta ai privati con l’obbligo di esercirla per almeno 5 anni, sono arrivati a 7, hanno fatto un sacco di soldi, l’hanno smontata e portata in India. Duecento disoccupati».

Anche se in pochi credono al processo di riconversione ad energie non inquinanti quello che i sindacati vorrebbero è di aumentare l’estrazione e miscelare il carbone con altri combustibili per soddisfare, almeno in parte, la fame di energia elettrica del Paese, come cioè fanno in Germania con la lignite che usano in toto. Per far questo bisognerebbe invertire la politica industriale e investire in tecnologie innovative. Bisognerebbe, perché è arrivata prima la politica con tutti i suoi galoppini che ha bloccato anche l’altra risorsa, il turismo, fermando il progetto di unire l’aeroporto di Cagliari con la linea ferroviaria.

E, infatti, lentamente la conversazione finisce su Berlusconi che nell’incontro con i sindaci e la regione prima delle elezioni, raccontò barzellette e di un’improbabile, salvifica, telefonata a Putin per non far chiudere l’Eurallumina, in mano della russa RusAl. Il PDL vinse le elezioni con Cappellacci, la fabbrica qualche mese dopo chiuse, 750 lavoratori per strada. Fu il primo atto dello sfascio dell’intera filiera. Quello che chiaramente vuole dirmi Puddu è come certe tragedie che non lasciano indifferente l’opinione pubblica siano una cassa di risonanza che favoriscono, oltre all’esposizione mediatica dei politici, il finto interessamento di aziende minori nella trattativa per l’acquisizione di Alcoa al solo scopo di ottenere pubblicità (come nel caso della KiteGen di Torino che garantiva una nuova tecnologia che mandava nella stratosfera aquiloni per ottenere energia pulita o qualcosa del genere). «Il protagonismo quando non si riconduce ad un’organizzazione diventa personalismo ed individualismo… Uno si salva, ma gli altri?».

Quando chiedo qual è il piano d’emergenza, cosa succederebbe se chiudessero Alcoa e/o Carbosulcis, la risposta è lapidaria: «Il disastro». Il carbone allora si capisce bene è più di un fossile, è dignità e spessore culturale di un territorio e che non mantenerlo, oltre alla incredibile logica di dover comprare carbone ed alluminio dall’estero, si tradurrebbe in costi molto maggiori, a livello economico e sociale.

Sostituisco vescovo e sindaco con Roberto Cossu, trentacinquenne che non a caso si fa chiamare Diablo – nemmeno troppo vago omaggio ai Litfiba – ed ex-interinale Alcoa, voce dei Golaseca, un gruppo rock formato per tre quinti da dipendenti della grande azienda di Portovesme, che hanno dedicato il loro demo al matriarcato. «Si sta fra l’incudine e il martello, da una parte non si può morire di fame e dall’altra non si può morire di malattia». E ok, ma quello che più mi meraviglia per un musicista è la sua voglia di rimanere sul territorio dov’è nato. Mi racconta di quando ha continuato a lavorare con un dito rotto perché in ostaggio dal ricatto non scritto del rinnovo del contratto, come accade ai suoi colleghi. Impieghi che molti di noi non si sognerebbero di fare ma che, per ottenere un contratto, bisogna sgomitare.

«Nell’Alcoa non si lotta per gli ammortizzatori sociali, si lotta per lavorare. Per un lavoro svolto con la maschera antigas, con la polvere o con dei forni a 1400 gradi. Cassa integrazione e mobilità sono la morte dell’uomo». Fa autocritica Roberto: «Gli permettiamo di trattarci come vogliono», ma per il resto ha le idee fin troppo chiare: «Hai presente l’esplosivo che hanno trovato vicino all’Alcoa prima della manifestazione del 10 settembre? Anche se la stampa ha raccontato che si trattava di un ordigno fasullo, erano candelotti pronti, senza innesco… E infatti li hanno fatti detonare. È come dire: sappiate che qui il plastico non ci manca». «E c’è gente disposto ad usarlo?». «Secondo te? C’è gente disposto ad usarlo e che sa usarlo, stai parlando di persone disperate». Specifica che nessuno vuole arrivare alla violenza però la situazione è tesa: «Sono padri di famiglia, è gente che se parte non si ferma più». Conclude dicendo: «Questa nazione è un incubo».

Un dato significativo è che nell’ultimo anno l’incredibile spopolamento della regione si è bloccato poiché i lavoratori non hanno le capacità economiche di portare con sé le famiglie, preferendo inviare soldi a casa. I numeri sono impressionanti. La contraddizione, che poi non è una contraddizione se si pensa allo sfruttamento del lavoro, è che quando un’occupazione durissima diventa civile, con degli standard che permettono almeno qualche speranza di vita, non serve più. Il discorso all’oggi vale per ogni settore. Quello che succederà tra poco nessuno lo sa, pochi stanno tranquilli, chissà non si riparta proprio da Buggerru.

Luca Pakarov
Fonte: www.rollingstonemagazine.it
Link: http://www.rollingstonemagazine.it/politica/notizie/reportage-rs-sulcis-in-fundo/59625
29.10.2012

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