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Silvio a Ballarò visto da Travaglio

DI MARCO TRAVAGLIO

Berlusconi che parla con persone diverse da lui e da Bruno Vespa. E risponde persino a qualche domanda. In diretta. Senza sfondo con cielo azzurro e nuvolette. E senza giornalisti impagliati davanti. Eventi che si verificano a ogni morte di Papa, tant’è che molti, ignari, hanno pensato a un ritorno su Rai3 di Sabina Guzzanti. Meglio non farci l’abitudine, comunque, anche perchè non è andata benissimo per il Cavalier Bellachioma.
Sarà stata la mancanza di allenamento (l’ultima volta fu nel 1996). Sarà stata la fretta con cui si è autoinvitato, travestito da riserva del ministro La Loggia (onde evitare che ne dicesse qualcun’altra sul Papa, provocando una crisi diplomatica con uno dei pochi Stati che ancora ci parlano: il Vaticano). Sta di fatto che il «Ballarò» dell’altra sera è stato, per l’ospite inatteso, una catastrofe biblica. Un caso di autotortura, proibito dalla Convenzione di Ginevra. Invano, nelle pause pubblicitarie, i due secondi seduti a bordo ring, Paolo Bonaiuti e Angelino Alfano, tentavano di rianimarlo dandogli una mano di fondotinta (dopo ogni stacco, ricompariva più abbronzato di prima). Non che Floris fosse meno piacione del solito. Non che D’Alema e Rutelli infierissero più di tanto. Ma Lui ha fatto tutto da solo. Suicidio in diretta, come da maledizione di Montanelli: «Lasciatelo fare: è come il vaiolo, bisogna iniettarselo per vaccinarsi». Il repertorio era quello di sempre: si compiaceva molto di essere Berlusconi, raccontava fatti mai visti, snocciolava cifre e percentuali alla rinfusa, riduceva tasse, ritirava truppe, dichiarava guerre, firmava paci, prometteva eventi mirabolanti che poi smentiva a stretto giro, negava di aver mai detto a «Panorama» che una vittoria delle sinistre porterebbe l’Italia al regime del terrore e poi sosteneva di essere stato frainteso dalle sinistre che porteranno l’Italia al regime del terrore. Ma l’effetto, senza la spalla di Vespa, lontano dallo studio di Vespa, privo del pubblico finto di Vespa, era l’opposto di sempre. Cambiava il fondale. Per la prima volta dopo dieci anni, Bellicapelli aveva di fronte persone normali che reagivano da persone normali. Quando ne sparava una, anzichè annuire compunte come a «Porta a Porta», si sbellicavano dalle risate. Quelle risate che l’avrebbero seppellito da dieci anni, se solo gli avessero fatto trovare davanti qualcuno normale che ride quando c’è da ridere e piange quando c’è da piangere. Ma, fino all’altroieri, non si poteva. Non era previsto. Lui diceva per la centesima volta che «la sinistra controlla università, tv, radio, banche, procure della Repubblica, Corte costituzionale e poteri forti» (stavolta, per cambiare un po’, ha aggiunto «le scuole medie superiori» e, testuale, «i Consigli di Stato», che per lui sono parecchi). Solo che stavolta la gente rideva, ed è crollato tutto. Ma proprio tutto, anche il lifting. Per la fretta, non era passato al restauro e doveva essersi scordato a casa i tiranti. O forse, più semplicemente, non s’era portato appresso il cameraman di fiducia (quello di Ballarò, noto comunista, indugiava impietoso sui bargigli, per non parlare della raggera trapiantata e imbrillantinata). Insomma, lo spettacolo non era dei migliori. A un certo punto, sull’angolo sinistro della bocca, è comparsa pure una traccia di bavetta alla Forlani. Ogni sforzo di innovare il copione è stato vano. Non funzionava niente. Il Cavalier Bollito tentava di promettere «la soppressione degli enti inutili» (il Parlamento? il Quirinale? i Tribunali? Non ha specificato). Niente. Provava ad annunciare che ora sistemerà i conti pubblici «con la digitalizzazione degli archivi, grazie al nostro geniale ministro Stanca che ci sta lavorando». Niente. Replicava la vecchia gag dell’imprenditore ghe-pensi-mi: «So bene cos’è una previsione di bilancio» (infatti lui li truccava, eppure aveva collezionato 6 mila miliardi di debiti). Ripeteva che lui non ha «mai insultato nessuno». Ancora niente (anche se nessuno in studio ricordava uno dei suoi mille insulti). Allora passava alle minacce: «Ci sono molte cose che facciamo ogni giorno e di cui nessuno sa nulla».


È stato l’unico momento in cui un brivido gelido ha percorso le schiene degli astanti. Poi si è subito rientrati nella commedia dell’arte, quando l’anziano caratterista ha informato il pubblico che «sulle reti che ancora (proprio così: ancora, ndr) appartengono alla mia famiglia non s’è mai vista una trasmissione faziosa, di attacco agli avversari politici». E quando ha avuto un pensiero gentile per il duo Bondi&Cicchitto («Forza Italia in questi anni non è esistita»). E quando, con mossa geniale, ha rinfacciato a D’Alema «i vostri sindacati», regalando alla sinistra i pochi lavoratori che ancora lo votavano. Alla fine, contagiato dall’ambiente e applaudito con una mano sola financo da Alfano e Bonaiuti, rideva lui stesso delle cose che diceva. La mascella volitiva si decomponeva in un ghignetto ammiccante che lo rendeva persino simpatico. Ancora un’oretta di trasmissione, e avrebbe confessato che è stato tutto uno scherzo, undici anni di divertimento puro a cacciar balle in un paese che adora abboccare, lui stesso non immaginava di durare tanto, ma ora è finita, a meno che non lo salvino un’altra volta i comunisti (lui, in segno di pace, indossava la stessa cravatta di D’Alema).

Al suo fianco, spaurito e spettinato come Paperoga, sedeva Gianni Alemanno. Invocava «un conclave del centrodestra», dando per morto il capo. Ma parlava il meno possibile e, non inquadrato, biascicava sottovoce qualcosa di impercettibile: forse contava a uno a uno i voti che volavano via a ogni delirio del Cavaliere. Poi, zitto zitto, scivolava lentamente con tutta la poltrona verso l’uscita. Per non dare troppo nell’occhio e poter dire, un giorno, di non essere mai stato lì.

Marco Travaglio
Fonte:www,onemoreblog
link:http://www.onemoreblog.org/archives/005642.html
7.04.05

Da l’Unità 7.04.05

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